Si terrà domani, dalle 9 alle 13, nel Palazzo Podestà, l’evento organizzato dall’Ambulatorio Caritas diocesana di Faenza - Farsi Prossimo, intitolato “Gli ambulatori solidali: contrasto alle disuguaglianze in salute”. L’iniziativa si propone di affrontare il tema delle disuguaglianze sanitarie, con un focus particolare sulla salute dei migranti e delle persone più vulnerabili del territorio.
L’evento si aprirà con i saluti istituzionali dell’assessore Davide Agresti, responsabile Welfare per il Comune di Faenza, e di Donatina Cilla, direttrice del Distretto Sanitario di Faenza. La moderazione sarà affidata ad Antonella Caranese, che opera nell’Area Servizi alla Comunità dell’Unione.
La prima parte del programma prevede una presentazione a cura di Gabriella Reggi, dell’Associazione medici cattolici e volontaria di Farsi Prossimo, la quale illustrerà il lavoro e gli obiettivi dell’ambulatorio solidale di Faenza. A seguire, Giulia Silvestrini, direttrice dell’Igiene e Sanità Pubblica di Ravenna, parlerà di salute pubblica e determinanti sociali della salute, con particolare attenzione ai fattori che influenzano il benessere delle comunità migranti.
Un momento centrale dell’incontro sarà il tavolo aziendale dedicato a “Migranti e vulnerabilità”, dove interverranno Antonella Mastrocola, direttrice del Csm Ravenna, e Rossella Segurini, referente per l’assistenza sanitaria agli stranieri dell’Ausl. Durante il confronto verranno illustrate le modalità di accesso al Servizio sanitario nazionale per i migranti e le principali esenzioni disponibili, sottolineando le criticità e le opportunità di miglioramento del sistema. La seconda parte dell’incontro sarà caratterizzata da una tavola rotonda coordinata dal Gris (Gruppo regionale immigrazione e salute) della Società italiana di medicina delle migrazioni, rappresentato da Alice Cicognani e Sabina Giuliodori. Questo spazio sarà dedicato al confronto di esperienze tra diversi ambulatori solidali presenti sul territorio dell’Ausl della Romagna, che racconteranno il proprio lavoro e il loro impegno quotidiano. Saranno presenti rappresentanti di varie realtà, tra cui l’Ambulatorio Caritas diocesana di Faenza - Farsi Prossimo ODV, e altre associazioni e strutture sanitarie del territorio, che operano per offrire assistenza sanitaria ai più bisognosi e promuovere l’integrazione sociale.
L’incontro, patrocinato dall’Unione Faentina e dalla Fondazione Pro Solidarietate, sarà un’occasione per sensibilizzare la comunità sulle sfide e le opportunità nel campo della sanità solidale, e rappresenta un momento di riflessione e di progettazione di strategie condivise per ridurre le disuguaglianze sanitarie.Per informazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Il segretario della Cgil spiega le ragioni dello sciopero generale del 29 novembre. “Non abbiamo un altro strumento che non sia quello di chiedere alle persone di scendere in piazza con noi e di battersi”
“Io credo che sia arrivato il momento di una vera e propria rivolta sociale perché avanti così non si può più andare”. La frase del segretario generale Maurizio Landini, a margine dell’assemblea nazionale delle delegate e dei delegati della Cgil a Milano, arriva alla fine di una lunga riflessione sulle ragioni che hanno portato la Cgil e la Uil a indire lo sciopero generale per il prossimo 29 novembre.
“Sarebbe utile che anche la politica si occupasse di questi temi, della condizioni materiali e di vita delle persone, perché i bisogni dei cittadini, il salario, la sanità, lo studio, la stabilità devono tornare al centro. E noi vogliamo migliorarle la condizione delle persone. E siccome la politica non ci ascolta, non abbiamo un altro strumento che non sia quello di chiedere alle persone di scendere in piazza con noi e di battersi, rinunciando a una giornata di stipendio, per dire basta a questa situazione”.
Cassa integrazione e chiusure, fondi tagliati, Stellantis che si disimpegna: il settore annaspa. De Palma, Fiom: “Da ex Fiat e governo nessuna risposta”
La transizione industriale, si dice. Ma qui il rischio è la “cessazione” industriale. Il comparto dell’automotive in Italia è arrivato a un drammatico livello di criticità. Il disimpegno di Stellantis, le difficoltà della Germania, il taglio al fondo del settore deciso dal governo, tutto sembra concorrere alla sua scomparsa. Un settore strategico per il Paese, che ancora oggi rappresenta l’11% del Pil nazionale.
La situazione italiana s’inserisce in un contesto continentale complicato. Le notizie provenienti dalla Volkswagen, intenzionata a chiudere tre fabbriche in Germania (con migliaia di licenziamenti) e a ridurre la capacità produttiva degli altri sette impianti tedeschi, sono molto allarmanti. Basti dire che Lamborghini e Ducati sono direttamente legate ad Audi e quindi al gruppo Volkswagen, e che gran parte della filiera della componentistica (soprattutto quella del Nord Italia) lavora per l’industria automobilistica germanica.
A questo lento declino lavoratori e sindacati stanno cercando di opporsi con ogni mezzo. Venerdì 18 ottobre Fiom Cgil, Fim Cisl e Uil Uil hanno organizzato uno sciopero generale, con manifestazione nazionale a Roma. Una settimana dopo, venerdì 25 ottobre, si sono fermati i lavoratori della filiera non metalmeccanica dell’automotive (il comparto della componentistica, in sostanza), per uno sciopero organizzato da Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil.
“Stiamo vivendo il fallimento del suo piano industriale relativo agli stabilimenti in Italia, che in verità piano industriale non è”, ha detto il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma intervenendo mercoledì 30 ottobre in Parlamento, nel corso di un’audizione informale da parte delle Commissioni Attività produttive di Camera e Senato in merito alla situazione dell’ex Fiat.
“È una semplice enunciazione di principi e di intenti non corroborati da impegni precisi e vincolanti”, prosegue il leader sindacale: “Non ci sono garanzie sulle produzioni future. E anche laddove ci sono annunci, l’avvio delle nuove produzioni è continuamente spostato in avanti, come ad esempio a Melfi. Non sono previsti modelli mass market e in non tutti gli stabilimenti sono previste future produzioni di modelli elettrici, come ad esempio a Pomigliano”.
Il vero problema di Stellantis in Italia, dunque, non è la transizione. “In Italia non si producono auto elettriche, a eccezione della 500 a Mirafiori, ma solo modelli ormai obsoleti esclusivamente endotermici”, riprende De Palma: “Le attuali produzioni in Italia sono ancora modelli decisi e allocati da Fca e non da Stellantis. L’amministratore delegato Tavares sostiene che le scelte industriali sono determinate dal mercato, un concetto utilizzato soprattutto per giustificare lo stop al progetto gigafactory di Termoli. Dovrebbe invece essere il contrario: le scelte industriali dovrebbero servire a ‘governare’ il mercato, soprattutto a delinearne il futuro”.
Quali sono le conseguenze di quest’assenza? Anzitutto l’uso massiccio degli ammortizzatori sociali, come sta avvenendo in tutti gli stabilimenti Stellantis in Italia. E c’è di più: “Da almeno dieci anni è in atto una politica di ristrutturazione strisciante attraverso le uscite volontarie incentivate dei lavoratori: 3.800 solo nel 2024, oltre 12 mila dal 2015. E, a domanda specifica su quando terminerà questo processo, non vi è stata alcuna risposta da parte dell’azienda”.
Il tavolo, avviato presso il ministero delle Imprese da quasi un anno e mezzo, ha l’obiettivo di trovare le condizioni per riportare la produzione in Italia al livello di 1 milione di veicoli all’anno. “Un obiettivo importante ma insufficiente a dare garanzie di saturazione a tutti gli stabilimenti”, spiega il segretario generale Fiom: “A fronte di una capacità installata di oltre 1,5 milioni di veicoli all’anno, riteniamo che l’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di 1 milione di auto e 300 mila veicoli commerciali leggeri”.
Ma anche l’obiettivo di 1 milione di veicoli risulta oggi fuori portata. “La produzione nel 2024 – illustra il leader Fiom – difficilmente supererà le 400 mila unità, con un calo di oltre il 30 per cento rispetto l’analogo periodo del 2023 e conseguente a una dinamica che vede la produzione nazionale passare da 1,4 milioni nel 2000 ai livelli attuali. In questo contesto di progressivo arretramento, al tavolo automotive Stellantis non ha dato alcun tipo di garanzia sia produttiva sia occupazionale”.
Stellantis ha invece dichiarato di condividere l’obiettivo del tavolo solo a condizione che fossero garantiti dal governo incentivi agli acquisti con un piano pluriennale, la riduzione dei costi energetici e la protezione del mercato interno dall’ingresso di altri costruttori. “Tutto questo – chiosa De Palma – non può essere definito un piano industriale: Stellantis deve dare risposte al governo, ai sindacati, alle lavoratrici e ai lavoratori, al Paese”.
La situazione dell’ex Fiat ricade anche sulle numerose imprese dell’indotto e della componentistica, dove si registra un’ondata di chiusure e cassa integrazione. “Sono aziende – precisa il segretario generale – insediate nei territori degli stabilimenti Stellantis e con un rapporto di monocommitenza, o comunque con una percentuale del proprio fatturato molto significativo, verso la multinazionale. E sono attraversate da processi di ammortizzatori sociali che, in non pochi casi, sono ormai prossimi al termine di massimo utilizzo”.
A questa situazione si aggiungono le scelte sbagliate, o anche le non scelte, dell’esecutivo. “Al progressivo disimpegno di Stellantis si sommano l’assenza di politiche industriali e la cancellazione dei fondi per la transizione da parte del governo”, argomenta il segretario generale: “Nel corso del 2024 ha stanziato 950 milioni di euro come incentivo all’acquisto di auto non inquinanti. Scelta sbagliata, perché non condizionata a garanzie produttive e occupazionali in capo a Stellantis. Tanto che, appunto, le produzioni quest’anno stanno precipitando di oltre il 30 per cento rispetto all’anno scorso”.
L’automotive italiana avrebbe invece bisogno di un governo che anche in Europa spinga sulla transizione, ma con una dotazione straordinaria di risorse per rendere il passaggio socialmente sostenibile. “Le risorse pubbliche per la transizione verso la sostenibilità ambientale nell’auto – riprende il leader sindacale – vanno indirizzate alla salvaguardia delle prospettive dei lavoratori e dell’innovazione tecnologica, non alla salvaguardia dell’industria dell’auto così come la conosciamo oggi”.
“Sbagliata e incomprensibile” è anche la scelta del governo (nell’ambito della legge di stabilità) di ridurre dell’80 per cento i fondi per la transizione verde, la ricerca, gli investimenti del settore automotive e per il riconoscimento di incentivi all’acquisto di veicoli non inquinanti. “I fondi residuati – sottolinea De Palma – sono assolutamente insufficienti a garantire qualsiasi elemento di sostegno ai cambiamenti tecnologici, di formazione e riqualificazione degli addetti, di occupazione dei lavoratori impegnati nell’industria dell’auto”.
L’ultima questione riguarda la volontà del governo di attrarre produttori cinesi nel nostro Paese. “In Italia si producono oggi meno di 400 mila auto all’anno e se ne immatricolano poco meno di 1,5 milioni, quindi spazi per altri produttori ci sono”, conclude De Palma: “Vanno però posti vincoli e condizionalità da parte del governo: giusta applicazione dei contratti nazionali, rispetto dei diritti dei lavoratori, valorizzazione della filiera della componentistica. Questo può essere ottenuto anche attraverso la presenza negli asset societari di imprese italiane, ma anche direttamente dello Stato”.
L'analisi dell'Osservatorio Mil€x calcola che nel 2025 si arriverà a 32 miliardi, di cui 13 per nuove armi. Denaro sottratto a sanità, scuola e servizi ai cittadini
L'Osservatorio Mil€x analizza la legge di Bilancio del Governo Meloni, dalla quale emerge che nel 2025 le spese militari saliranno a 32 miliardi, di cui 13 per nuove armi. L'analisi riguarda “le assegnazioni relative alla sfera della difesa e degli armamenti e consente di giungere a una valutazione della spesa previsionale per il prossimo anno”.
Secondo la metodologia Mil€x la spesa militare italiana diretta per il 2025 tocca quindi “un record storico con un aumento del 12,4% rispetto al 2024 (+3,5 miliardi in un anno) e del 60% sul decennio. I fondi per nuovi armamenti si attestano su una cifra di 12.983 milioni, anch'esso record storico con un balzo del 77% nell'ultimo quinquennio”, si legge in un comunicato.
L'Osservatorio mette poi le spese militari in relazione al Pil “considerando per valida (anche se in realtà appare eccessiva) la stima previsionale 2025 presente nel Nadef” e rivela che tale rapporto è “dell'1,42%, se consideriamo i soli costi diretti, e dell'1,46, se invece si inseriscono anche gli ultimi costi indiretti segnalati”. Si specifica poi che il bilancio proprio del ministero della Difesa costituisce il punto di partenza di base per qualsiasi stima delle spese militari ed è proprio la cifra messa a disposizione del ministero di via XX Settembre, guidato dall'onorevole Guido Crosetto, a evidenziare fin da subito la forte crescita (in termini assoluti e percentuale) di tali spese”.
Francesco Vignarca, uno dei curatori del rapporto e coordinatore campagne di Rete pace disarmo, ricorda che “il trend era ben solido già da qualche anno e sicuramente il balzo tra il 2024 e il 2025 è stato il maggiore dal punto di vista storico, due miliardi. Spaventa soprattutto il fatto che per comprare nuovi materiali per il nuovo riarmo si parla di 13 miliardi all'anno, mentre cinque anni fa erano poco più di 7. Quindi è quello il balzo spaventoso ed è quello l'elemento rilevante dal punto di vista politico e delle scelte generali, perché non si tratta di stipendi e di strutture, ma si tratta proprio di acquisto di nuovi carri armati, aerei navi ed è per questo poi non c'è la possibilità di riammodernare gli ospedali, sistemare le scuole, fare interventi per il benessere e per il lavoro”.
Questo è anche il cuore della campagna “Ferma il riarmo” che ha lanciato Rete Italia pace disarmo, insieme con Sbilanciamoci e con Fondazione Perugia-Assisi. “Sapevamo che sarebbe arrivato con questa legge di Bilancio un aumento della spesa militare – prosegue Vignarca – e quindi abbiamo voluto mettere il governo davanti ad alcune proposte secche contro l'industria militare, per la riduzione delle spese, per il finanziamento delle missioni e proprio per dire che sarebbe possibile prendere una strada diversa, fare scelte diverse. Ovviamente è anche importante, e lo abbiamo fatto come Osservatorio Mil€x, mettere i numeri in fila i numeri, perché questo dà la rilevanza del dato concreto e reale su cui poi fare eventualmente tutte le proposte alternative”.
Sui reali motivi dell’aumento delle spese militari e la tutela degli interessi delle industrie del settore, Vignarca afferma: “Forse è un tema che si è sdoganato. Da quando c'è stata l'invasione russa dell'Ucraina tutto il mondo va in quella direzione e la politica, che è molto fragile in questo periodo, segue la tendenza globale”. Inoltre il coordinatore della Rete pace disarmo ritiene “che ci sia un problema più strutturale nel nostro Paese e nella nostra politica, come anche la Cgil sottolinea da tempo”. Un problema che ci illustra nell’audio:
Gli investimenti in armi vanno ad alimentare il complesso militare industriale finanziario, “cioè di quel grumo di interessi che si incrociano e sono connessi da conoscenze personali, da vantaggi diretti di alcuni fondi di alcuni personaggi – prosegue – , mentre invece una spesa sociale sensata avrebbe come primo effetto il rafforzamento degli strumenti che non sono di morte e di guerra, ma sono strumenti di vita, per migliorare le condizioni delle persone”.
All’esplosione delle spese militari rilevate dal rapporto dell’Osservatorio Mil€x si contrappongono quindi i reali bisogni dei cittadini italiani, ma nella legge di Bilancio non se ne tiene conto: "Siamo in un Paese in cui 4 milioni di persone non si curano per mancanza di soldi, 5 milioni sono sotto la soglia di povertà, in cui continuano a chiudere ospedali e scuole, migliaia di edifici scolastici non sono a norma, il territorio viene messo in ginocchio ogni qualvolta, e purtroppo sempre più spesso, la crisi climatica comporta degli eventi estremi”.
“Questo vuole dire – conclude Vignarca - vita o morte delle persone, vuol dire avere risorse, riuscire a vivere dignitosamente. Quindi è ovvio che la vera direzione non dovrebbe certo essere quella degli 'investimenti armati’”.
Bologna, 28 ottobre 2024 Comunicato stampa
Pubblicati oggi i dati di Ecosistema Urbano 2024, il rapporto di Legambiente realizzato in collaborazione con Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore, sulle performance ambientali delle città capoluogo d’Italia.
8 città dell’Emilia-Romagna tra le prime 20, con Reggio Emilia al primo posto e Parma sul podio.
Fanalini di coda per la nostra regione, ma pur sempre entro la metà classifica,
Modena (al 27esimo posto) e Piacenza (al 35esimo).
Bologna unica grande città nelle prime dieci posizioni.
Premiano in generale i miglioramenti nel trasporto pubblico, nella mobilità sostenibile e nelle zone pedonali
A disposizione la mappa interattiva – ecosistemi.legambiente.it e quella del Sole 24 ore - sui 106 capoluoghi al centro dell’indagine di Legambiente e i 20 indicatori distribuiti in 6 aree tematiche: aria, acque, rifiuti, mobilità, ambiente urbano, energia
Presentato oggi a Roma il dossier Ecosistema Urbano che fotografa le performance delle città capoluogo d’Italia su mobilità, qualità dell’aria, consumi idrici, produzione e raccolta dei rifiuti, verde urbano e energie rinnovabili.
Le città dell’Emilia-Romagna si posizionano quasi tutte entro le prime 20, con Reggio Emilia che scala la classifica rispetto allo scorso anno posizionandosi al primo posto, e Bologna che risulta essere l’unica città di grandi dimensioni entro i primi 10 posti.
Rimangono però ancora importanti miglioramenti da fare: 7 città capoluogo su 10 (nel dossier Forlì e Cesena sono considerate separate) hanno perdite idriche superiori al 25%; solo Rimini è sopra i 200 mq/abitante di isole pedonali; Ferrara ha 88 auto ogni 100 abitanti (la media nazionale è 68) e
Bologna, Modena, Parma, Piacenza e Reggio Emilia hanno una qualità dell’aria insufficiente secondo le nuove linee guida dell’OMS (più restrittive rispetto alle precedenti).
I risultati raggiungi dalle nostre città non sono da minimizzare, ma persistono alcune contraddizioni nei territori che richiedono la massima attenzione.
“A Reggio Emilia si rileva un aumento delle immatricolazioni di auto a dispetto del miglioramento rilevato dell’offerta di trasporto pubblico locale, segnale quanto meno contraddittorio che andrebbe esaminato più a fondo - dichiara Legambiente Emilia-Romagna. Sempre nella stessa città, che pare avere il più alto numero di alberi pro-capite in aree pubbliche, è stato approvato l’ennesimo ipermercato la cui costruzione comporterà la distruzione di un bosco cittadino di 5 ettari. La città di Bologna pare avere buone performance per quanto riguarda la variazione del consumo di suolo negli anni 2017/2022, ma sta proseguendo nella realizzazione di grandi opere viarie come il Passante e nell’ampliamento di corsie autostradali che impermeabilizzeranno altro suolo, quando invece – alla luce degli ultimi eventi alluvionali – dovrebbe investire nel risolvere le problematiche legate al sistema sotterraneo dei propri canali. La nostra regione è stata colpita da quattro eventi alluvionali in 18 mesi (due a maggio 2023 e due tra settembre e ottobre 2024) e l’impermeabilizzazione del suolo e l’eccessiva infrastrutturazione dei territori sono unanimemente riconosciuti come concause di quanto avvenuto. Sebbene a fare notizia sulla stampa siano state solo alcune città, nessun territorio è stato immune da allagamenti, frane o altri fenomeni di dissesto. Occorre quindi una nuova visione anche per le nostre città, con investimenti nel miglioramento dei sottoservizi e dell’impermeabilizzazione, e nelle nature based solution. Ma soprattutto è necessario un reale stop al consumo di suolo”.
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