Riforme. Anziché delegare la gestione agli altri enti, hanno gonfiato gli uffici di personale spesso poco qualificato, con logiche clientelari, aggravando il divario Nord-Sud
È ormai chiaro che una rinnovata centralità dello Stato è la condizione sine qua non per affrontare con efficacia gli effetti economici e sociali della crisi in atto.
Ma, come l’esperienza dell’emergenza pandemica ci insegna, se è importante rivolgere un’attenzione critica al ruolo dello Stato, al fine di semplificare e velocizzare le procedure burocratiche, soprattutto in vista del Ricovery Plan, occorre allungare lo sguardo all’assetto istituzionale nel suo insieme.
L’attenzione va rivolta innanzitutto alle Regioni che, in generale, non hanno dato buona prova nella gestione del Covid-19. La Lombardia ha mostrato tutti i limiti di una sanità aziendalizzata e privatizzata.
Il «modello» lombardo, che ha costruito ponti d’oro ai privati, è sotto scacco. La tanto esaltata sanità lombarda – composta al 40 per cento da cliniche e altre strutture private convenzionate – è stata sconfitta dal coronavirus e si è trovata a contare decine di migliaia di vittime negli ospedali e nelle case di cura per anziani.
La decantata eccellenza lombarda, incarnazione dell’ideologia neoliberista per la determinazione con cui ha ridimensionato drasticamente il servizio sanitario pubblico, si è schiantata miseramente di fronte all’incapacità di rispondere alle innumerevoli richieste di aiuto, anche a livello domiciliare.
Una débâcle clamorosa, tanto più grave quanto più è negata dai diretti responsabili della sanità lombarda, a partire dal presidente Fontana e dall’assessore Gallera.
Non potrebbe essere altrimenti. La Lega e il centro-destra, infatti, hanno sempre anteposto la logica del profitto al diritto alla salute trasferendo ingenti risorse pubbliche ai gruppi privati presenti nella sanità.
Nel Centro- Sud e nelle Isole il virus è stato più clemente che al Nord. Ma il fatto che alcune regioni siano state colpite meno da Covid -19 non attenua il giudizio severo che merita l’attuale gestione della sanità, specchio fedele, in generale, di una visione pseudo-aziendalistica che ha nel connubio pubblico-privato il suo fondamento.
Nelle prossime elezioni regionali le forze di sinistra dovrebbero rimettere al centro l’obiettivo di riaffermare il ruolo centrale, pubblico e universale del servizio sanitario nazionale, correggendo finalmente le gravi distorsioni di questi ultimi decenni. Il sistema sanitario che, è bene ricordarlo, assorbe circa il 75 per cento dei bilanci regionali, rappresenta la punta dell’iceberg di una pericolosa e generalizzata violazione del dettato costituzionale.
Gli enti regionali, in base alla Costituzione e alla legge istitutiva del 1970, avrebbero dovuto esercitare solo compiti legislativi, di programmazione e di indirizzo, delegando le funzioni gestionali a Comuni e Province.
In realtà, in questi 50 anni, al trasferimento di competenze statali, che si sono succedute con cadenza periodica, non sono seguiti altrettanti provvedimenti regionali di decentramento di funzioni e competenze agli enti locali.
Invece di delegare la gestione della cosa pubblica a Comuni e Province le giunte regionali, attraverso assunzioni basate poco sul merito e molto, invece, sulla logica clientelare, hanno pensato bene di gonfiare i propri uffici di personale di norma poco qualificato, in particolare al Sud.
Per queste scelte sciagurate è stato pagato un prezzo economico e sociale alto: si è accentuato il divario Nord-Sud; sono peggiorati molti indicatori riguardanti i servizi pubblici, lo spreco di risorse, la corruzione, l’infiltrazione mafiosa, la qualità della vita, la difesa del territorio e del paesaggio, gli investimenti produttivi e nelle infrastrutture.
Con l’elezione diretta dei presidenti di Regione, a partire dal 1999, la situazione non è migliorata.
I presidenti regionali, che impropriamente si fanno chiamare «governatori», hanno contribuito non poco all’impoverimento della partecipazione democratica, allo svuotamento del dibattito politico e alla crisi stessa dei partiti.
È urgente, dunque, tornare al dettato costituzionale, e abbandonare, prima di tutto, l’idea folle dell’autonomia «differenziata» che avrebbe, da un lato, pesanti effetti negativi in termini di aggravamento degli squilibri e di accelerazione dei processi di frammentazione sociale e territoriale, e dall’altro sarebbe foriera di seri rischi per la stessa convivenza civile e democratica.
Qualche anticipazione della deriva cui potremmo andare l’abbiamo avuta già in queste settimane di emergenza, assistendo all’irresponsabile gara tra i «governatori» su chi la sparava più grossa o su chi era più bravo a disattendere le ordinanze del governo.
La strada maestra è dunque richiamare tutti al rispetto della Costituzione, facendo tornare le Regioni nei limiti dai quali sono sconfinate.
Ciò implica che le Regioni facciano una sana cura dimagrante ponendo mano al decentramento, finora negato, di compiti di gestione e di personale ai Comuni e alle Province.
Alle Province, che potrebbero avere un ruolo importante nella programmazione intercomunale e di area vasta, va restituita al più presto piena dignità istituzionale con il ritorno all’elezione diretta dei consiglieri.
E infine, va rafforzata l’autonomia politica e fiscale dei Comuni con una riforma che, migliorando il carattere progressivo della tassazione, assicuri entrate certe per garantire sevizi pubblici efficienti, un welfare locale più moderno e una cura adeguata del territorio.
Commenta (0 Commenti)Ricostruzione. Il nostro obiettivo è quello di tornare alla crisi “di prima” o vogliamo provare a progettare un’altra idea di società? In verità, la prima ipotesi è solo una grande illusione, perché la storia non può ripetersi (se non come farsa, diceva qualcuno)
L’appello per ricostruire il Paese dopo l’epidemia promosso da Sbilanciamoci! riguarda essenzialmente i temi economici e prova a rilanciare il ruolo dell’intervento pubblico dopo decenni di ubriacatura neoliberista. Ciò potrà avvenire solo se le nuove politiche economiche saranno sorrette da un’adeguata cultura giuridica in grado di regolare l’intervento delle istituzioni pubbliche. È per questo che il dialogo tra economia e diritto appare un presupposto necessario per ogni azione di cambiamento. Lo dimostra la storia alle nostre spalle segnata dal divorzio tra un’economia percepita come un ordine naturale e un diritto come strumento al servizio dell’ordine politico. È via via sfumata la consapevolezza, che era propria persino dei liberisti (senza “neo”), che esiste invece un ordine giuridico dell’economia.
Dovremmo allora agire su questo fronte rilanciando l’idea che il governo dell’economia non è affatto predeterminato, ma è il frutto di precise decisioni politiche di sviluppo. Si tratta di fare, in fondo, solo un piccolo passo, null’altro che la demistificazione di un falso. Eppure, riaffermata la politicità delle scelte economiche (anche di quelle che contrassegnano lo stato di cose presenti), non si potrà più negare una serie di conseguenze. La prima è che le scelte politiche – e dunque anche quelle economiche – negli Stati costituzionali sono vincolate al rispetto di principi fondamentali ritenuti “indisponibili”. Sono questi che devono indirizzare (anche) l’economia e non viceversa. Ciò vuol dire sostituire i limiti di bilancio, insensatamente introdotti persino in costituzione, con i limiti del rispetto dei diritti fondamentali. Lo ha già scritto chiaramente la nostra Corte costituzionale («È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione»: sent. n. 275 del 2016), si tratta ora di dare seguito coerente a questa indicazione.
Il problema non è pertanto quello del rispetto delle regole più o meno rigorose della stabilità dei conti, la questione di fondo riguarda le priorità e le modalità con cui si possono ottenere gli scopi definiti in sede politica. Si potranno perseguire le più diverse strategie economiche e sociali, ma a condizione che queste rispettino i diritti indisponibili delle persone. Un vincolo che, in via di principio, dovrebbe obbligare qualunque maggioranza, poiché costituisce il fondamento del “contratto sociale” che legittima l’esercizio del potere da parte dei nostri governanti. Potrebbe non essere facile ottenere questi risultati in periodi di crisi dello sviluppo (ma chi ha mai detto che governare democraticamente le società contemporanee sia una facile impresa?), ciò non toglie che non ci si può sottrarre.
Ribaltare le priorità – dall’economia ai diritti – per assicurare il minimo di garanzie sociali necessarie per la convivenza. Un capovolgimento che può porre fine alle degenerazioni che si sono registrare tanto in campo economico quanto in quello dei diritti. Se una lezione possiamo trarre dalla terribile pandemia è che aver lasciato fare al mercato non solo ci ha trascinato in una crisi economica senza precedenti e senza vie d’uscite (non da oggi, ma dal 2008), ma ha anche prodotto un indebolimento della struttura di sostegno necessaria per garantire l’assolvimento dei principali diritti dei consociati. Il Paese dopo due mesi di lockdown è in ginocchio, e non sarà il libero mercato o l’iniziativa dei privati a risollevarlo. Tant’è che i liberisti di ieri che chiedevano continui passi indietro allo Stato, ora, con la medesima arroganza, esigono dallo Stato le risorse per “ripartire”. È giunto il tempo per una riflessione che ci porti a più equilibrate soluzioni, anche perché il ritorno del pubblico è ora da tutti preteso. E allora la decisione su come impiegare le future risorse s’impone. Non vale più la scusa della libertà individuali, né si tratta di autonoma iniziativa economica dei privati, è allo Stato che spetta decidere come distribuire le proprie risorse scarse, si impongono dunque le priorità costituzionali.
Non è neppure difficile individuare queste “priorità”. Esse si legano tutte al valore fondamentale che il nostro ordinamento costituzionale ha posto a proprio elemento costitutivo: la dignità umana. Il rispetto dell’homo dignus come termine di confronto di tutte le politiche sociali – anche in ambito economico – che legittimano l’intervento dello Stato e l’uso delle risorse che esso eroga. Si tenga presente che la nostra costituzione impone il limite della “dignità umana” anche alla libera iniziativa economica dei privati, mentre impone “alla legge” (dunque all’intervento pubblico) di indirizzare e coordinare tanto l’attività pubblica quanto quella privata “a fini sociali”. Più chiaro di così?
Non vi è nulla di eversivo in queste osservazioni, non impone neppure una svolta dirigista all’economia di questo Paese, si limita a ristabilire le condizioni di compatibilità per uno sviluppo sostenibile e costituzionalmente orientato.
Ma quali sono i diritti fondamentali che danno forma alla dignità? La risposta è – ancora una volta – scritta, senza possibilità d’equivoci, in Costituzione. Sono i “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, è con riferimento a questi diritti che si impone quel dovere “inderogabile” di solidarietà sociale, economica e politica, di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. Non si può, nell’impiego delle risorse, non dare priorità ai diritti inviolabili, necessari per il pieno sviluppo della persona.
Con riferimento alle scelte di natura sociale, economica e politica che si devono adottare in questa chiave la precedenza non può che spettare ai tre settori che rendono effettivo il principio della pari dignità sociale: salute, lavoro e cultura. Proprio quei diritti indisponibili che più sono stati sacrificati dall’arrivo della pandemia. Ospedali in tilt, attività lavorative sospese o costrette all’home working, lezioni scolastiche e universitarie a distanza. Abbiamo pagato un costo terribile ad anni di politiche di privatizzazione delle strutture sanitarie; di flessibilità e riduzione delle garanzie per il mondo del lavoro; di riduzioni dei finanziamenti, burocratizzazione e disinteresse per ogni seria attività cultuale e formativa. È da qui che dobbiamo ripartire se vogliamo assegnare dignità alla “ripresa” dopo il Covid-19.
In questa fase si dovranno porre in essere misure d’emergenza per evitare il tracollo del sistema e la sopravvivenza delle persone, nell’immediato vanno bene dunque misure tampone. Ma tutti sono consapevoli che le scelte che si effettueranno rappresenteranno anche l’inizio di un nuovo ciclo. Per questo oltre al breve periodo bisogna guardare al futuro che vogliamo. Ed è qui che si pone la domanda finale: il nostro obiettivo è quello di tornare alla crisi “di prima” o vogliamo provare a progettare un’altra idea di società? In verità, la prima ipotesi è solo una grande illusione, perché la storia non può ripetersi (se non come farsa, diceva qualcuno) e dunque un ritorno al passato sancirebbe il definitivo abbandono di ogni idea di progresso e la consegna del nostro futuro ai soli rapporti di forza, ad un’economia senza diritti nel nostro caso. Meglio allora cambiare, “progettare la ricostruzione di un paese migliore, di un’Italia in salute, giusta e sostenibile” (come recita l’appello di Sbilanciamoci!).
È inutile farsi illusioni, non basta un programma per far mutare verso alla storia. Non sono le idee che mancano e il decalogo di Sbilanciamoci rappresenta un vero manifesto di governo per il cambiamento. Il problema di fondo è che anche le migliori proposte devono trovare le gambe su cui marciare. Ed ecco allora che un’altra questione si pone: per poter garantire l’effettività dei diritti, anche di quelli “indisponibili” ai governanti, c’è bisogno di una buona politica, di una politica consapevole che le idee, nel bene e nel male, valgono più degli interessi. È sul terreno delle egemonie culturali che si gioca la vera partita. Attrezziamoci.
Commenta (0 Commenti)La Repubblica nata da un referendum 74 anni fa rischia di essere profondamente scossa da un altro referendum, tra pochi mesi. La sinistra parlamentare sta giocando a un gioco pericoloso con i 5 Stelle.
Il decreto elezioni che si discute alla camera prevede lo spostamento delle regionali (senza Covid-19 si sarebbero tenute in questi giorni) a settembre-ottobre e delle elezioni amministrative tra metà settembre e metà dicembre. L’intenzione del governo, dichiarata in un emendamento già approvato in commissione, è quella di tenerle tutte assieme a fine settembre. E sopratutto di accoppiarci il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. In modo da renderlo una formalità. Una pericolosa formalità.
Molto è cambiato da quando, l’estate scorsa, Pd e Leu firmarono il patto di governo con i 5 Stelle, accettando la riduzione dei parlamentari che avevano fino ad allora sempre avversato. Con l’ultimo voto favorevole della sinistra, la riforma che riduce di quasi il 40% sia la camera che il senato è arrivata davanti al popolo per il giudizio finale. Farà dell’Italia il paese, in Europa, con il peggior rapporto tra cittadini rappresentati ed eletti rappresentanti. Nel 1948 c’era un deputato ogni 80mila cittadini, adesso ce ne sarà uno ogni 151mila.
Il referendum avrebbe dovuto tenersi a fine marzo. Per la pandemia è stato rinviato; il governo deve fissare la nuova data entro novembre. Ma vuole anticiparlo a settembre per nasconderlo sotto il voto per le regioni e per i comuni. In questo modo l’affluenza sarebbe garantita. Non è previsto un quorum di validità per il referendum costituzionale, ma la prospettiva di incassare il sì di una percentuale minima del corpo elettorale non piaceva ai 5 Stelle. Gli unici in tutto il parlamento che possono davvero intestarsi la riduzione dei parlamentari. Il «taglio delle poltrone» apparirebbe come una loro vittoria esclusiva.
Portare gli italiani a votare sulla Costituzione a settembre, dentro la campagna elettorale per i comuni e le regioni e dunque impedendo qualsiasi discussione seria sulle opportunità e sui rischi di una riforma storica, è precisamente quello che vogliono Di Maio, Fico, Casaleggio, Grillo, Crimi e Di Battista per una volta tutti uniti. Viceversa, se ci fosse il tempo di una campagna elettorale dedicata al referendum, se i cittadini potessero avere gli elementi di conoscenza necessari, la certezza della vittoria del sì tornerebbe in discussione. Perché molto è cambiato anche dal punto di vista politico in questi tre mesi. Lo stato di eccezione provocato dal coronavirus solleva domande sul funzionamento delle istituzioni.
L’emergenza durerà: ha senso dunque indebolire ulteriormente le camere quando il ruolo del governo è già così espanso? Tornano in discussione diritti fondamentali: è saggio allora sbarrare l’accesso al parlamento a molte sensibilità politiche e istanze sociali?
La riforma rischia di passare in silenzio e per acclamazione, ma è una riforma incompleta. Niente è cambiato nei regolamenti parlamentari, il risultato è che le minoranze non avranno la forza di esercitare il minimo controllo. E poi non si vede ancora la nuova legge elettorale, in teoria la principale materia di scambio di Pd e Leu con i 5 Stelle per compensare almeno un po’ il taglio dei parlamentari. Perché la legge elettorale che abbiamo oggi addirittura esaspera gli squilibri della riforma.
Infine, è facile prevedere che la vittoria del sì spiazzerà le vecchie camere. Con le percentuali che gli assegnano i sondaggi e il regalo di un parlamento più facile da conquistare, Salvini e Meloni hanno a portata di mano la maggioranza assoluta. Con i seggi sufficienti per eleggere il presidente della Repubblica e cambiare la Costituzione. Ai 5 Stelle resterà la bandierina demagogica da sventolare. Ma alla fine di questo gioco pericoloso a vincere saranno altri.
Commenta (0 Commenti)Gli ultimi della classe. Azzolina apre uno spiraglio, ma la riunione con Conte salta. I sindacati: se la ministra non ci ascolta non è escluso lo sciopero
Sulla scuola è ancora fumata nera.ra. Il tempo stringe, fra due settimane il Decreto scuola dovrà essere convertito in legge, ma alla commissione VII di Palazzo Madama da un mese ci sono le sabbie mobili. Il problema è tutto dentro la maggioranza.
DA UN MESE FRA LA MINISTRA Lucia Azzolina, da una parte, e Pd e Leu dall’altra, è muro contro muro sul concorso straordinario per l’assunzione dei docenti precari. Azzolina lo ha bandito ed è sicura che si possa svolgere in piena estate e nonostante l’emergenza e il distanziamento fisico. Pd, Leu – e i sindacati della scuola, Cgil Cisl Uil Snals e Gilda all’unisono – giudicano la scelta velleitaria e temono che, ammesso che le prove si possano svolgere davvero, non ci sarà il tempo per avere i prof in cattedra alla ripresa. Il rischio è l’inizio dell’anno scolastico nel caos. Dopo sei mesi di scuole chiuse.
COSÌ IERI CONTE CONVOCA a Palazzo Chigi alle 20 i capidelegazione e i capigruppo della maggioranza per trovare una via di uscita. Ovvero per evitare che, superato lo scoglio della sfiducia al Guardasigilli, il governo rischi subito di inciampare su quello della scuola. Che è un pezzo importante del paese (e del consenso delle forze politiche): 8 milioni di studenti, oltre un milione di insegnanti, milioni di famiglie già in affanno per la mancata riapertura degli istituti. Una scelta, quest’ultima, che ieri le opposizioni hanno duramente contestato durante le comunicazioni del premier alle camere. «La chiusura delle scuole consente di contenere il contagio tantissimo», ha replicato. Ma il problema resta incandescente nel paese prima che nei palazzi.
MA ALLE 20 IL PREMIER è ancora occupato con i ministri – è la versione ufficiale – insomma l’incontro è rimandato. A quando ancora non si sa. Il tempo è tiranno. La commissione del senato è convocata lunedì alle 14. In settimana poi il testo deve andare in aula. Il voto di fiducia è scontato, entro il 7 giugno il decreto dovrà essere votato anche dalla camera. Ma sul testo l’accordo ancora non c’è.
PD E LEU (NON ITALIA VIVA) chiedono che, data l’emergenza, la prossima assunzione di 80mila prof (il decreto Rilancio ne ha aggiunti 16mila a quelli già previsti), avvenga per titoli, per garantire tempi brevi e consentire l’avvio del nuovo anno scolastico con i prof già in cattedra, evitando il triste viavai dei supplenti. Del resto i ‘candidati’ sono docenti che già lavorano da tempo. Secondo Pd e Leu la prova, per loro, si potrà svolgere a fine anno, magari anche più impegnativa di quella orale, già comunque prevista. I 5 stelle non ci stanno, invocano la Costituzione. Ma «lo scoglio costituzionale dell’assunzione per concorso è stato bypassato persino nella sanità, nei mesi dell’emergenza», spiega Loredana De Petris (Leu). Tanto più che l’avvio dell’anno scolastico è in alto mare e per questo domani in venti città d’Italia si svolgeranno manifestazioni del comitato «Priorità alla scuola».
MA LA MINISTRA È IRREMOVIBILE. Le molte riunioni di maggioranza non portano a nulla. Intanto il lavoro della commissione del senato resta al palo: sul decreto manca anche il parere della commissione bilancio. Gli emendamenti sono 400. Ieri il sottosegretario De Cristoforo ascolta anche quelli dell’opposizione. «Aspettiamo di sapere quali delle nostre proposte saranno accolte, il governo conosce le nostre priorità», commenta Andrea Cangini di Forza Italia. Anche le opposizioni sono contro i concorsi.
LA MINISTRA, POCO PROPENSA alla sintesi, in realtà ieri mattina alla commissione cultura di Montecitorio fa un gesto distensivo. All’apparenza. Prima dettaglia le voci a cui verrà distribuito il miliardo stanziato nel Fondo per il rientro a Scuola (fra l’altro ci sono 39 milioni per consentire l’esame di maturità in presenza in sicurezza, altra cosa che mette di malumore gli istituti). Poi sui concorsi annuncia: «Stiamo lavorando affinché le procedure si svolgano in condizioni di sicurezza per i partecipanti e per il personale coinvolto. Stiamo anche valutando possibili alternative qualora lo scenario epidemiologico dovesse cambiare improvvisamente». Ma Pd e Leu, in confronti informali, capiscono che la ministra non è disposta a concordare insieme «la clausola di emergenza» con elementi oggettivi. E non ritirano gli emendamenti. I 5 stelle fanno filtrare la loro rabbia: «Dalle altre forze di maggioranza ci aspettiamo non provocazioni ma la reale volontà di confronto e la voglia di trovare soluzioni».
A QUESTO PUNTO I SINDACATI perdono la pazienza: «La tregua è finita», avverte Francesco Sinopoli, segretario Flc Cgil, «per noi esiste un’unica possibilità reale che è il concorso per titoli». E non esclude scioperi. «Il governo è irresponsabile» per Pino Turi, Uil Scuola. Più pacata nei toni Maddalena Gissi della Cisl, ma la musica è la stessa. «Le ragioni dello sciopero sono comprensibili», rincara il capogruppo Pd al Senato Marcucci. I 5 stelle gridano di nuovo alla provocazione. «Chiediamo alla ministra di ascoltarci», spiega il dem Verducci, «l’assunzione per titoli non è una sanatoria, è una scelta di buon senso per far vincere tutto il governo, non solo una parte. ».
Commenta (0 Commenti)Lavoro. La protesta nelle campagne per una regolarizzazione che non escluda nessuno e per maggiori diritti
L’Unione sindacale di base (Usb) ha indetto per oggi una giornata di sciopero dei braccianti. «Facciamo comodo quando c’è da raccogliere pomodori e zucchine per la Grande distribuzione organizzata destinate alle tavole (non soltanto italiane), ma diamo decisamente fastidio quando chiediamo diritti», scrive Usb.
La mobilitazione nasce dal malcontento che circola tra migliaia di migranti che saranno esclusi dal provvedimento di regolarizzazione deciso dal governo ed è l’ennesimo momento di protesta all’interno della dura e lunga battaglia per i diritti e la dignità dei lavoratori agricoli nelle campagne italiane.
Davanti alle prefetture di diverse città saranno consegnate cassette di frutta e verdura. Il momento più importante della giornata sarà il corteo che partirà da Torretta Antonacci (l’ex gran ghetto di Rignano) e raggiungerà la prefettura di Foggia. Usb fa appello ai consumatori per una giornata di sciopero degli acquisti di frutta e verdura a sostegno della mobilitazione dei braccianti.
Almeno 220 mila domande di regolarizzazione e 94 milioni di euro in più di incasso per lo Stato, frutto dei contributi che verranno versati per l’emersione dei migranti oggi impiegati in nero in settori come l’agricoltura e il lavoro domestico.
Sono alcuni dei dati relativi alla regolarizzazione contenuti nella relazione tecnica del decreto Rilancio. Ma il numero di quanti potranno accedere alla sanatoria, seppure limitatamente ai settori indicati dal provvedimento, potrebbe aumentare. Il testo del decreto, da ieri in Gazzetta ufficiale, presenta infatti alcune novità rispetto a quello approvato il 13 maggio scorso. In alternativa a uno dei due requisiti richiesti al comma 1 per poter accedere alla regolarizzazione (essere stati sottoposti a rilevi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020 e aver soggiornato in Italia prima della stessa data) se ne è aggiunto un terzo che prevede il possesso da parte dello straniero di una documentazione proveniente da organismi pubblici che dimostri l’ingresso nel nostro paese sempre prima del 20 marzo scorso: dal visto sul passaporto a un certificato rilasciato dal pronto soccorso di un ospedale, all’iscrizione a una scuola o all’università.
Altra novità riguarda poi il contributo forfettario previsto per poter accedere alla regolarizzazione, che diventa più caro per i datori di lavoro (da 400 a 500 euro per ogni lavoratore che si vuole mettere in regola) e un po’ più economico per i lavoratori (da 160 a 130 euro). Come si vede si tratta di piccole novità, sufficienti però in teoria ad allargare la platea di quanti potrebbero essere interessati a regolarizzare la propria posizione.
Del resto era stata la stessa Inps, in un documento inviato nelle scorse settimane alla commissione Lavoro del Senato in occasione di un’audizione relativa all’emergenza Covid, a giudicare troppo «restrittivi» i criteri poi inseriti nel decreto. Questo, sottolineava l’Istituto, «induce a pensare che diversi irregolari presenti sul territorio non siano in grado di presentare domanda».
Senza fondamento, invece, la possibilità che la sanatoria porterebbe un aumento dei flussi irregolari, e questo proprio perché limitata ad alcuni settori. La smentita arriva dalla Fondazione Ismu di Milano che calcola in 562 mila i migranti irregolari presenti in Italia. «Oggi come in passato – spiega la Fondazione – per lo più gli immigrati irregolarmente soggiornanti hanno già un lavoro e quindi per ottenere un permesso faranno riferimento al rapporto di lavoro in corso e non a un possibile nuovo impiego come stagionali in agricoltura». Quello appena varato è quindi un provvedimento che va bene per braccianti, colf e badanti, ma che esclude settori importanti come l’edilizia dove è impiegato un gran numero di lavoratori stranieri.
Commenta (0 Commenti)Michele De Palma, segretario nazionale della Fiom con delega sull’automotive, Fca ha chiesto un prestito da 6,3 miliardi allo stato italiano. In serata l’azienda vi ha informato. Soddisfatti?
Solo una breve conference call con poche informazioni. Invece tutto dovrebbe essere trasparente, anche la risposta del governo. Il decreto Liquidità è di oltre un mese fa (è uscito in Gazzetta Ufficiale l’8 aprile, ndr), la richiesta sia stata fatta da tempo. Noi chiediamo al governo di stabilire delle condizionalità stringenti per Fca: un piano industriale e occupazionale di lungo periodo. Sappiamo che il finanziamento prevede condizioni per un solo anno ma noi sappiamo che a novembre ci sarà la fusione con Psa – confermataci dall’azienda – e il rischio, con i problemi di mercato già esistenti acuiti dal Covid che ha già compromesso l’intero 2020, è che a pagare siano i lavoratori italiani, già provati da anni di cassa integrazione.
La notizia ha fatto però molto scalpore, anche i giornali di destra si sono scatenati nelle critiche a Fca.
La canea dei giornali di destra è indecente: se ne accorgono adesso che Fca è diventata non paga le tasse in Italia? Quando noi denunciammo che Fca se ne andava in Olanda passammo per reprobi. Ci vorrebbe un po’ di memoria di coerenza.
Ieri il vicesegretario del Pd Andrea Orlando chiede che in cambio del prestito Fca riporti la sede in Italia. E’ anche la vostra posizione?
Dove sia la sede fiscale è un tema del governo. A noi interessa condizionare il prestito al futuro degli stabilimenti italiani. Il governo ci convochi e chieda all’azienda un piano di lungo respiro. Certo, in questa situazione anche in vista della fusione con Psa che è in parte statale sarebbe giusto porre il tema del cambiamento della governance sul modello tedesco: capitale privato, capitale pubblico e sindacato come attore delle scelte strategiche.
Lei crede davvero possibile che Fca diventi un modello di co-gestione con intervento pubblico nel capitale?
Io dico che in Italia ragioniamo sempre per pezzettini e emergenze – Decreto Liquidità, decreto Crescita, ammortizzatori sociali – e mai in modo sistemico e guardando al futuro. Noi ci siamo stancati di essere convocati solo per gestire crisi aziendali e ammortizzatori: vogliamo discutere di innovazione, di nuovi prodotti, di micromobilità nelle città, di tecnologie sostenibili. Il mercato della mobilità va in questa direzione in tutto il mondo: non basta la 500 elettrica a Mirafiori (unico stabilimento con la Sevel di Atessa in cui si sta lavorando), serve l’ibrido, serve ragionare di nuovi prodotti. Questo finanziamento può essere l’occasione perché il governo faccia pressione su Fca per farlo.
Nel frattempo però a dieci anni dalla rottura di Pomigliano voi con Fca avete firmato accordi e ora l’azienda vi ha riconosciuto ore per le assemblee sindacali anche se non siete firmatari del contratto. Siete cambiati più voi o è cambiata più Fca con l’addio di Marchionne?
Non sono cambiati loro e non siamo cambiati noi. E’ cambiata la situazione in cui siamo entrambi. Nell’emergenza Covid siamo stati i primi a chiedere di fermare la produzione e poi come metalmeccanici siamo stati i primi firmare un accordo con una multinazionale stabilendo le condizioni di sicurezza per riaprire. Sono stati questi accordi che hanno portato al reciproco riconoscimento. Le linee guida sulla riapertura prevedono che la gestione della sicurezza sia demandata ai delegati di fabbrica: l’azienda coerentemente ci ha riconosciuto le ore di assemblea per poterlo fare. L’accordo scade a luglio, contiamo di rinnovarlo.
Per il rientro totale in Fca manca solo la firma del contratto aziendale…
Il primo contratto che la Fiom vuole firmare è quello nazionale con Federmeccanica.
Pensa che con Grolier, il responsabile Emea che ha firmato gli accordi con voi, Fca possa tornare in Federmeccanica?
La domanda va posta all’azienda. Di certo le dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria Bonomi contro l’importanza dei contratti nazionali non favoriscono Federmeccanica. Soprattutto in un momento di emergenza i contratti nazionali sono fondamentali per uscire dalla crisi.