Il “governo tecnico” di Renzi - «Se vince il No, il "governo tecnico" di Renzi può tranquillamente andare avanti. Ha più di un anno per correggere la rotta. Lo chiamo “governo tecnico” tra virgolette perché nessuno ha mai votato la sua maggioranza… Ho visto un "di più" nella campagna del Sì che mi è andato di traverso: l'allarmismo, il promettere qualsiasi mancia, addirittura l'inno alle clientele… Se vince il Sì, temo che si vada subito alle urne, con l'Italicum in vigore. La strada delle elezioni prenderebbe velocità e porterebbe a un cambio della forma di governo sbagliato e pericoloso. Nascerebbe un governo del capo proprio nel momento in cui il mondo si riempie di capi problematici» - Pier Luigi Bersani
Un'ipotesi di accordo che verrà sottoposta domani al giudizio del Comitato centrale della Fiom e che, dopo la riunione degli organismi unitari convocata il primo dicembre, verrà illustrata nelle assemblee nei luoghi di lavoro e, infine, sottoposta al referendum vincolante tra tutte le lavoratrici e i lavoratori interessati, attraverso un percorso per la prima volta sottoscritto anche da Federmeccanica.
Questo è il primo atto che porterà, nei tempi previsti per la stesura del testo contrattuale, alla definizione delle regole democratiche e delle altre parti demandate dal Testo Unico sulla Rappresentanza alla contrattazione di categoria.
Inoltre, nel nuovo regolamento per le Rsu viene riconosciuto il diritto ai lavoratori a votare sugli accordi aziendali, anche su richiesta di una sola organizzazione sindacale o del 30% dei lavoratori, cosa da sempre nella storia della Fiom ma mai fino ad ora diritto esigibile.
In particolare, l’ipotesi di accordo sottoscritta oggi prevede:
una nuova normativa sulla formazione continua come diritto individuale, con 24 ore e 300 euro per ogni lavoratore nel triennio contrattuale;
il rafforzamento del ruolo delle Rsu nella contrattazione dell’orario flessibile;
l’avvio della sperimentazione per un nuovo sistema di inquadramento;
la sanità integrativa al sistema pubblico, con 156 euro annui a totale carico delle aziende, allargata ai lavoratori a tempo determinato, in mobilità e ai familiari;
un innalzamento del contributo per la previdenza integrativa a carico dell’azienda;
l’introduzione, anche nel Ccnl, di una quota di aumenti defiscalizzati attraverso il welfare, come elemento aggiuntivo alla difesa del potere d’acquisto per un totale di 450 euro nel triennio;
una struttura sperimentale sul salario con la rivalutazione annua dei minimi - con erogazione dal mese di giugno - sulla base dell’inflazione reale, mentre il salario derivante dalla contrattazione aziendale futura e da elementi individuali assume carattere di variabilità piena, diventando nelle parti fisse assorbibile dagli aumenti nazionali sui minimi, tranne che per gli elementi collegati alla prestazione (turni, indennità, straordinario ecc.) o se dichiarato espressamente "non assorbibile";
il totale di tutto questo porta ad un aumento salariale nel triennio prevedibile, derivante dall'inflazione, pari a 51,7 euro mensili, al quale vanno aggiunti 7,69 euro di aumento sulla previdenza, 12 sulla sanità, 13,6 di welfare, per un totale di 85 euro mensili che arrivano a 92,68 con la quota per il diritto alla formazione continua;
una una tantum di 80 euro erogata a marzo 2017.
La delegazione della Fiom dà un giudizio positivo sull’intesa raggiunta, che non presenta alcun tipo di scambio improprio, allarga diritti, va oltre l’inflazione nel suo costo complessivo, struttura il percorso democratico nel Contratto nazionale, richiesta da sempre centrale per la nostra Organizzazione.
Why Italy should vote no in its referendum | The Economist
Italy’s constitutional referendum
Why Italy should vote no in its referendum
The country needs far-reaching reforms, just not the ones on offer
L'Economist si schiera senza senza se e senza ma per il No al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. La posizione viene espressa in un editoriale a corredo di un articolo sulla situazione politica italiana nel nuovo numero in uscita. "Questo giornale ritiene che gli italiani dovrebbero votare no" - scrive l'Economist spiegando che "la modifica alla costituzione promossa da Renzi non affronta il problema principale, cioè la riluttanza dell'Italia a fare le riforme. Inoltre, sottolinea il giornale, "le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono" e gli italiani e l'errore principale è stato commesso dal premier che ha "creato la crisi collegando il futuro del governo al test sbagliato". "Gli italiani - prosegue l'Economist - non avrebbero dovuto essere ricattati " e il presidente del Consiglio "avrebbe fatto meglio a battersi per migliori riforme strutturali".
La critica dell'Economist è puntuale e nel merito. "Ogni eventuale beneficio è comunque secondario rispetto ai rischi. In cima a questi - rileva il giornale - il pericolo che nel tentativo di fermare l'instabilità che ha dato all'Italia 65 governi dal 1945, si crei un uomo forte eletto al comando". Il settimanale punta il dito in particolare con la riforma del Senato non più elettivo. "Molti de suoi membri sarebbero consiglieri regionali e sindaci" quando "regioni e comuni" sono gli "strati di governo più corrotti", concedendo loro anche l'immunità. Questo - si spiega - renderebbe il Senato "un magnete per la peggiore classe politica".
Il giornale evidenzia quindi i rischi concreti in caso di vittoria del No. "Le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono. L'Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come già accaduto in passato. Se in ogni caso la vittoria del No al referendum dovesse innescare il disfacimento dell'euro, allora sarebbe il segnale che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione sarebbe solo una questione di tempo".
Slovenia: da oggi l’acqua pubblica è un diritto costituzionale
Rinnovabili.it) – La Slovenia ha appena approvato un emendamento allaCostituzione con cui riconosce l’acqua pubblica come diritto fondamentale per tutti i cittadini. In questo modo l’accesso all’acqua potabile deve essere garantito al di fuori delle logiche di mercato e della privatizzazione, e non può essere considerata una merce: l’unico gestore sarà lo Stato.
Il parlamento di Lubiana ha approvato il provvedimento con 64 voti a favore e nessun contrario. Si è astenuto il partito Democratico Sloveno, che rappresenta l’opposizione di centro-destra, secondo il quale questo passo non è necessario e si tratta soltanto di una mossa del governo per aumentare il consenso tra la popolazione.
L’emendamento alla Costituzione è stato fortemente voluto dal premier di centro-sinistra Miro Cerar.“L’acqua slovena è di ottima qualità e, a causa del suo valore, in futuro sarà certamente nel mirino di paesi stranieri e degli appetiti delle multinazionali – ha dichiarato Cerar prima della votazione – Diventerà gradualmente una merce di valore in futuro, la pressione aumenterà ma noi non dobbiamo arrenderci”.
Il diritto all’acqua è ormai da anni riconosciuto come uno dei principali diritti umani in diversi trattati internazionali, ma ovunque nel mondo l’acqua pubblica viene minacciata, imbottigliata e venduta negli scaffali dei supermercati come qualsiasi altra merce. La Slovenia è il primo paese dell’Unione europea a difendere l’acqua pubblica nella propria costituzione. Nel mondo questo passo è stato compiuto soltanto da altri 15 Stati.
Il nuovo articolo 70 a della Costituzione slovena recita:
“Le risorse di acqua rappresentano un bene pubblico che è gestito dallo Stato. Le risorse di acqua sono usate in primo luogo e in modo sostenibile per fornire ai cittadini acqua potabile e, in questo senso, non sono un bene di mercato”
Una volta emendata la Costituzione, prima che il provvedimento entri effettivamente in vigore sarà necessario modificare una serie di leggi che regolano la gestione dell’acqua. Da oggi sarà lo Stato a rifornire direttamente e senza scopo di lucro le istituzioni locali, alle quali compete la distribuzione sul territorio.
Vertice di Marrakech. Oggi si riuniscono i capi di stato. L'applicazione dell'Accordo di Parigi compromessa dalla vittoria di Trump. C'è un difetto nel testo della Cop21 entrato in vigore il 4 novembre, che permetterebbe agli Usa di uscire subito dall'intesa. Le emissioni mondiali di Co2 si stabilizzano. Banca mondiale: le calamità naturali causate dal disordine climatico costano 520 miliardi l'anno.
L’ombra minacciosa di Donald Trump incombe sulla riunione dei capi di stato e di governo, che oggi si trovano a Marrakech per la Cop22, la conferenza Onu sul clima, entrata nella seconda settimana (e che si concluderà il 18 novembre).
Accanto al re del Marocco e al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, sono presenti una trentina di presidenti africani (che partecipano anche all’Africa Action Summit, che dovrebbe permettere al Marocco di spianare il terreno per un rientro nell’Unione africana) e molti capi di stato di paesi dell’area del Pacifico, accanto a qualche leader occidentale: François Hollande, per assicurare la transizione con la Cop21 di Parigi dove è stato firmato l’Accordo storico sul clima l’anno scorso, Mariano Rajoy o il primo ministro portoghese, mentre gli altri europei inviano alti rappresentanti al posto dei leader. Fino a ieri non era neppure chiaro se per gli Usa ci sarà il segretario di stato John Kerry.
L’obiettivo della Cop22 è di precisare le condizioni dell’applicazione dell’Accordo di Parigi, entrato in vigore il 4 novembre, con anticipo rispetto alle previsioni, poiché è stato ormai ratificato da 97 paesi che rappresentano il 69% delle emissioni mondiali di Co2. Ma le posizioni di Trump rischiano di far saltare tutto.
Per Trump, il riscaldamento climatico è “una bufala, un concetto inventato dalla Cina per indebolire l’industria manifatturiera americana”. Nel programma di Trump ci sono la riapertura delle miniere di carbone, il rilancio dello shale gas e l’annullamento delle norme dell’Agenzia federale di protezione dell’ambiente (Epa), che potrebbe del resto persino sparire.
Un segnale inquietante viene dalla nomina, per il periodo di transizione fino al 20 gennaio, di Miron Ebell, per occuparsi del destino dell’Epa. Ebell ha lavorato alla Philips Morris e ha collaborato con il Competitive Entreprise Institute, uno dei centri della diffusione delle tesi di scetticismo sul riscaldamento climatico.
Trump ha già minacciato di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi, che impegna il paese a una riduzione del 28% di emissione di gas a effetto serra entro il 2025 (rispetto al livello del 2005).
Ma se gli Usa, secondo responsabile mondiale per il Co2, denunciano l’accordo, cosa faranno gli altri? In particolare la Cina, primo responsabile, alla cui firma avevano contribuito le pressioni di Obama?
Secondo Laurent Fabius, che l’anno scorso era ministro degli Esteri e ha presieduto la Cop21 e la firma dell’Accordo, uscire dall’accordo di Parigi non è così facile: stando all’articolo 28, bisogna lasciar passare tre anni di adesione per annunciare l’abbandono, che diventa operativo solo dopo un anno. Cioè si arriverebbe al 2020, alla prossima elezione presidenziale Usa.
Ma dei giuristi hanno trovato dei grossi difetti nella redazione dell’Accordo, che del resto è “volontario” e non prevede sanzioni per chi lo trasgredisce: Trump potrebbe far uscire subito gli Usa dalla Convenzione-quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici e così lavarsi le mani e sotterrare di fatto l’Accordo di Parigi.
L’Onu nasconde i timori. La responsabile del clima, Patricia Espinosa, ieri si è limitata ad affermare che l’Organizzazione ha “fretta di collaborare con l’amministrazione Trump e far avanzare l’agenda climatica a vantaggio delle popolazioni del mondo”.
Ormai ci sono le prove che l’azione ha effetto: ieri, un rapporto del consorzio scientifico Global Carbon Project ha rivelato che nel 2015 le emissioni di Co2 causate dall’attività umana sono rimaste stabili, dato che dovrebbe venire confermato nel 2016 (che però resta il più caldo della storia).
Questa stabilità non è del resto sufficiente per rispettare l’obiettivo di un riscaldamento climatico che non superi i 2°.
L’uscita degli Usa comprometterebbe anche i finanziamenti che i paesi più poveri attendono per poter far fronte alle conseguenze del riscaldamento climatico e per l’adattamento alle nuove condizioni climatiche.
Secondo la Banca Mondiale, investire nella lotta contro il riscaldamento climatico è urgente, anche solo dal punto di vista economico: le catastrofi naturali causate dal disordine climatico (inondazioni, tempeste, profughi ecc.) costano fino a 520 miliardi di dollari l’anno (e colpiscono i più poveri).