di Stefano Fassina su Huffington Post del 07/12/2016
Puntuale, senza un minuto di ritardo, nonostante il deragliamento del Pd il 4 dicembre scorso, è arrivato il trenino di Giuliano Pisapia. È partito prima delle elezioni amministrative di primavera e non si è fermato neanche un attimo per guardare dal finestrino quel popolo delle periferie economiche e sociali distante da e ostile a chi, per vocazione naturale, lo dovrebbe rappresentare. Neanche una sosta per provare a capire perché l'80% dell'universo degli under-30 ha scritto No al cambiamento renziano. La revisione costituzionale voluta dal Pd era una visione di società, un programma fondamentale: una democrazia senza popolo per una repubblica fondata sui voucher. È stata spazzata via. Ma i suoi autori, illusi dai 13 milioni di Sì, preparano il prossimo giro elettorale. Così, nell'universo autoreferenziale del circuito politico-mediatico, arriva, come nulla fosse accaduto, il trenino del "Campo progressista". Riparte subito: per unire la sinistra. È una destinazione desiderata da tutti noi. Come si può essere insensibili? Ma dove sta l'unità della sinistra nella mappa sociale, economica, culturale e morale del Paese? Nel ricorrente discorso iperpoliticista di Giuliano Pisapia non è dato sapere. Mai, nel suo dolce discorrere, un elemento di programma. Secondo Giuliano Pisapia, la condizione per andare avanti spediti verso l'unità della sinistra è la separazione del Pd da Alfano e Verdini. Il fantastico mondo di Giuliano è così: coincide con i palazzi della politica. La realtà, i suoi drammi, le sue opportunità, sono fuori: un fastidioso e incomprensibile rumore di fondo. Nella sua lettura, è stata l'innaturale e inevitabile alleanza con Alfano e Verdini a costringere Matteo Renzi a un'agenda inadeguata. Eppure, a noi non è sembrato. Noi, insieme a milioni di ex-elettori Pd, abbiamo visto Matteo Renzi interpretare in modo estremo e convinto la democrazia plebiscitaria e il neo-liberismo europeista sanciti nel passaggio fondativo del Lingotto. È stato, per autonoma determinazione, proprio il Pd a volere e a rivendicare orgogliosamente, anche domenica notte nel discorso del commiato del presidente del Consiglio: il Jobs Act e la cosiddetta "buona scuola"; la legge per le trivelle facili e l'assoggettamento del sistema radio-televisivo pubblico all'esecutivo; una politica economica neo-liberista, mix spregiudicato di misure supply side per le imprese e laurismo prima di ogni passaggio elettorale; l'eliminazione della Tasi per tutti; il condono fiscale nell'intervento demagogico su Equitalia; i tagli espliciti e mascherati alla Sanità pubblica; l'esaltazione del Ceta e del Ttip. Ed è proprio il Pd, inoltre, indisponibile a riconoscere i trofei dell'ulivismo -il mercato unico senza standard sociali e ambientali e l'euro- errori politici di portata storica, potenti fattori di svalutazione del lavoro e aggravamento delle condizioni materiali di vita delle generazioni più giovani e delle classi medie. Su quale programma dovrebbe fondarsi l'unità a sinistra? Quale radicale inversione di rotta viene proposta al Pd? Nessuna. Quali iniziative mettiamo in cantiere per dare risposte alle domande del No al referendum costituzionale? Il nostro gentile ex Sindaco arancione non lo dice. Non importa. Noi siamo i buoni. I barbari sono alle porte. Negli ultimi anni, a ogni passaggio elettorale, negli Stati Uniti, in Europa e in Italia, è diventata sempre più larga la faglia sociale apertasi nell'ultimo trentennio. Il Pd è il partito dei signori della globalizzazione, del mercato unico europeo e dell'euro. I riferimenti sociali prioritari del Pd sono Marchionne e le grandi imprese esportatrici di Confindustria. Noi, invece, controcorrente, vogliamo ridare voce al popolo delle periferie. L'unità a sinistra la facciamo con loro. Siamo su versanti opposti della faglia. Comunque, buon viaggio a Giuliano Pisapia e a quanti dai palazzi della politica salgono sul suo trenino a rimorchio del Pd.
Appena acquisito il risultato referendario, sul quale, comunque vogliate metterla, è stato decisivo l'apporto dell'elettorato potenziale della sinistra, si è dato subito fuoco alle polveri contro le fragili membra dei "soggetti politici" della sinistra stessa. Ci ha pensato per prima, a meno di 72 ore dal (per loro) tragico evento, Repubblica, con una intervista di Sebastiano Messina a Giuliano Pisapia. La sua proposta, già preannunciata per il vero nelle settimane scorse, si articola in sintesi in cinque punti:
Ci vuole una legge elettorale uniforme per Camera e Senato, con premio di maggioranza, ma moderato, e alla coalizione. (Ndr Sembra di capire un italicum corretto)
Ci vuole un nuovo centrosinistra
La precondizione è che Renzi (il Pd forse, ma lui dice Renzi) rinunci all’alleanza con il Nuovo Centro Destra.
Bisogna costituire un soggetto di sinistra per governare in alleanza col Pd. E questa nuova alleanza di centro-sinistra si può chiamare “Campo progressista”
La proposta è aperta ma si basa sulla valutazione che il Pd di Renzi non è un partito “geneticamente modificato”. (Ndr. Quindi è alternativa al progetto di Sinistra italiana.)
Non una parola sul risultato referendario e solo una considerazione sulla necessità di andare ad elezione al più presto possibile. Forte è l’impressione di un’intervista fatta prima del 5 dicembre e che non tiene in alcun modo in conto la dimensione straordinaria della vittoria del NO. Non possiamo pubblicare il testo originale perché si tratta di un’intervista soggetta a copyright, ma la potete leggere QUI sul sito di Repubblica. Alcune risposte all'iniziativa di Pisapia: Stefano Fassina, Nicola Fratoianni,
E adesso. Abbiamo visto un referendum costituzionale trasformarsi in un referendum sociale. Dove ciascuno per un momento si è sentito libero di votare per qualcosa in cui credeva. E seppure ci pesa la cattiva compagnia del No, per una volta abbiamo vinto, e vinto bene. Ora facciamo affidamento sul capo dello stato perché non consenta balletti e scorciatoie, perché affidi il timone a una personalità di rilievo istituzionale, una persona super-partes, in grado di traghettare il paese dal pantano renziano a nuove elezioni
Sono passate poco più di 48 ore dalla domenica elettorale che nelle peggiori intenzioni avrebbe dovuto cambiare i connotati alla nostra democrazia parlamentare, e provate a raccontare a che punto siamo a una persona sana di mente, a un cittadino italiano che abbia ancora voglia di prendere sul serio la pesante situazione in cui il giovane, brillante Renzi ci ha cacciato.
Penserebbe a una commedia in costume, a un episodio della repubblica delle banane. Penserebbe che evidentemente siamo degli irrimediabili cialtroni che amano passare da Berlusconi a Renzi.
Per aver evitato di affidare il potere nelle mani di un capo, ci ritroviamo con un presidente del consiglio che oggi, al senato, benché dimissionario, chiederà la fiducia sulla legge di bilancio.
Ci ritroviamo con un senato, appena scampato alla ghigliottina, che non potrà liberamente discutere la legge più importante del governo perché il presidente del consiglio, dopo essersi dimesso davanti alle telecamere nella notte della batosta referendaria, sospende le dimissioni per un pomeriggio e chiede di votargli la fiducia.
Salvo poi, appena qualche ora dopo, recarsi al Quirinale e, con la giacca di capo del governo, rassegnare le dimissioni, con quella di segretario del Pd sedersi di fronte a Mattarella per le consultazioni sulla crisi di governo, il suo.
La pagliacciata delle dimissioni televisive, offerte al pubblico di terza serata, hanno imbarazzato e intralciato il lavoro del presidente della Repubblica, l’unico che le avrebbe dovute ricevere in prima battuta, senza lacrimucce e abbracci. E purtroppo non sarà questo l’ultimo strappo che il rottamatore, l’uomo del cambiamento, il novatore della politica italiana, il riformatore della Costituzione, ci lascia come pesante eredità da smaltire.
Molti di quelli che hanno votato Sì, da ultimo Romano Prodi, si sono turati il naso pur giudicando la riforma un vero obbrobrio. Se malauguratamente avessero anche vinto, oltre al loro trascurabile mal di pancia, ci avrebbero regalato molti anni di futurismo renziano.
Ma come hanno fatto quei dirigenti del vecchio Pci, quei democristiani di vecchio e nuovo conio, quei cattolici adulti a sostenere una persona che non si fa scrupolo di niente, che preda di una bulimia di potere, scavalca le prerogative del presidente della Repubblica, trattandolo come fosse un usciere del Nazareno.
Ma come ha potuto Giorgio Napolitano sostenerlo e ispirarlo nella forsennata guerra contro la Costituzione fino al punto di votargli in parlamento una legge elettorale, l’Italicum, sapendo che sarebbe stata valida solo se al Referendum avesse vinto il Sì, cioè solo con l’abolizione del senato.
Siamo finiti in mani inaffidabili e di questo dobbiamo dire grazie anche a quella sinistra del Pd che prima ha ripetutamente votato la riforma costituzionale e poi ha detto No (a parte Cuperlo finito a bagnomaria nel brodo del Sì).
Oggi il bollettino di bordo dice che Renzi chiederà a Mattarella un governo istituzionale con una maggioranza allargata al fronte del No (leggi Berlusconi e Forza Italia). Altrimenti tutti al voto.
Vedremo, intanto quel che sappiamo già è che questo gruppo dirigente del Pd ha messo il paese nel tritacarne referendario e ora lo lascia alle scorrerie del grande capo, ferito e a caccia di riscossa in una prossima campagna elettorale. Di cui non sappiamo né quando ci sarà, né con quale legge elettorale verrà celebrata. Vale a dire se, come la magnifica coppia Renzi-Alfano vorrebbe, le urne si apriranno a primavera come i fiori e con quale razza di governo in carica.
Nel frattempo le politiche economiche e sociali di palazzo Chigi continueranno a macinare voucher, ticket e povertà che sale al 48% per le coppie con figli e al 51% se si tratta di minori.
Per chi legge questi dati offerti dall’Istat non è difficile interpretare certe esagerate percentuali del No, come quell’81% di giovani con un elevato grado di istruzione e disoccupazione, come quel povero Sud ricco di grandi città del No, entrambi determinanti, giovani e Sud, a trasfigurare un referendum costituzionale in un referendum sociale.
Abbiamo visto un referendum costituzionale trasformarsi in un referendum sociale. Dove ciascuno per un momento si è sentito libero di votare per qualcosa in cui credeva.
Dove ciascuno per un momento si è sentito libero di votare per qualcosa in cui credeva, come ha fatto quel vasto mondo di movimenti piccoli e grandi, dai centri sociali alla Cgil, all’Anpi, ai comitati del No.
E seppure ci pesa la cattiva compagnia che per affondare Renzi difendeva a denti stretti la democrazia costituzionale di cui gli importava meno di niente, per una volta abbiamo vinto, e vinto bene.
Ora facciamo affidamento sul capo dello stato perché non consenta balletti e scorciatoie, perché affidi il timone a una personalità di rilievo istituzionale, una persona super-partes, in grado di traghettare il paese dal pantano renziano a nuove elezioni.
Dopo il referendum. Se non vogliamo che domenica sia stata una vittoria di Pirro, il vero impegno per la sinistra comincia adesso. Il governo è importante, ma superato lo slogan «se andremo al governo faremo...». Dobbiamo fare subito, laddove siamo
Evviva. Le vittorie, da un bel pezzo così rare, fanno bene alla salute. E poi questa sulla Costituzione non è stata una vittoria qualsiasi, come sappiamo, nonostante le contraddittorie motivazioni che hanno contribuito a far vincere il No.
La cosa più bella a me è comunque sembrata la lunghissima campagna referendaria.
Contrariamente a quanto è stato detto – «uno spettacolo indecente», «una rissa», ecc. – quel che è accaduto contro ogni attesa è stato un rinnovato tuffo nella politica di milioni di persone che non discutevano più assieme da decenni. Come se si fosse riscoperta, assieme alla Costituzione, anche la bellezza della partecipazione.
In questo senso mi pare si possa ben dire che contro il tentativo di ridurre la politica alla delega ad un esecutivo che al massimo risponde solo ogni cinque anni di quello che fa si sia riaffermata l’importanza dell’art.3, quello in cui si riconosce il diritto collettivo a contribuire alle scelte del paese. Pur non formalmente toccato dalla riforma Boschi, è evidente che la cancellazione della sua sostanza era sottesa a tutte le modifiche proposte. Evviva di nuovo.
Per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.
Non vorrei tuttavia turbare i nostri sogni nel sonno del dovuto riposo dopo questa cavalcata estenuante e però credo dobbiamo essere consapevoli che per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.
Quella che abbiamo combattuto non è stata infatti solo una battaglia per difendere la nostra bella democrazia da una deplorevole invenzione di Matteo Renzi: abbiamo dovuto impedire che venisse suggellata un’ulteriore tappa di quel processo di svuotamento della sovranità popolare, che procede, non solo in Italia, ormai da decenni. E che il nostro No non basterà di per sè, purtroppo, ad arrestare.
Viene da lontano, si potrebbe dire dal 1973, quando all’inizio reale della lunga crisi che ancor oggi viviamo, Stati Uniti, Giappone e Europa,su sollecitazione di Kissinger e Rockfeller, riuniti a Tokio, decretarono in un famoso manifesto che con gli anni ribelli si era sviluppata troppa democrazia e che il sistema non poteva permettersela. Le cose del mondo erano diventate troppo complicate per lasciarle ai parlamenti, ossia alla politica, dunque ai cittadini.
E’ da allora che si cominciò parlare di governance (che è quella dei Consigli d’amministrazione prevista per banche e per ditte) e ad affidare via via sempre di più le decisioni che contano a poteri estranei a quelli dei nostro ordinamenti democratici, cui sono state lasciate solo minori competenze di applicazione.
Abbiamo protestato contro molte privatizzazioni, poco contro quella principale: quella del potere legislativo.
Qualche settimana fa Bayer ha comprato Monsanto: un accordo commerciale, di diritto privato. Che avrà però assai maggiori conseguenze sulle nostre vite di quante non ne avranno molte decisioni dei parlamenti.
Ci siamo illusi che la globalizzazione producesse solo una catastrofica politica economica – il liberismo, l’austerity – e invece ha stravolto il nostro stesso ordinamento democratico. Mettendo in campo per via estralegale quello che dal Banking Blog è stato definito l’acefalo aereo senza pilota del capitale finanziario, impermeabile alla politica.
Per svuotare il potere dei parlamenti, un po’ ovunque, ma in Italia con maggiore vigore, sono stati delegittimati, anzi smontati, quegli strumenti senza i quali quei parlamenti non avrebbero comunque più potuto rispondere ai cittadini: i partiti politici, addirittura ridicolizzati e resi “leggeri”, cioè inconsistenti e incapaci di costituire l’indispensabile canale di comunicazione fra cittadini e istituzioni.
Si sono via via annullate le principali forme di partecipazione, o, quando non è stato possibile, sono stati recisi i legami che queste tradizionalmente avevano con una rappresentanza parlamentare.
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione, i soggetti sociali – ma anche politici – in grado di non renderla pura protesta o mera invocazione a ciò che potrebbe fare solo un governo.
Dobbiamo cioè uscire dall’ossessione governista che sembra aver preso tutta la sinistra, e cominciare a ricostruire l’alternativa dall’opposizione.
La democrazia è conflitto (accompagnato da un progetto), perchè solo questo impedisce la pietrificazione delle caste e dei poteri costituiti. Se non trova spazi e canali, diventa solo protesta confusa, manipolabile da chiunque.
Tocca a noi aprire quei canali, costruire le casematte necessarie a creare rapporti di forza più favorevoli; e poi, sì, cercare le mediazioni (che non sono di per sé inciuci) per raggiungere i compromessi possibili (rifiutando quelli cattivi e lavorando per quelli positivi).
Del resto, non è stato forse proprio per via delle lotte e dell’esistenza di robusti canali e presenze parlamentari che fino agli anni ’70 siamo riusciti ad ottenere quasi tutto quanto di buono oggi cerchiano di difendere coi denti, dall’opposizione e non perchè avevamo un ministricolo in qualche governo?
Dobbiamo fare subito, laddove siamo.
Non voglio dire che un governo non sia importante, vorrei solo superassimo l’ossessione che si incarna negli slogan elettorali: «Se andremo al governo, faremo…». Dobbiamo fare subito, laddove siamo.
Nella mia penultima iniziativa referendaria, a Gioiosa Jonica (in piazza come non si faceva da tempo) una splendida cantante locale è arrivata a concludere: con la canzone che ben conosciamo “Libertà è partecipazione”.
Propongo divenga l’inno della nostra area No. (E speriamo anche che quest’area preservi l’unità di questi mesi).
L'Italia s'è desta. Ha vinto la Costituzione. Ha perso il plebiscito. Ha vinto il popolo. Ha perso il populismo cinico. Ha vinto la sovranità del popolo. Ha perso il dogma per cui non ci sarebbe alternativa. Ha vinto la voglia di continuare a contare. Di continuare a votare. Ha perso chi voleva prendersi una delega in bianco. Ha vinto la partecipazione, il bisogno di una buona politica. Ha perso la retorica dell'antipolitica brandita dal governo. Ha vinto un'idea di comunità. Ha perso il narcisismo del capo. Ha vinto la mobilitazione dal basso, senza mezzi e senza padrini. Ha perso chi ha messo le mani sull'informazione, chi ha abusato delle istituzioni senza alcun ritegno. Ha perso Giorgio Napolitano: che avrebbe dovuto unire, e invece ha scelto di dividere. Ha perso Matteo Renzi, con tutta la sua corte: ma solo perché hanno voluto cercare nello sfascio della Costituzione una legittimazione che non avevano mai avuto nelle urne elettorali. Un presidente del Consiglio che si dimette perché ha intrecciato irresponsabilmente la sorte di un governo e la riforma della Costituzione. Rivelatore il suo discorso: Renzi non ha detto di aver sbagliato. Ha detto di aver perso (difficile dire il contrario). Ma non hanno vinto la Lega, il Movimento 5 Stelle o la Sinistra. Hanno vinto tutti i cittadini. Anche quelli che hanno votato Sì: perché tutti continuiamo ad essere garantiti da una Costituzione vera. Che protegge tutti: e in particolare proprio chi perde. Chi è in minoranza. Chi non ce la fa. E ora non raccontateci che l'Italia non vuole guardare avanti. È vero il contrario: l'Italia ha capito che questo non era un cambiamento. Ha vinto l'Italia che vuole cambiare verso. Ma davvero. E ora che succede? Succede che la Costituzione rimane quella scritta da Calamandrei, La Pira, Basso, Moro e Togliatti. Non quella riscritta dalla Boschi e da Verdini. E succede che Maurizio Landini fa i cappelletti, il piatto della festa. Perché oggi è un giorno di festa. Per tutti: nessuno escluso. Il campo da gioco c'è ancora. Da domani si gioca.
5 Dicembre 2016
Tomaso Montanari, L’Italia s’è desta – Emergenza Cultura