Si conclude la Festa del Cinema di Roma, giunta alla diciannovesima edizione e, come da tradizione, diffusa in alcuni luoghi e realtà culturali della capitale, ma con il suo centro nevralgico all’Auditorium Parco della Musica, dove ogni anno a ottobre si srotola uno dei red carpet più lunghi del mondo.
Une festa sì, ma che quest’anno è apparsa particolarmente sottotono. D’altronde c’è da dire che, nonostante abbia ormai compiuto la maggiore età, l’appuntamento romano con il cinema internazionale non è mai veramente cresciuto. Nato con l’idea di dotare anche la capitale di un suo festival, dapprima non una vera e propria competizione (all’origine c’era solo il premio del pubblico), ha poi alternato negli anni una serie di altri riconoscimenti, dalla miglior opera prima al premio Tognazzi (per la commedia), i premi speciali della giuria e via di seguito.
Quello che, però, sembra ancora mancare a questa kermesse cinematografica è un’identità ben precisa: è il cinema dei titoli mainstream che sbancano al botteghino o quello dei piccoli film ma con un grande potenziale? Altri festival di lungo e solido corso, da Venezia a Berlino passando per Cannes, hanno saputo negli anni affiancare alle passerelle delle star anche un parallelo percorso verso il cinema “impegnato”, per usare un aggettivo sintetico ma immediatamente comprensibile.
Il cinema degli autori e dei registi attenti alle tematiche sociali, ai diritti civili, al lavoro. Proprio un simile approccio sembra il grande assente di questa edizione 2024, nello specifico, ma più in generale della Festa di Roma, se si escludono fenomeni sporadici come il successo di C’è ancora domani, targato 2023.
Rare le eccezioni, come il film di apertura del festival, Berlinguer – La grande ambizione, con Elio Germano diretto da Andrea Segre. Il vero dato positivo sono stati, invece, i titoli al femminile. Si pensi a Liliana, documentario dedicato da Ruggero Gabbai alla vita di una donna straordinaria come Liliana Segre, realizzato con il materiale d’archivio raccolto e condiviso dalla stessa protagonista.
E ancora l’esordio registico di Sonia Bergamasco, che in The Greatest approfondisce la figura di Eleonora Duse; Giulia mia cara! Giorgio di Maria Mauti, in cui Giulia Lazzarini, colonna portante del teatro italiano, rilegge il suo carteggio epistolare con Giorgio Strehler. Titoli tutti molto interessanti ma poco sentiti - almeno nel corso di questa settimana - fatta eccezione per la serie più mainstream Miss Fallaci di Miriam Leone, dedicata alla grande giornalista. Meritano una citazione anche l'iraniano Leggere Lolita a Teheran, tratto dall’omonimo romanzo di Azar Nafisi e diretto dal regista israeliano Eran Rikli, e Jazzi, storia di un’amicizia diretta da Morrisa Maltz, con protagonista Lily Gladstone.
L’appuntamento più interessante di questa settimana romana resta sempre quello con i film di Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del cinema dedicata alle giovani generazioni. Qui i titoli si fanno più interessanti e coraggiosi, quando si tratta di indagare l’animo umano o mettere a nudo le contraddizioni della società. La disoccupazione, la guerra, i diritti, l’emancipazione. Sembra di assistere a tutto un altro festival. E forse, non sarebbe un’idea poi così bislacca.
È il momento di capire come agire per difendere le specie a rischio. Con lo slogan “Pace con la natura” lunedì 21 ottobre si è aperta a Cali, in Colombia, la COP16 sulla biodiversità, che si propone di consolidare gli impegni assunti nel 2022 durante la COP15, terminata con la firma dell’Accordo di Kunming-Montreal. In quell’occasione, 196 governi di tutto il mondo avevano approvato il “Global Biodiversity Framework” (GBF): un percorso che ha come obiettivo quello di invertire la perdita di biodiversità entro il 2050. E sempre di più, considerato anche il catastrofico calo del 73% della dimensione media delle popolazioni globali di vertebrati selvatici in soli 50 anni (1970-2020), rivelato nell’ultima edizione appena presentata del Living Planet Report del Wwf, è necessario che gli Stati parte della Convenzione Onu adottino impegni concreti per raggiungere gli obiettivi chiave del GBF.
La conferenza si concentrerà sulla valutazione dei progressi compiuti dai Paesi nell’attuazione degli obiettivi, tra cui la conservazione del 30% delle terre e degli oceani del mondo entro il 2030, la riduzione dell’inquinamento e la promozione dell’uso sostenibile delle risorse naturali. A Cali si dovrà passare dalle parole ai fatti. Per questo è stata definita la “COP dell’implementazione”.
Leggi lo speciale COP15, il futuro della biodiversità e l’Accordo di Kunming-Montreal
Secondo l’Ispra, un’altra importante area di negoziazione riguarderà i meccanismi di monitoraggio e rendicontazione dei progressi degli obiettivi di biodiversità. Inoltre, la conferenza affronterà le questioni relative all’accesso alle risorse genetiche e alla giusta ed equa condivisione dei benefici derivanti dal loro utilizzo, un principio noto come Access and Benefit-Sharing (Abs).
Per raggiungere gli obiettivi stabiliti, in Europa sarà fondamentale dare attuazione al Regolamento sul ripristino della natura (Nature Restoration Law), attraverso la definizione entro i prossimi 2 anni di un Piano nazionale che veda coinvolte tutte le parti interessate.
Per ora solo 28 Paesi, inclusa l’Unione Europea e 9 Stati Membri, tra cui l’Italia, hanno aggiornato le loro NBSAPs, cioè le strategie e i piani di attuazione nazionali per la biodiversità. Nello specifico la strategia italiana, pur risultando sulla carta allineata ai 23 target del GBF e con l’obiettivo di proteggere il 30% delle aree marine e terrestri entro il 2030 (target 3), manca ancora di un Piano di implementazione che sia adeguatamente finanziato affinché le ambizioni della Strategia possano tradursi in azioni concrete e incisive. La superficie terrestre protetta si ferma al 21,68% dell’intero territorio nazionale e ancora peggiore la situazione delle aree marine, ferme poco oltre l’11%.
La cerimonia di apertura del 21 ottobre è stata inaugurata da diverse esibizioni artistiche e dal discorso di Susana Muhamed, Ministra dell’ambiente della Colombia e attivista ambientale e climatica. Il programma prevede poi l’alternarsi di sessioni plenarie di alto livello, tra Ministri, scienziati e rappresentanti della società civile, riunioni di gruppi di lavoro ed eventi collaterali.
Le sessioni plenarie saranno caratterizzate da interventi e discussioni dei leader governativi e delle principali parti interessate sui temi generali della conferenza. I gruppi di lavoro approfondiranno argomenti specifici come il finanziamento della biodiversità, il monitoraggio dei progressi e la gestione delle minacce alla biodiversità.
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Il testo arrivato in Parlamento conferma le più fosche preoccupazioni, il bilancio viene fatto quadrare a suon di tagli. Colpiti welfare, sanità, scuola, pensioni
È vero l’Italia ha un debito pubblico elevato; è vero il Governo Meloni pochissimi mesi fa ha sottoscritto le nuove norme europee che riportano il Paese all’austerità; è vero le risorse a disposizione sono poche visto che nonostante le magnificenze raccontate la crescita del Pil ricorda i prefissi telefonici. Tutto vero, ribadiamo, ma nonostante questo la manovra è frutto di scelte. È forse la legge che più di altre racconta quale sia la filosofia di fondo che chi siede – pro tempore – a Palazzo Chigi vuole affermare. Se ancora non si fosse capito quella di Meloni, sostenuta da ministre e ministri, è quella che – non dicendolo esplicitamente – va ridotto tutto ciò che ha il sapore di pubblico, spostando tutto quel che si riesce sul privato e sul mercato. Lo stato leggero, dunque che ha molto il sapore del neo liberismo che pensavamo esserci messi alle spalle.
L’analisi la compie la Confederazione di Corso d’Italia che dice: “Con una crescita del Pil dello ‘zero virgola’, diciannove mesi consecutivi di calo della produzione industriale, la povertà in aumento, l’economia sommersa in espansione, un lavoro sempre più precario, è stata varata una manovra di bilancio che non solo non risolverà alcun problema, ma peggiorerà ulteriormente la situazione”. E già perché tagli su tagli, al sociale ma non solo, anche agli investimenti, e in assenza di una politica industriale sarà l’intero Paese a fermarsi e a pagarne lo scotto.
La manovra è arrivata alla Camera in grandissimo ritardo rispetto alle tabelle di marcia stabilite per legge, ma si sa l’Esecutivo in carica tende a piegare le norme a suo piacimento. Ma cosa assai più grave, per la prima volta da quando abbiamo memoria, non è stato previsto nessun incontro, figuriamoci confronto, con le parti sociali. Il commento della Cgil è netto: “Tutto è stato deciso in maniera arrogante e autoreferenziale, senza neppure confrontarsi con le forze sociali: scelta che non ha precedenti. Di fronte a decisioni che non solo danneggiano le persone che rappresentiamo, ma porteranno a sbattere tutto il Paese, non possiamo restare a guardare. Andremo avanti con ogni iniziativa utile per determinare un cambiamento delle politiche economiche e sociali”.
Lo dicevamo la manovra, pur nel rispetto dei vicoli europei, si sarebbe potuta scrivere in maniera diversa, è frutto di scelte. Invece che tagliare tutto ciò che è pubblico a cominciare dal welfare, si può decidere di andare a prendere le risorse là dove ci sono, grandi patrimoni, evasione, extra profitti ecc, e si può decidere di allocarne diversamente altre. Un esempio, spostare una quota di quanto previsto per le spese militari sulla sanità. Lo afferma, in una nota, la Cgil nazionale che illustra come la manovra sia: “Un vero e proprio festival dei tagli al welfare universalistico, agli investimenti e ai servizi pubblici che – avverte la Confederazione – si scaricherà per intero sulle fasce popolari, già brutalmente impoverite da un’inflazione da profitti che, tra le altre cose, ha determinato, negli ultimi 4 anni, la drammatica riduzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, mentre gli utili netti in molti settori sono decollati”. Infine una vera e propria beffa, ricordate le pensioni minime, questa la promessa elettorale, sarebbero arrivate a 1000 euro. Ebbene no! L’aumento c’è ma ridotto rispetto agli impegni presi, raggiungerà la fantastica cifra di 3 euro (tre, non è un errore) al mese.
Questa deve essere la convinzione di Meloni, Zangrillo e Giorgetti, e così con un sol colpo si tagliano ai ministeri 7,7 miliardi in tre anni, dal 2025 al 2027, solo il prossimo vedrà meno 2,64 miliardi e altrettanti per gli enti locali dal 2025 al 2029, oltre quanto già disposto dalla precedente legge di bilancio. Siccome non si può non pagare luce e gas, come si risparmierà? Innanzitutto si scopre che surrettiziamente è stato reintrodotto il blocco del tour over nella pubblica amministrazione con un risparmio di spesa di 571 milioni di euro all’anno dal 2026. Con buona pace della promessa di un piano di assunzione straordinario per ringiovanire la pubblica amministrazione e renderla adeguata alle nuove necessità che la digitalizzazione porta con sé. E in barba al fatto che – come ricordato durante la manifestazione delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici lo scorso 19 ottobre – ne mancheranno da qui al 2030, 1 milione e 200mila addetti.
Diritto garantito dalla Costituzione ma che con i tagli previsti dalla manovra sarà difficilissimo rispettare. Come si traduce il taglio lineare a Ministero? In taglio agli organici. Il conto è presto fatto, si eliminano 5.660 posti per insegnati e 2.174 posti per personale amministrativo e ausiliario. Come si farà a garantire il tempo pieno nelle regioni meridionali? Come si farà a garantire le attività di sostegno ai ragazzi e alle ragazze, soprattutto a quelli più fragile? E tutte le attività legate al Pnrr che si scaricano sulle segreterie delle scuole come saranno evase? E quale sarà il destino degli oltre 250mila precari? Per non parlare delle risorse per il rinnovo del contratto che non sono proprio menzionate. Non foss’altro che per questo, ma c’è molto altro per cui protestare, il prossimo 31 ottobre il personale della scuola sarà in piazza, chiamato dalla Flc Cgil, per rivendicare un contratto giusto e un lavoro stabile.
Meloni ha girato un video per raccontare quante risorse, a suo dire mai così tante, sono state destinate alla sanità. Falso! Il ministro Schillaci più volte aveva annunciato che ci sarebbero stati almeno tre miliardi aggiuntivi rispetto allo scorso anno e invece saranno al massimo 1miliardo e 300miliano ma di questi una parte sono già “spesi” per impegni presi precedentemente, quindi se tutto va bene arriveranno 900 milioni, così non si coprono nemmeno i costi dell’inflazione. Di quei 900 milioni, 50 andranno a finanziare le indennità aggiuntive per medici e infermieri che operano nei pronto soccorso, 50 per le indennità di specificità dei medici e 50 per il personale sanitario, un incremento di ben 17 euro al mese per i medici e 7 euro al mese per il personale del comparto. Lordi eh, beninteso. Per il rinnovo del contratto risorse solo per un terzo della perdita del potere d’acquisto, nulla per i restanti 2/3 così come nulla per superare i limiti alla contrattazione di secondo livello tranne uno 0,22% sul monte salari 2021. Nulla per il piano straordinario di assunzioni, mentre ci sono 184,5 milioni di euro per il taglio delle liste d’attesa, peccato che andranno quasi tutti ai privati visto che il Governo ha incrementato ulteriormente il limite di spesa verso la sanità privata.
Il Governo è davvero sordo a qualunque richiesta, anche in questo caso i tagli la fan da padroni, innanzitutto quelli al personale, portato avanti di nascosto. Lo dicevamo si reintroduce il blocco parziale del tuor over, su 4 in quiescenza solo 3 verranno sostituiti. E poi attraverso le risicatissime risorse per il rinnovo dei contratti si conferma il taglio del potere di acquisto delle buste paga dei dipendenti pubblici dei 2/3. E tagli al personale sono anche quelli che scaturiranno dalla mancata stabilizzazione dei precari. Infine, con gli incentivi a rimanere al lavoro fino a 70 anni, in realtà si taglia la possibilità di rinnovare la pubblica amministrazione attraverso le assunzioni di giovani.
Altra retorica meloniana, la centralità dei lavoratori e delle lavoratrici che garantiscono sicurezza. Falso! Sono previsti 1,5 miliardi di tagli al ministero dell’Interno, tagli lineari che costituiscono una mazzata e incideranno negativamente su tanti fronti a iniziare dalle assunzioni, per arrivare all’acquisto di mezzi, apparecchiature, politiche alloggiative, formazione, fino all’acquisto di beni di copisteria. Altro che investimenti in sicurezza.
La strada da intraprendere è diversa, la via la indica la Cgil che sostiene che le risorse per evitare i tagli si dovevano prendere dove si sono prodotte, ci sono alcuni settori che hanno fatto profitti stratosferici e poi: “E’ da una seria lotta all’evasione fiscale, che andavano recuperate le risorse necessarie a rispettare i parametri del nuovo Patto di Stabilità, cui l’Esecutivo italiano ha purtroppo dato via libera nel Consiglio europeo”. “Si è scelto deliberatamente di non farlo, preferendo – aggiunge la Cgil – ridurre ulteriormente i dipendenti pubblici (a partire da insegnanti e personale scolastico), tagliare ancora una volta le risorse agli enti locali, rinunciare alle indispensabili assunzioni nella sanità, prevedere interventi peggiorativi in materia previdenziale, privarsi della stessa possibilità di mettere in campo politiche industriali in grado di invertire un declino produttivo sempre più evidente”. Non rimane che mobilitarsi in tutte le forme che la Costituzione e le norme prevedono, per far sentire la voce del lavoro.
La segretaria generale dello Spi Tania Scacchetti lancia la mobilitazione: “La manovra del governo colpisce gli anziani, non siamo il bancomat del Paese”
I pensionati italiani vanno alla mobilitazione. Nell’arco di quattro giorni, dal 28 al 31 ottobre, lo Spi Cgil sarà in piazza con venti manifestazioni territoriali, in tutte le regioni italiane, per protestare contro la legge di bilancio del governo Meloni. E non solo: sono molte le questioni in ballo, che vanno dalla rivalutazione del potere d’acquisto fino al sistema fiscale, rilanciando la richiesta di cambiare rotta subito. Un altro modello di sviluppo è necessario. Abbiamo fatto il punto della situazione con la segretaria generale dello Spi, Tania Scacchetti.
La mobilitazione dei pensionati e delle pensionate viene da lontano, è una lunga battaglia condotta dallo Spi Cgil. Come si arriva a queste giornate?
Arriviamo alla protesta nell’ambito della mobilitazione più generale proclamata dalla Cgil Nazionale, per contrastare la legge di bilancio e le politiche economiche e sociali complessive, che sono un tratto dell’attuale governo ma anche dell’Europa: oggi rischiamo il ritorno all’austerità. Non c’è alcuna risposta adeguata sul tema della redistribuzione della ricchezza.
Qual è l’obiettivo delle piazze che avete convocato?
Il nostro scopo è mettere al centro la condizione dei pensionati: non a caso lo slogan, “Il potere d’acquisto logora chi non ce l’ha”, è dedicato proprio alla tenuta del potere d’acquisto. Nell’epoca delle grandi diseguaglianze i pensionati hanno lasciato tanto sul campo e rischiano di perdere molto altro, impoverendo una generazione che si basa proprio sul welfare. Poi c’è un altro grande tema portante della protesta, che riguarda la tenuta del patto previdenziale.
Ce lo puoi spiegare?
Siamo molto preoccupati del taglio sulla rivalutazione degli assegni. Bisogna ricordare che negli ultimi trent’anni abbiamo avuto 100 miliardi di euro di tagli, oltre 16 miliardi negli ultimi due anni. Un sistema del genere si appresta ora a chiedere un contributo di solidarietà alle banche, che poi verrà restituito, questo dà la misura esatta di ciò di cui parliamo. Mentre agli altri più forti si restituisce, alle pensioni viene chiesto da sempre un contributo di solidarietà, che non torna mai indietro. Non siamo più disponibili a fare il bancomat del Paese.
Tra i nodi della mobilitazione, avete poi messo sul tavolo il problema annoso della sanità e della non autosufficienza.
Certo. Il sistema sanitario è allo stremo, continua ad arretrare e non si mettono risorse, la conseguenza è che risultano oggettivamente penalizzati i più fragili. I pensionati sono tra questi: non c’è un accesso facile alla sanità, i redditi vengono compromessi dalla necessità di ricorrere al privato, una spesa molto alta che erode ulteriormente la condizione degli anziani. Dei quattro milioni di cittadini che si curano nel privato, moltissimi sono pensionati.
Come si inserisce il fisco in questo quadro?
La questione fiscale è prioritaria. Abbiamo una grandissima distrazione di risorse, non si fa niente contro l’evasione e l’elusione, anzi i continui condoni proteggono sempre le stesse persone seguendo una logica corporativa. È proprio così che si rompe il patto fiscale tra lo Stato e i cittadini: in Italia oltre il 90% Irpef è a carico di lavoratori dipendenti e pensionati, il fisco è davvero la madre di tutte le questioni.
Alla luce di queste ragioni, per quattro giorni si va in piazza in tutta Italia. I protagonisti sono i pensionati, ma non solo.
La mobilitazione vuole mettere al centro i bisogni degli anziani e delle anziane per far crescere l’intero Paese. È anche una grande questione democratica. Da lunedì a venerdì vedremo nelle piazze una parte importante dell’Italia, i pensionati, che rifiutano la logica imposta dal governo, la torsione autoritaria preoccupante, la volontà di cambiare la Costituzione e stravolgere il ruolo del lavoro che sta scritto nella Carta. Sono piazze che rivendicano la pace, che si oppongono al ddl sicurezza, che indicano un modello diverso rispetto all’idea di questo esecutivo. Insomma, quella dei pensionati è una battaglia per la democrazia e per cambiare modello di sviluppo.
Precarietà dilagante e salari da fame svuotano le buste paga delle famiglie italiane. Perdita record del potere d’acquisto. Gabrielli, Cgil: “Il governo cambi radicalmente".
Non deve essere stato facile per Meloni leggere i dati diffusi dall’Istat sulla povertà e quelli resi noti dall’Inps sulla perdita di potere di acquisto, contrappuntati dalle parole del capo dello Stato Mattarella su salari e precarietà. O può anche essere che la presidente del Consiglio preferisca la sua narrazione ai dati di realtà e le parole del Presidente non abbia avuto il tempo di ascoltarle. Restano i numeri e restano le frasi pronunciate.
È aumentata la povertà relativa e assoluta, ed è aumentata ancor di più la povertà delle famiglie in cui l’adulto di riferimento è un operaio o un lavoratore assimilabile. Attesta l’Istat nel sul Rapporto annuale sulla povertà in Italia che nel 2023, secondo anno di governo Meloni, l’incidenza di povertà tra le famiglie con persona di riferimento operaio e assimilato è pari al 16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022, “raggiungendo il valore più elevato della serie dal 2014”. Lo stesso Istituto nazionale di statistica racconta che nel medesimo anno si contano 419mila occupati e occupate in più rispetto a quello precedente.
Non solo, per l’Istat la povertà assoluta tra “le famiglie con persona ritirata dal lavoro mostrano valori stabili (5,7%) dopo la crescita del 2022, mentre si confermano invece i valori più elevati per le famiglie con p.r. in cerca di occupazione (20,7%)”. Insomma solo poco più di 4 punti percentuale di incidenza della povertà assoluta separa le famiglie con persona di riferimento in cerca di lavoro da quelle operaie.
Perché nell’anno record per numero di posti di lavoro creati aumenta la povertà tra chi un lavoro ce l’ha e rimane stabile tra chi un lavoro lo cerca? Le risposte arrivano proprio da Istat e Inps, ma bisogna avere l’umiltà di leggerli con occhiali neutri, non con quelli offuscati dalle lenti della propaganda. E poi occorre saper “mettere insieme i pezzi”. Cominciamo con ordine.
Afferma l’Inps nel XXIII Rapporto annuale che a fronte di un aumento dell’occupazione “non è corrisposto un incremento dei redditi e delle retribuzioni tale da compensare pienamente la perdita di potere d’acquisto conseguente alla recrudescenza del fenomeno inflattivo”. E già perché mentre l’inflazione viaggiava abbondantemente a doppia cifra arrivando a superare il 17%, sempre secondo l’Istituto, salari e stipendi sono aumentati del 6,8% lordo. Piccola notazione, come si sa l’inflazione ha un’incidenza maggiore proprio sui redditi più bassi, quelli da lavoro dipendente e pensioni.
Parlando dal palco di Piazza del Popolo a Roma davanti a migliaia di lavoratrici e lavoratori pubblici a cui il governo vorrebbe rinnovare il contratto con il 5,78% di aumento a fronte di un’inflazione ben oltre il 17%, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha ricordato che quella che ha attraversato l’Europa è un’inflazione da profitti non da dinamica salari-prezzi. Il che significa che rendite e imprese se ne sono giovate “lucrando” sul lavoro e su chi quei profitti produce con la propria fatica.
Se questa della perdita del potere di acquisto dei salari è la prima ragione dell’impoverimento delle famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti, la seconda risiede nel modo in cui si leggono i dati del mercato del lavoro. Ci ricorda la sociologa statistica Linda Laura Sabbadini “che se guardiamo agli occupati in più del 2023, ci accorgiamo che la stragrande maggioranza erano ultracinquantenni, segmento meno a rischio di povertà assoluta dei giovani, che invece non hanno ancora raggiunto i tassi di occupazione precedenti alla crisi del 2008-2009”.
Precario, part time, femminile, giovanile. Questo è il lavoro creato e incentivato dal governo Meloni. Sono oltre 4 milioni di donne e uomini che lavorano e ogni anno portano a casa meno di 12mila euro lordi. È lavoro povero perché la paga oraria è bassa, o perché le ore lavorate sono poche, davvero troppo poche. Ma Meloni non solo ha fatto e continua a fare una guerra senza quartiere al salario minimo legale, ma con il Collegato lavoro vuole introdurre un’ulteriore liberalizzazione e incentivazione della precarietà. E per di più, per quel che è dato sapere, nella prossima manovra non ci saranno nemmeno le risorse sufficienti per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.
A conferma di quanto fin qui abbiamo illustrato arriva ancora l’Istat che attesta come l’incidenza della povertà assoluta nelle regioni meridionali sia la più alta del Paese ma è stabile, il 12% contro il 9,1 del Nord Ovest e l’8,6 del Nord Est, mentre nelle regioni settentrionale i poveri aumentano passando da 2 milioni e 298mila a 2 milioni e 413mila. Il settentrione è proprio quella zona a maggior incidenza di occupazione, che quindi sconta di più sia la perdita di potere di acquisto di salari e pensioni, sia la maggior quantità di lavoro povero.
“L’occupazione, non soltanto nel nostro Paese – ha affermato il capo dello Stato durante la cerimonia di consegna delle Stelle al merito del lavoro – si sta frammentando, con una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre più in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontari e da precarietà. Si tratta di elementi preoccupanti di lacerazione della coesione sociale”.
Non foss’altro che per il fatto che il presidente della Repubblica è il garante della Costituzione che sancisce che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, e che all’art. 36 afferma: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Mattarella andrebbe ascoltato.
“La fotografia del Paese conferma la necessità di un cambio radicale delle politiche del lavoro”. Così Maria Grazia Gabrielli, segretaria nazionale della Cgil commenta il Rapporto dell’Istat, e aggiunge: “Le tante forme di discontinuità lavorativa e orari ridotti legati al part-time involontario generano quel lavoro povero che continua a negare prospettive e opportunità alle persone a partire proprio dai giovani, dalle donne e dalle persone con maggiori vulnerabilità. Se alla crescita dell’occupazione non corrisponde un aumento della qualità del lavoro significa che i provvedimenti e le misure intraprese sono sbagliate e non hanno scalfito precarietà e disuguaglianze che caratterizzano il mercato del lavoro. Come la persistente presenza di lavoro sfruttato, irregolare e nero, continua ad alimentare una economia del sommerso a danno del Paese che relega le persone alla povertà e all’insicurezza”.
Come sempre si tratta di scegliere quali sono le priorità, cosa fare per invertire la china del lavoro povero. Per la dirigente sindacale occorre “agire per rimuovere la povertà del lavoro necessita di azioni su più piani, dal tema dei salari al cancellare le forme contrattuali precarie ad investire realmente nelle politiche attive del lavoro. Le misure degli incentivi alle assunzioni, la continua liberalizzazione dei contratti precari e flessibili reiterati dal governo anche nel recente Collegato Lavoro non rispondo al bisogno di un lavoro stabile, sicuro, tutelato e dignitoso”.
Migliaia di lavoratori dell’automotive invadono Roma per lo sciopero generale del settore. De Palma, Fiom: “Eccoci qui, è ora di riprenderci il potere”
Un fiume colorato ha attraversato il centro di Roma. Migliaia di metalmeccanici sono arrivati nella Capitale da ogni parte d'Italia per denunciare le grandi difficoltà che sta attraversando l'automotive, in occasione dello sciopero generale del settore indetto da Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil. Un comparto strategico per l'Italia, che continua ad essere il secondo Paese manifatturiero d'Europa (pesa l'11 per cento del Pil).
Una punteggiata di bandiere rosse, verdi e blu , striscioni e fumogeni, cori manifestazione e canzoni. Il corteo è partito poco prima delle ore 11 da piazza Barberini, imboccando poi via Sistina per concludersi in piazza del Popolo, dove hanno parlato numerosi delegati sindacali, ospiti internazionali ei segretari generali delle tre sigle metalmeccaniche.
L'industria automobilistica si trova nel mezzo del percorso verso la transizione all'elettrico e necessita di scelte strategiche importanti. Scelte che coinvolgono la Commissione Europea, il governo italiano e Stellantis . A preoccupare è soprattutto la situazione dell'ex Fiat: la produzione nel 2024 è in forte calo, l'utilizzo degli ammortizzatori sociali sta crescendo ovunque e prosegue la strategia di riduzione del numero di dipendenti attraverso lo strumento degli incentivi all'esodo.
“In un'assemblea in piazza a Torino, assieme alle lavoratrici e ai lavoratori, avevamo detto che senza risposte da Stellantis, senza risposte dal governo, avremmo scioperato e manifestato a Roma. La nostra parola in assemblea vale più di una firma: eccoci qui”. È con queste parole che il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma ha iniziato il comizio conclusivo della manifestazione di Roma.
“In questi anni – ha proseguito – pensavano di averci divisi, frantumati, cancellati: i lavoratori dell'industria e dell'automotive erano quasi diventati invisibili. I riflettori erano per gli amministratori delegati e per i presidenti, vedevamo ogni volta i politici sgomitare per avere un selfie con loro. Ma le auto non esistono senza chi le progetta, le assembla, le costruisce, le produce: senza prodotto non c'è alcun profitto per le aziende”.
De Palma ha rimarcato che “sono passati 30 anni dall'ultimo sciopero dell'automotive: oggi abbiamo svuotato le fabbriche di Stellantis e della componentistica. E abbiamo riempito piazza del Popolo, che possiamo ribattezzare ‘piazza del Popolo delle metalmeccaniche e dei metalmeccanici’. Ma la riuscita di questo sciopero non è frutto dei segretari generali o dei funzionari, bensì del lavoro costante e della credibilità che il sindacato e i suoi delegati hanno dentro i luoghi di lavoro”.
Il leader Fiom ha poi sottolineato che questo sciopero è “riuscito a unire tutti, dai sindacati alle istituzioni, dalle forze sociali ai cittadini, alle associazioni. E anche qualche imprenditore ha chiamato per dire: ‘fate bene a scioperare’. Questa piazza non ha riunito solo il mondo del lavoro, ma guarda anche a quel mondo delle imprese che ha subìto gli effetti delle scelte scellerate fatte da Stellantis. Noi qui oggi siamo al centro della nascita di un movimento multinazionale dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori”.
De Palma ha evidenziato che “decidere di alzarsi in piedi e incrociare le braccia non è mai semplice. Capita talvolta che ci dicano: ‘andate a fare la passeggiata a Roma’. Provate a dirlo a chi è in cassa integrazione da dieci anni, a chi non ha i soldi per far studiare i propri figli o per fare qualche giorno di vacanza. Provate a dirlo a chi sta in cassa integrazione con mille euro al mese. Oppure a chi non è condizione di aiutare il padre o la madre che si ammalano, ed è costretto a chiedere i soldi del Tfr per poter tenere testa alla situazione casalinga”.
Per De Palma l’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares “dovrebbe avere rispetto per queste lavoratrici e lavoratori. In Parlamento ha detto che i lavoratori sono rancorosi. No, noi non siamo rancorosi: noi siamo incazzati, perché vogliamo lavorare e cancellare le parole esuberi e cassa integrazione della nostra vita. Le fabbriche sono nostre e noi le difendiamo come difendiamo l'industria del nostro Paese. Per questo, con grande umiltà, vorrei chiedere al presidente della Repubblica, custode della nostra Costituzione, di ascoltare il silenzio delle fabbriche chiuse per lo sciopero e il rumore della vita della nostra Repubblica fondata sul lavoro”.
Continuando su Tavares, il leader Fiom ha rimarcato che l'ad Stellantis “parla solo di tagli: tagli degli occupati , tagli al salario con la cassa integrazione, tagli dei tempi di lavoro quando sei in linea di montaggio. E ci dice che per produrre auto in Italia bisogna tagliare i costi. Ma l'unico taglio di cui Stellantis ha bisogno è quello degli stipendi di Tavares, della proprietà e degli azionisti. E quelle risorse debbono essere investite in ricerca, sviluppo, produzione, salute e sicurezza nelle fabbriche”.
È ora di tirare le somme: “Siamo al fallimento della strategia di Stellantis , considerato che anche le agenzie di rating la ritengono meno affidabili. Quest'anno, nonostante i 950 milioni di investimenti pubblici nei bonus, rischiamo di andare sotto le 300 mila vetture prodotte, malgrado sconti e bonus c'è un calo del 20% delle vendite. Dobbiamo chiederci: noi le auto le sappiamo produrre, ma l'amministratore delegato le sa vendere?”.
Negli Stati Uniti la Casa Bianca ha scritto una lettera a Stellantis per sollecitare il rispetto delle promesse fatte. “In Italia, da Palazzo Chigi solo silenzio”, ha proseguito: “Il ministro Urso ha appena detto di aver ascoltato questa piazza e che ci convocherà. Noi siamo per il rispetto istituzionale, quando le istituzioni chiamano noi ci siamo sempre. Ma questa piazza dice una cosa precisa: vogliamo andare a Palazzo Chigi per negoziare con l'amministratore delegato Tavares, vogliamo contrattare la transizione e non essere ostaggi dei veti incrociati tra azienda e governo. È ora che a Palazzo Chigi si negozi per la rigenerazione del lavoro e la transizione tecnologica ed ecologica. Ma la prima cosa da fare è fermare la chiusura e le delocalizzazioni delle aziende italiane”.
La Fiom Cgil chiede al governo l'apertura di una trattativa vera. Ma lo chiede anche a Bruxelles: “Dobbiamo impegnarci per ottenere un fondo straordinario per la ripresa dell'iniziativa in ricerca e sviluppo e per le missioni produttive in tutti gli stabilimenti. Il punto non è che Stellantis ha spostato la sede in Olanda e quella legale in Inghilterra: il problema vero è che non abbiamo più l'autonomia di ricerca, sviluppo e produzione perfino sui marchi italiani”.
Michele De Palma ha così concluso: “Siamo noi che immaginiamo, progettiamo e produciamo le Fiat, le Alfa, le Maserati. È la nostra intelligenza a immaginare la mobilità del futuro, ed è la nostra manodopera a crearla. Non provate a dividerci tra gli stabilimenti, per lingua o per contratto. Noi oggi abbiamo scioperato per il lavoro , per l'ambiente, per la salute. Abbiamo scioperato per la nostra dignità e per il nostro futuro. È ora di riprenderci il potere, con la passione, con la forza e con il coraggio”