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intervento di Nicola Fratoianni su Huffington Post. 

La questione per la sinistra italiana è più semplice di quanto la racconti il dibattito quotidiano. Basterebbe guardare alla realtà piuttosto che affannarsi tra la ricerca di un "federatore", gli appelli a Matteo Renzi e al PD perché recuperi lo spirito del centrosinistra (basta che sia nuovo) o dell'Ulivo (purché sia almeno 2.0) e il richiamo continuo e quasi salvifico alla mitica cultura di governo da opporre a un fantomatico radicalismo minoritario.

Guardare alla realtà e fare quello che la Politica dovrebbe fare: scegliere da che parte stare. Gli anni che abbiamo alle spalle hanno visto crescere a dismisura la diseguaglianza fino a livelli che solo qualche tempo fa non avremmo nemmeno immaginato. E' aumentata la precarietà e il lavoro, anche quello che c'è, per la grande maggioranza è sempre più povero, sottopagato, sfruttato e deprivato di diritti e tutele.

Il sistema formativo, dalla scuola primaria all'università e al comparto della ricerca, ha subito un pesante definanziamento con conseguenze molto concrete: diminuzione degli immatricolati, dei laureati, aumento dell'abbandono scolastico, impoverimento generale della capacità competitiva del Paese. Sono crollati gli investimenti pubblici in nome di austerità e liberismo, lo smantellamento del welfare e l'attacco ai servizi pubblici ha ridotto sensibilmente le possibilità di fette sempre più larghe di popolazione di accedere a diritti fondamentali come sanità e casa. In breve, negli anni della crisi in pochi si sono arricchiti e moltissimi si sono drammaticamente impoveriti.

Elusione, evasione e corruzione continuano a pesare come macigni sui bilanci e l'attuale struttura dei trattati su cui si regge l'Europa risulta sempre più incompatibile con qualsiasi ipotesi di svolta e con la stessa sopravvivenza del progetto europeo. Questa situazione non è il frutto di un destino cinico e baro. E' il risultato concreto e del tutto prevedibile di scelte e politiche precise. In Italia, solo per stare al recentissimo passato portano i nomi di Jobs Act, Buona scuola, Sblocca Italia.

In Italia come in Europa queste scelte hanno padri e madri: sono in buona parte figlie di una cosiddetta sinistra di governo che si è progressivamente trasformata nel notaio dei grandi poteri economico finanziari.

Occorre partire da qui se vogliamo almeno provare a capire le ragioni di quello che succede nel ventre della società, italiana ed europea. La rabbia sociale cresce in modo direttamente proporzionale alla crescita della diseguaglianza e dell'ingiustizia. Ed è qui che cresce la destra peggiore, che tornano razzismo xenofobia e violenza. E' in questo contesto che trova nutrimento la sfiducia quando non il disprezzo per la politica percepita solo come la guardia del corpo delle élites e dei loro interessi.

Dunque eccoci al punto.

Può la sinistra essere credibile se immagina di allearsi prima o dopo il voto con i responsabili di questa situazione?

Davvero c'è qualcuno che pensa che l'appello ad una sorta di union sacrée contro i barbari alle porte possa funzionare?

La mia risposta è semplice: no. Per riconquistare ciò che è stato perso in termini di credibilità serve tutt'altro.

Serve innanzitutto il coraggio di una proposta e di una piattaforma chiara. Una proposta che parli ai molti che hanno pagato il prezzo della crisi e delle politiche che ne hanno acuito gli effetti, che chieda il conto a chi ha solo preso senza nulla dare, che rimetta l'interesse generale al centro della politica.

Una lotta senza quartiere alla diseguaglianza e all'ingiustizia, fondata su poche semplici cose. Redistribuzione della ricchezza con misure di sostegno al reddito e un riforma fiscale che intervenga sulle grandi ricchezze e sui grandi patrimoni, un piano di investimenti pubblici per rilanciare l'economia, la riduzione del tempo di lavoro per fare dell'innovazione una opportunità e non una condanna e per redistribuire il lavoro che manca. La restituzione dei diritti espropriati a cominciare dall'articolo 18 perché difendere i lavoratori dai licenziamenti ingiusti significa difendere il lavoro ma soprattutto la libertà. E poi gratuità dell'istruzione e ricostruzione del welfare, dalla sanità al diritto alla casa.

Sono alcune delle questioni che a me paiono più urgenti. Apriamo una discussione su questo, contribuiamo a costruire uno spazio aperto e partecipato nel quale definire una piattaforma, decidere le priorità. Facciamolo a partire da un metodo che consenta a tutti e a tutte di partecipare e decidere. Non solo alle organizzazioni della sinistra politica ma soprattutto a chi non si riconosce in nessuna di queste. Un metodo per il quale ci aiuta ancora una volta la semplicità: democrazia.

Democrazia per definire la piattaforma, per scegliere i candidati, per individuare chi meglio possa rappresentare pubblicamente questa proposta politica ed elettorale, magari immaginando forme plurali e certamente non monosessuate. Facciamolo attraversando l'Italia, provincia per provincia, comune per comune.

Si può fare ed è necessario farlo. Ma occorre muoversi. Senza steccati e senza veti preventivi. Ma con chiarezza e decisione.

L'unica discriminante di cui abbiamo bisogno ha che fare col coraggio di immaginare e proporre una alternativa radicale allo stato di cose presenti perché radicale è la natura dei problemi che abbiamo davanti.

Per queste ragioni mi rivolgo a tutti quelli che sentono questa urgenza, alle forze politiche e ai loro segretari, a Civati, Speranza, Acerbo, Pisapia a chi nell'esperienza di governo municipale si è opposto all'umiliazione dei territori e alla mercificazione dei beni comuni, alle tante liste civiche e di alternativa che si sono misurate alle amministrative scorse e che stanno costruendo da protagoniste questa campagna elettorale, a chi si è battuto per difendere la Costituzione, a chi ogni giorno organizza politica sui propri territori dalla parte dei più deboli. Cominciamo subito, pubblicamente e con determinazione a costruire questo cammino. Con unità e umiltà.

 

http://www.huffingtonpost.it/nicola-fratoianni/cari-civati-speranza-pisapia-ricostruiamo-la-sinistra-insieme_a_22100472/

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Aldo Carra da "il Manifesto" del 19 maggio 2017.
Ci risiamo. Dopo alcune legislature con sistemi elettorali post-proporzionali, costruiti di volta in volta su misura per i contendenti più forti, torniamo allo stesso gioco. Stiamo per concludere una legislatura nata con una legge incostituzionale, abbiamo consumato governi che hanno immiserito anche quel poco di nobile che c’era nella stessa vocazione maggioritaria, abbiamo bruciato bipolarismo e bipartitismo, siamo nel pieno di un tripolarismo multipartitico con partiti e movimenti, vecchi e nuovi, tanti come mai prima.
Ebbene chi dopo tutto questo sperava si potesse aprire una fase nuova e discutere di una legge rispondente alle esigenze generali del paese oggi, rinunci alle speranze. Le posizioni del M5S, prima proporzionalista, adesso favorevole ad una legge maggioritaria, e l’ultima trovata del Pd di un modello tedesco in salsa italiana che con una scheda unica costringerebbe a listoncini locali fatti su misura per premiare Pd e alleati locali e per rendere inutile i voti ai partiti piccoli (da SI ad Art.1) ripropongono un altro modello di legge su misura per un confronto muscolare e diretto tra i due principali contendenti.
Ci stiamo così candidando a raggiungere il record di 5 leggi elettorali, tanto su misura quanto inefficaci e costituzionalmente precarie, in 25 anni.

Come mai? Se tutto questo può accadere nel nostro paese è perché le soluzioni sperimentate non hanno sciolto il nodo del rapporto tra rappresentanza e governabilità adottando compromessi che lo hanno aggrovigliato invece di scioglierlo. Ed oggi, quando una persona indubbiamente sensibile alla rappresentanza ed alla società civile come Pisapia afferma «Sono per perseguire governabilità, conoscere il candidato e votarlo; è possibile un sistema misto; tra proporzionale e maggioritario si può trovare una soluzione», mi pare che proseguiamo sulla stessa via senza uscita. L a rilevanza politica crescente che la governabilità sta assumendo a sinistra rispetto alla rappresentanza non tiene conto della mutazione nell’assetto strutturale del nostro sistema politico: non siamo più nel tradizionale bipolarismo con due partiti egemoni, ma in un tripolarismo strutturato con tre aree che rappresentano ciascuna un terzo degli elettori.
Se si vuole garantire che una delle tre forze/aree abbia il 53-55% dei seggi – quasi raddoppiandone il peso reale e quindi dimezzando quello degli altri partiti – il problema non è di sistema elettorale, ma di sistema istituzionale. O si va verso un sistema di premierato forte o di presidenzialismo in cui magari col ballottaggio si sceglie “chi” deve governare, riconfigurando di conseguenza gli altri livelli istituzionali con accresciuti poteri di riequilibrio (così è nel sistemi presidenziali francese e statunitense) o si sceglie di restare dentro un sistema parlamentare in cui si eleggono le forze politiche lasciando ad esse il compito di conquistare il consenso della maggioranza degli elettori e se non ce la fanno di allearsi con le forze politiche più vicine ed omogenee (come avviene ad esempio in Germania). Tertium non datur.
Nel nostro caso specifico, poiché abbiamo alle spalle un referendum che ha detto No ad una mutazione costituzionale che configurava il primo modello bisogna prenderne atto e bisogna che lo facciano tutti, sia quelli che hanno votato no che quelli che hanno votato si. Ma c’è un altro ragionamento da fare. L’assetto politico delle democrazie occidentali è in mezzo ad una bufera che scuote le tradizionali divisioni sinistra-destra, progressisti-conservatori mentre nuove diadi emergono tra alto e basso, protezione ed apertura. Siamo, insomma, in una fase di delicata mutazione.

Come ritrovare la bussola per costruire un nuovo assetto partitico se non rimettendo al centro di esso gli elettori e la loro rappresentanza? E come fare questo se non dando vita ad una legislatura ri-costituente che abbia il coraggio storico di consentire agli elettori di esprimere liberamente le loro volontà, senza ricatti di meno peggio e “voti utili forzati”, e di ripartire da uno straordinario bagno di democrazia rappresentativa per ricostruire la politica?
Pur riconoscendo che la discriminante destra-sinistra, progresso e conservazione è stata messa in discussione da processi oggettivi (globalizzazione) e soggettivi (subordinazione culturale delle forze di sinistra al mercato), penso che essa rimanga ancora una linea di demarcazione sulla quale si articola ogni democrazia. E penso che le forze come il M5S che, invece, allignano sulla non scelta tra destra e sinistra vadano sfidate proprio su questo terreno. Ma per fare questo la sinistra deve farsi protagonista essa di una fase nuova: assumere il proporzionalismo come necessità storica della fase attuale. Solo così lo spazio che si è creato con la ricollocazione al centro del Pd può essere riempito da una soggettività politica nuova, con una massa critica significativa. Senza restare invischiati nello scontro tra populismo di governo e populismo antiestablishment.
Per un nuovo campo largo di sinistra capace anche di condizionare, ma a partire dalla propria autonomia progettuale.

 

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CITTÀ E TERRITORIO » TEMI E PROBLEMI » BENI COMUNI

Un paesaggio merce di scambio

 
Il caso della storica Arena Borghesi, a Faenza, dove il cemento prevale sui beni comuni ed identitari e la prassi contrasta palesemente con i principi fondativi degli strumenti urbanistici. Documento di Italia Nostra e Legambiente, sezioni di Faenza. 8 maggio 2017 (p.d.)
 
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Tra due giorni il voto in Francia: fra indecisione e banalizzazione del voto | Il Manifesto Bologna

di Rossana Rossanda

Mancano due giorni alla conclusione delle presidenziali, sembra che molti elettori siano ancora incerti fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, ma un passo essenziale in Francia è stato già compiuto: si può votare il Fronte Nazionale come un qualsiasi altro partito di destra. La sua banalizzazione è avvenuta.

Una italiana della mia età stenta a capirlo. Quando fini la guerra mondiale dicemmo Mai più e ci credemmo. Invece meno di cento anni dopo ci risiamo, persone perfette mi dicono: ma questa Ue, ma Angela Merkel… per una come me, che i fascisti li conosceva dagli anni Trenta a scuola, e poi se li trovo’ contro in guerra – i miei compagni fucilati in piazza o impiccati lungo le strade – (già non ho mai sopportato sentir dire che la colpa era tutta dei tedeschi, gli italiani essendo in fondo “brava gente”, ognuno pronto a nascondere il “suo” ebreo) – per me come per quelli che lo hanno conosciuto, neppure le nefandezze di Netanhiaou fanno scordare che il fascismo non è perdonabile.

Invece qui sento dire serenamente che, non esageriamo!, secondo i sondaggi il Fronte Nazionale “non supererà il quaranta per cento dei voti”. In nessun altro paese d’Europa è cosi. È la Francia che si ritiene talmente intrisa di democrazia, che neppure frequentare i Le Pen la può contaminare. A questo hanno portato venti anni di liberismo, e non poi cosi scatenato: sono state centinaia le fabbriche chiuse nell’esagono e centinaia di migliaia i posti di lavoro perduti, ma un letto anche uno straniero in ospedale lo trovava.

Lo sanno i migranti che rischiano la vita pur di arrivare qui, per il resto la messe di risentimento è incalcolabile. O meglio, fra i mali di una società non esiste confronto. Inutile chiamare a soppesare quel che è peggio: ognuno patisce amaramente il suo e ne è talmente traumatizzato che non vede l’altro.

 

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E' morto Valentino Parlato, tra i fondatori del manifesto, di cui è stato più volte direttore e presidente della cooperativa editrice. Era nato a Tripoli, in Libia, il 7 febbraio 1931. 

Comunista per tutta la vita, ha militato nel Pci fino alla radiazione, lavorato a Rinascita, fondato e difeso il manifesto in tutta la sua lunga storia

 

Per ora ci fermiamo qui, abbracciando forte la sua splendida famiglia e tutti i compagni che, come noi, l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene.

 

 

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Gianni Ferrara da "il manifesto" del 26 aprile 2016

Mélenchon rivela, dimostra, impone alla sinistra italiana, se c’è e vuol esserlo davvero, cose chiare e nette. Rivela che meritare di essere definita «estrema» non impedisce di ottenere tanti voti quanto quelli che la distanziano di poco dalle due maggiori formazioni politiche.
Il risultato del primo turno dell’elezione in Francia dimostra, anzi, che la somma dei voti della sinistra estrema e del partito socialista, che è quello di Hamon e non quello di Hollande e degli altri converti al liberismo, supera quelli di Macron (23,8 %), il primo dei duellanti al secondo turno, dato che 19,6%, più 6,3 % è eguale a 25,9%. Essere di sinistra, anche estrema, non condanna perciò alla irrilevanza politica. Perché la sinistra non è morta col crollo del muro di Berlino.
Dimostra Mélanchon che si può rappresentare, quindi raccogliere, esprimere, assumere come propri e manifestare i bisogni, gli interessi, le domande, i progetti che emergono della classe sociale dei lavoratori.
Evitando, fortunatamente, di denominarli come partecipanti ad una gara podistica, primi, secondi, ultimi, penultimi … e nascondendo così che la loro è la condizione di vita determinata dal rapporto capitalistico di produzione. Rapporto che non è stato trasformato né dalla rivoluzione informatica né dalla globalizzazione che altri profili, anche importanti, hanno modificato, ma non certo la sua struttura quella salariale, che accomuna operai e impiegati, che, come tali, vengono sfruttati.
È quello stesso rapporto che investe i precari in quanto aspiranti allo sfruttamento, così come i disoccupati permanenti, depauperati anche della condizione di sfruttati. È, infine, quello degli emarginati dalle crisi di sovrapproduzione o da quella che da dieci anni attanaglia l’Europa, e che, con la finanziarizzazione dell’economia, prova a frenare o a mitigare le conseguenze della caduta tendenziale del tasso di profitto.
Mélanchon indica senza infingimenti che questa Europa è la maggiore e più evidente responsabile della sua regressione incessante sul piano della sostenibilità sociale. Non solo su questo giornale e già sulla rivista di questo giornale abbiamo denunziato cento volte l’accumulo di assurdità istituzionali e di totalitarismo normativo contenuto nei Trattati e riassunto in quello di Lisbona.
Oggi una forza politica europea non sospetta di popolarismo come la «sinistra radicale francese» pone come suo obiettivo programmatico la democratizzazione dell’Unione europea. Democratizzazione, quindi, non uscita avventuristica dall’Ue, consapevolezza quindi della impossibilità di lottare efficacemente contro il capitalismo da una dimensione territoriale minore da quella continentale. Democratizzazione che, per essere tale, deve radiare l’immunità politica dei consigli europei che, sotto lo scudo della collegialità, offre agli esecutivi degli stati dell’Ue, cioè ai produttori dei regolamenti europei, l’irresponsabilità politica delle norme che produce su proposta della Commissione, l’esecutivo per eccellenza dei Trattati, che a loro volta furono deliberati dagli esecutivi degli stati. Quei Trattati che pongono come fine esclusivo dell’Ue e come mezzo per raggiungerlo l’economia di mercato aperto e in libera concorrenza.
Dalla vicenda della sinistra radicale europea, dal suo irrompere imponente ed improvviso sulla scena francese la sinistra italiana deve trarre tutte le conseguenze. Innanzitutto quella di sapere che può esistere, e lo può, senza accoppiamenti snaturanti, senza attenuazioni o falsificazioni abiuranti, senza revisioni stravolgenti. Lo può se decide di essere sinistra.

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