Il caso. 300 milioni complessivi, di cui 180 milioni alle scuole dell’infanzia (0-6 anni) e 120 milioni alle scuole paritarie del primo e secondo ciclo. I grillini si erano opposti. Soddisfatti Pd e renziani. Le destre brindano
Raddoppiano i fondi alle scuole paritarie per l’emergenza Covid grazie a un voto a un emendamento della Lega nel «decreto Rilancio» in Commissione Bilancio alla Camera: 300 milioni di cui 180 alle scuole dell’infanzia (0-6 anni) e 120 alle scuole paritarie del primo e secondo ciclo. Inizialmente erano 150. «Siamo molto amareggiati – ha detto Gianluca Vacca (M5S) – Questi fondi sono, in gran parte, in quota alle opposizioni che hanno stabilito di concentrare queste risorse a disposizione sulle scuole paritarie. Solo per questo motivo è passato l’emendamento».
Tre settimane fa la senatrice Cinque Stelle Bianca Laura Granato aveva sostenuto che il fondo già stanziato da 150 milioni di euro doveva essere ritenuto sufficiente: «Non ci sfugge – ha detto – che la situazione di difficoltà dovuta all’emergenza covid, per questo nel Decreto Rilancio è stato previsto uno stanziamento straordinario di 150 milioni di euro. Abbiamo già dato. Non si tratta di una posizione ideologica o preordinata, ma di una scelta giustificata e sorretta dal dettato costituzionale, che all’articolo 33 sancisce la piena libertà di insegnamento ma senza oneri per lo Stato nel caso delle scuole private». Qualche giorno dopo la situazione è cambiata completamente.
Il voto sull’aumento sostanzioso ha soddisfatto il Pd: «Le scuole paritarie sono parte rilevante del sistema scolastico nazionale, il nostro impegno è stato soddisfatto» ha detto il capogruppo Pd alla Camera Graziano Delrio. «Le maggiori risorse alle scuole paritarie sono state uno sforzo importante» ha detto il segretario Pd Nicola Zingaretti. «Bene così» ha scritto su twitter la vice ministra dell’Istruzione Anna Ascani (Pd). Per i renziani di Italia Viva «è una splendida notizia». «È una nostra vittoria» ha detto il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. Mario Pittoni (Lega) ora punta a «isolare i Cinque Stelle e la ministra dell’istruzione Azzolina». «Siamo stati decisivi» ha detto Valentina Aprea di Forza Italia. Per Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) «è solo un primo passo»
Commenta (0 Commenti)Bilancio. Non scherzano le proposte del Pd: agevolazioni fiscali, incentivi, crediti d’imposta, sgravi, prestiti, premi, in una parola trasferimenti monetari, validi solo nell’urgenza. Il lavoro non può essere una misura che si aggiunge alle altre ma il baricentro di un’intera politica economica alternativa, contro la disoccupazione
Emerge ormai il disvelamento di un’attitudine, già radicata nelle forze politiche e nei poteri pubblici italiani, a intervenire sulle cruciali materie economiche e sociali non con slancio progettuale – per colmare i drammatici vuoti accumulati nell’apparato produttivo e nella struttura sociale – ma mediante la comoda e facile via fiscale, soggetta a rischi di distorsione redistributiva e non in grado di agire sulle strutture.
Lo testimoniano gli specifici elementi di debolezza della proposta di abbassamento dell’Iva: l’elevatissimo costo in termini di minori entrate e di maggior deficit, l’incertezza della traslazione sui prezzi del taglio dell’Iva, il modesto effetto da “moltiplicatore” sulla domanda e l’elevata probabilità che i consumi rimangano comunque bassi, la difficoltà successiva di riportare l’Iva al suo valore corrente.
Della mancanza di uno slancio progettuale sono testimonianza il Rapporto della Commissione Colao zeppo di agevolazioni fiscali, crediti d’imposta, rinvii di tassazione, contrazioni di aliquote, esenzioni, le quali avrebbero tutte il prevalente effetto di contribuire al massacro della coerenza del sistema tributario nazionale, già ridotto a un colabrodo, ragione non ultima della nostra elevatissima evasione fiscale.
Ma non scherzano nemmeno le proposte di politica industriale del Pd, infarcite di incentivi alla transizione e a fondo perduto, agevolazioni fiscali di vario tipo, crediti d’imposta, stimolazione del risparmio, sgravi per la nuova finanza, sostegni monetari, prestiti, premi ai lavoratori, in una parola trasferimenti monetari, diretti e indiretti, i quali, necessarissimi nell’emergenza e quando le difficoltà non siano altrimenti aggredibili come nel caso della povertà, hanno comunque un valore “compensatorio” non “promozionale” e non sono in grado di agire strutturalmente cambiando il modello di sviluppo.
Qui la pulsione anti-tasse ereditata dal neoliberismo (sostenitore dell’”affamamento” della bestia governativa, starving the beast, mediante tagli delle tasse, in realtà a enorme vantaggio dei ricchi) si salda con una crescente riluttanza dello Stato italiano – dopo il mancato decollo dei gloriosi tentativi di programmazione del primo centrosinistra e la fine dell’epoca d’oro della Cassa del Mezzogiorno e delle Partecipazioni Statali – a ideare e a mettere in pratica, invece che solo politiche indirette per prevalente via monetaria e fiscale fatalmente destinate a confermare gli equilibri dati, progetti di alto profilo mediante politiche dirette, volte a incidere profondamente sullo status quo e a modificare il modello di sviluppo in direzioni programmate e intenzionalmente organizzate.
Eppure, ora che dobbiamo risollevarci dalle tragiche conseguenze della pandemia da coronavirus, il momento sarebbe estremamente propizio per un rovesciamento di paradigma, riscoprendo parole-chiave come “programmazione”, “pianificazione”, “capacità progettuale”.
Non a caso nella straordinaria svolta compiuta dall’Europa con il Next Generation Plan il baricentro è sugli investimenti pubblici, per la sanità, la scuola, l’economia verde.
Questa è oggi la strada da aprire con assoluta urgenza, senza esitare a mettere in campo ipotesi di autentica nuova “democrazia economica”, se non vogliamo che, una volta che l’epidemia sarà stata domata, tutto riparta business as usual, con l’unica variante di una maggiore diseguaglianza.
L’inventiva, la creatività, la creazione dal nulla che sono necessarie dovrebbero indurci a trarre ispirazione in modo non retorico da ciò che fece Roosevelt con il New Deal, quando inventò molte istituzioni, tra cui i Job Corps, le Brigate del lavoro.
Non si deve dimenticare che tra le caratteristiche fondamentali del New Deal ci sono state la mobilitazione anche morale di straordinarie risorse umane e intellettuali – dall’associazionismo al volontariato, ai sindacati, alla scuola e alle Università, ai centri culturali e di pensiero, tutti furono chiamati a contribuire all’ideazione dei progetti di cui c’era bisogno – e la cifra “sperimentalista” (per la quale Roosevelt traeva ispirazione dai filosofi pragmatisti americani e da Dewey) e pertanto la sollecitazione della creatività e dell’inventiva.
Se l’insegnamento più importante per l’oggi è che il lavoro non può essere una misura che si aggiunge alle altre ma deve diventare il baricentro di un’intera politica economica alternativa, occorre assumere la questione della disoccupazione non come un “fallimento del mercato” tra gli altri, ma come la contraddizione fondamentale ricorrente del capitalismo, accentuata da eventi come la pandemia.
Questa è, dunque, la vera sfida odierna: puntare su una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica ideologica, opponendo all’operazione deresponsabilizzante che fanno i sostenitori della generalizzazione dei trasferimenti monetari (quali sono anche gli incentivi fiscali) un’iniziativa di forte profilo ideale sul nuovo modello di sviluppo e sulla “democrazia economica”, la quale, assunta in termini alti, può dar vita a una prospettiva di neo-umanesimo.
Commenta (0 Commenti)Intervista ad Alessandro Genovesi. Il segretario generale Fillea Cgil: gli edili chiedono al governo un protocollo specifico per mettere al primo posto l’interesse generale, i bisogni del paese, di studenti, personale e famiglie
Alessandro Genovesi, segretario generale Fillea Cgil, Conte annuncia il decreto Semplificazioni, temete che ci siano modifiche al Codice degli appalti? Si va verso il modello Genova sponsorizzato da Salvini?
Il Codice degli appalti si può sempre migliorare, ma il modello Genova non è tecnicamente ed economicamente replicabile. E metterebbe a rischio diritti e conquiste dei lavoratori. Il motivo principale delle difficoltà a cantierizzare opere si chiama «troppe stazioni appaltanti con troppi pochi tecnici». Tutto il resto è strumentalità politica.
Voi invece vi siete sempre detti disponibili a lavorare con imprese e governo per Protocolli e intese per far ripartire i cantieri. A che punto siamo nei vari territori del Paese?
Far ripartire i cantieri nel pieno rispetto di contratti, sicurezza e legalità sono fondamentali. Il principale intervento per “bloccare i licenziamenti” si chiama riforme strutturali e ripartenza economica. Ripartenza tanto dei consumi che degli investimenti. Da questo punto di vista notiamo che sull’avvio di cantieri diffusi per la manutenzione, il passo sta cambiando anche al Sud e noi siamo per fare la nostra parte.
La scuola è il grande punto interrogativo della ripartenza. Per far tornare gli studenti in aula in sicurezza a settembre servono interventi edilizi veloci. I tempi ci sono? Le procedure lo consentono?
Lo dico chiaramente: i lavoratori edili sono pronti a lavorare 7 giorni su 7, h24, da qui a settembre per mettere in sicurezza il maggior numero possibile di scuole. Abbiamo chiesto al Ministero dell’Istruzione, al Mit, Province e Comuni di sottoscrivere uno specifico protocollo al riguardo. Il sindacato confederale degli edili di fronte ai bisogni del paese, di studenti, personale e famiglie metterà sempre al primo posto gli interessi generali.
La sanità è stata colpita duramente e anche in questo settore servono nuovi ospedali, modifiche agli esistenti e strutture territoriali. Qual è la situazione cantieristica?
L’edilizia sanitaria non è una priorità da anni, tranne scoprire nei giorni drammatici del Covid come servano non solo più personale, più terapie intensive, ma anche spazi, ospedali, attrezzati. Ora il governo ha una grande occasione ridare centralità alla sanità pubblica e anche ai suoi luoghi, con un piano straordinario. Le risorse ci sono e il tempo è prezioso. Al ministro Speranza dico: facciamo presto e bene. Un ospedale che funziona per un territorio è motore di sviluppo oltre che di tutela.
La regolarizzazione dei migranti non ha interessato anche i lavoratori edili: delusi?
La regolarizzazione non ha ricompreso gli edili eppure sono oltre duecentomila i migranti irregolari che, stimiamo, lavorino nel settore. Duecentomila sui quattrocentomila lavoratori irregolari totali, tutti o quasi impiegati nell’edilizia privata. Anche per questo chiediamo che gli incentivi per ristrutturazioni edili, risparmio energetico, sisma bonus, oggi portati al 110 %, siano subordinati alla certificazione di congruità, cioè di impiego di lavoro regolare.
I metalmeccanici sono tornati in piazza. Lo scontro con la Confindustria di Bonomi si annuncia duro. Nel vostro settore qual è la situazione?
Le tensioni ci sono, inutile negarlo. Nei prossimi giorni capiremo se riusciremo a far passi avanti nel rinnovo di un contratto importante come quello del Legno-Arredo o se dovremmo proclamare il secondo sciopero nazionale. Conosco molti imprenditori seri che come noi sanno che serve più pubblico nell’economia, che vogliono le riforme che servono per competere nel mondo, con più innovazione, ricerca, partecipazione. Spero che battano un colpo. Ora servono buone idee e coraggio, non curve da stadio.
Covid-19 e Sicurezza. I sindacati: Bonaccini pressato da turismo e commercio. Intanto alla Bartolini di Bologna altri 27 contagiati. L'Ausl: valutiamo la chiusura
Nonostante continui ad aumentare il numero di contagiati alla Bartolini con altri 27 positivi ieri che fanno arrivare il totale a quota 91, a Bologna in tutta l’Emilia-Romagna prosegue l’allentamento delle misure di sicurezza. La giunta reginale guidata da Stefano Bonaccini fa entrare in vigore da oggi una delibera che prevede «la ripresa del trasporto a pieno carico», seppur «limitatamente ai posti a sedere».
Se fino a ieri – come in tutta Italia – i viaggiatori sui mezzi pubblici non potevano sedersi vicini oppure di fronte, da oggi su autobus e treni regionali il divieto decade completamente.
Nelle 14 pagine di delibera che accomuna anche la riapertura degli ippodromi e la «limitazione del distanziamento in vasche e aree solarium», Bonaccini motiva la modifica sui trasporti con «l’attuale situazione epidemiologica nel territorio».
Una posizione totalmente contrastata dai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) dei macchinisti che denunciano come «l’occupazione del 100% dei posti a sedere se risolve il problema del sovraffollamento, fa si che però il treno affollato sia la norma e il distanziamento sociale venga meno, fermo restando l’obbligo di indossare mascherine più o meno efficaci. Tale scelta – continuano gli Rls – ha evidentemente motivazioni esclusivamente economiche e che come Rls non ci vede allineati su questa scelta piovuta dal cielo nonostante l’insorgere di focolai in Emilia Romagna».
Ancora più duro il sindacato Sgb (Sindacato generale di base) che chiede «il ritiro immediato dell’ordinanza»: «Una decisione presa in tutta fretta ed in assenza di disposizioni per il personale ferroviario, a dimostrazione di come la giunta Bonaccini sia più sensibile alle pressioni del turismo e del commercio ed ai loro interessi economici».
Tornando alla Bartolini, se il sindaco di Bologna Virgilio Merola parla di «focolaio sotto controllo», il suo assessore al Lavoro Marco Lombardo sottolinea come «dobbiamo evitare che ci sia il tema del bisogno del tornare a lavorare: l’osservanza scrupolosa delle regole potrebbe venire meno in quei settori le tutele sono minori, come appalti e subappalti». Molti lavoratori denunciano di essere stati assunti da Brt con contratti settimanali a contagi già avvenuti, «senza essere stati informai dell’accaduto».
Il direttore del dipartimento di Sanità pubblica dell’Ausl di Bologna Paolo Pandolfi ha annunciato che «potrebbe essere una strada quella di sospendere l’attività del magazzino. Abbiamo fatto 328 tamponi amministrativi, autisti e altro personale e anche a 30 persone assunte in sostituzione di contagiati».
In piazza. Oggi in 16 città italiane si manifesta contro il piano di annessione israeliano e per l'autodeterminazione del popolo palestinese. Nel silenzio complice dell'Europa, è tempo che la questione torni a coinvolgere chiunque creda nei diritti
Oggi in molte città d’Italia, associazioni, organizzazioni, parlamentari, persone, saranno nelle piazze per dire no all’annessione coloniale israeliana, annunciata per il primo luglio dal governo Netanyahu, del 30 percento del territorio occupato palestinese, compresa la Valle del Giordano che fino agli anni ’80 era considerata il «cestino del pane» dell’economia palestinese.
Un no all’occupazione militare, all’apartheid, al razzismo praticato da Israele. E sì al riconoscimento dello Stato di Palestina, ad applicare la legalità internazionale e il rispetto dei diritti umani violati ogni giorno da Israele con la complicità della Comunità Internazionale che lascia Israele impunita per le continue violazioni e l’oppressione del popolo palestinese, mentre dovrebbe imporre sanzioni, non vendere armi, sospendere l’accordo di associazione Unione europea-Israele. Ma questo si fa solo con la Russia o con l’Iran. Il solito due pesi e due misure.
Le manifestazioni di oggi, promosse dalla Comunità Palestinese in Italia, con AssoPacePalestina che si è impegnata in tutte le città nelle quali è presente, ha visto l’adesione di centinaia di associazioni e organizzazioni. Ne cito solo alcune: Rete della pace e del disarmo, Cgil e Fiom nazionali, Arci, Fondazione Basso , sindaci come Orlando e De Magistris, parlamentari di Leu, del Pd, del M5s, partiti della Sinistra Italiana, artisti e intellettuali, per tutti Moni Ovadia, il già presidente del Consiglio Massimo D’Alema e molti altri.
Da lungo tempo la questione palestinese è stata messa all’angolo. Si dice che ci sono troppi problemi nell’area mediorientale, Siria, Libia, Iraq, le fallite primavere arabe, senza assumersi le responsabilità per aver fatto le guerre (con i profughi che ci dicono: «Siamo profughi delle vostre guerre») e per non aver risolto la questione della libertà e l’autodeterminazione del popolo palestinese, che dal 1948 ha vissuto la Nakba, la pulizia etnica della Palestina, l’oppressione giordana ed egiziana, dal 1967 il tallone di ferro dell’occupazione militare israeliana. E fino a oggi, oltre alla confisca di terra e risorse acquifere, con la costruzione di colonie sperimenta una «deportazione lenta».
Il silenzio dei media è assordante, tranne alcune coraggiose voci di giornalisti, ma non è solo il provincialismo dei media italiani, è connivenza e complicità, è buttare via l’etica del giornalismo e subire i ricatti di una hasbara (propaganda) israeliana che accusa di antisemitismo ogni voce che si leva non certamente contro gli ebrei, ma contro una politica israeliana che oltraggia l’ebraismo con il nazionalismo messianico che in questi ultimi anni si è affermato in Israele. Molte sono le voci contro l’annessione, in Israele e nel mondo ebraico, dal mondo politico, da giuristi e studiosi.
L’unità e l’adesione di tante forze politiche e sociali alle iniziative di oggi, contro l’annunciata annessione dei territori che calpesta ogni diritto internazionale – così come ha fatto Trump con il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e il progetto «Affare del Secolo», insieme all’inazione dell’Europa e del nostro governo – è un inizio affinché la solidarietà con la Palestina esca dai ghetti dei gruppi che hanno fatto della libertà per la Palestina il loro essere e diventi di nuovo patrimonio di tutti i movimenti che hanno al loro centro la difesa dei diritti per tutti e tutte. E che sia un monito per le forze politiche che si dicono democratiche affinché tornino all’impegno per il rispetto del diritto internazionale.
*Presidente AssoPacePalestina
Commenta (0 Commenti)Elezioni. Si valuta l'abbinamento della consultazione sul taglio dei parlamentari con il secondo turno delle regionali (Toscana) e delle amministrative nei comuni più grandi, il 4 ottobre. Ma i 5 Stelle non ci stanno e insistono per tenere tutto assieme il 20 settembre. Anche se questo significa chiudere gli istituti scolastici solo pochi giorni dopo la riapertura
Il problema è il referendum. Chi ci ha messo la testa al governo e nella maggioranza non lo nasconde, parlandone in privato. Del resto è evidente che se si dovessero chiudere le scuole solo per le elezioni regionali e comunali il 20 settembre, e non in tutta Italia per garantire a 46 milioni di elettori seggi vicino casa e in ambienti neutrali, il problema dello stop all’anno scolastico sarebbe assai contenuto. Limitato a cinque regioni e qualche comune. Al momento non è così, perché solo dopo aver spinto per gli election days il 20 e 21 settembre, il governo si è fermato a ragionare sull’anno scolastico che dovrebbe ripartire il 14 settembre per fermarsi appena qualche giorno dopo. E per quasi una settimana, visto che le aule dove ospitare i seggi vanno prima allestite e poi sanificate.
Nel caso in cui si votasse solo per le regionali e le amministrative, il problema dello stop obbligatorio alle lezioni riguarderebbe solo cinque regioni e 18 milioni di elettori, oltre a 1.100 comuni circa e 6,5 milioni di elettori che però in parte coincidono con quelli delle regionali. L’accoppiata il 20 settembre con il referendum confermativo, che ovviamente coinvolge tutti i cittadini residenti in Italia e anche 4,5 milioni di residenti all’estero, trasforma un problema affrontabile in un mezzo disastro.
Un’ipotesi alternativa c’è ed è quella di tenere il referendum confermativo in una data diversa, più avanti nell’autunno. Lo stesso decreto che consente gli election days per la prima volta allargati al referendum (sarà approvato a tappe forzate definitivamente dal senato giovedì) fissa la data ultima per la consultazione sulla riforma costituzionale al 22 novembre. È il governo che deve scegliere e ufficiosamente ha già scelto di tenere tutto assieme perché i 5 Stelle così vogliono. Contano infatti su una vittoria facile dei sì per nascondere un risultato prevedibilmente per loro non buono alle altre elezioni. Ma è una richiesta che apre molti problemi a cascata. Innanzitutto lo strappo con il comitato promotore del referendum, quello dei settanta senatori che hanno chiesto il referendum contro il taglio dei parlamentari e che si faranno sentire nel passaggio del decreto nell’aula di palazzo Madama. Conte ha ricevuto da loro ben due memorie e si era impegnato a riconsiderare la questione. Nel caso non lo facesse, come potere dello stato il comitato potrebbe presentare ricordo direttamente alla Corte costituzionale. C’è un precedente, sfavorevole al comitato, ma la Consulta ha comunque detto che il governo, anche se libero nella scelta delle date per il referendum, non può «determinare un’effettiva menomazione dell’esercizio del diritto di voto». Contro l’accorpamento saranno presentati dall’avvocato Besostri, con il sostegno del Comitato per il no, ricorsi in almeno undici tribunali ordinari a partire da lunedì prossimo a Milano. Anche l’Anpi ieri è intervenuta contro l’accorpamento referendum costituzionale- elezioni.
Il piano B potrebbe vedere l’accoppiamento del referendum non con il primo ma con il secondo turno delle elezioni, previsto dalla legge elettorale per la Toscana e in 146 comuni superiori ai 15mila abitanti. Si voterebbe allora in tutta Italia non prima del 4 ottobre, con le scuole già aperte da almeno tre settimane. Ci sarebbe più tempo per allestire sedi alternative: al Viminale immaginano che sarà difficile rinunciare a tutte le scuole ma che si potrà comunque approfittare di molte altre sedi alternative (sale comunali, edifici requisiti alla criminalità, caserme dismesse) per alleggerire la pressione sulle aule scolastiche. Chi ha sicuramente bisogno di più tempo sono i consolati all’estero, in molte nazioni ancora chiusi, che durante l’estate dovranno organizzare il voto di 2,5 milioni di italiani in Europa e 1,5 in sud America.
I 5 Stelle però al momento non intendono rinunciare al 20 settembre per il «loro» referendum. Anche se non sarà possibile evitare la chiusura delle scuole. Infatti il capo politico pro tempore Vito Crimi ieri ha detto di condividere l’ipotesi di allestire i seggi fuori dalle aule scolastiche. Ma, ha aggiunto, «non può essere un obbligo perché metterebbe i sindaci in una situazione difficile»