2016. In un mondo mai così diviso dalla profondità delle diseguaglianze, se il populismo promette l’impossibile ritorno al passato dei muri, la sinistra deve indicare una prospettiva di libertà e fratellanza che sia certo alternativa ma soprattutto credibile
Se dovessimo leggere il 2016 soltanto sotto l’aspetto politico e istituzionale, potremmo concludere che l’anno che si chiude non è stato tra i peggiori. Gli italiani hanno difeso in massa la Costituzione e l’uomo solo al comando, alla guida di un governo arrogante, ha lasciato palazzo Chigi dove ora siede Paolo Gentiloni, strano clone del renzismo.
Se invece alziamo lo sguardo oltreconfine, la violenza terroristica, la tragedia della guerra – l’immagine di Aleppo è emblematica di questo anno – come anche l’avanzata populista in Europa e soprattutto negli Stati uniti, il bilancio diventa sicuramente più complesso e preoccupante.
Come accade quasi sempre, c’è un doppio filo che lega alcuni di questi avvenimenti:
Leggi tutto: Chi ha paura del populismo - di Norma Rangeri su il manifesto
Commenta (0 Commenti)Jobs Act. Ichino e Anpal sostengono l’incostituzionalità della norma sui licenziamenti. Corso Italia smentisce. E sui «buoni lavoro» gli interventi rischiano di essere inefficaci.
Sono due i modi usati dalla politica per neutralizzare i tre quesiti referendari proposti dalla Cgil sulla cui ammissibilità si pronuncerà la Consulta l’11 gennaio. Il primo riguarda il quesito che intende abrogare la norma sui licenziamenti illegittimi e intende fare pressione sulla consulta alludendo a una sua presunta “incostituzionalità”. Il secondo riguarda il quesito che vuole «abrogare i voucher usati in maniera flessibile e illegittima» attraverso un intervento parlamentare o del governo alla luce di diverse opzioni, non ancora chiarite. Ad oggi il terzo quesito sull’abrogazione delle norme che limitano la responsabilità sociale sugli appalti resta fuori dalle polemiche.
Partiamo dal ripristino dell’articolo 18 che preoccupa i promotori del Jobs Act schierati a difesa della riforma renziana per eccellenza (insieme alla “Buona Scuola”). La Cgil ha raccolto più di un milione di firme (a cui vanno aggiunti altri due per abrogare i voucher e sugli appalti, per un totale di tre milioni) per chiedere il referendum per il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, estendendolo anche per le aziende sotto i 15 dipendenti, fino a 5 dipendenti.
In un’intervista programmatica rilasciata il 15 dicembre scorso a Repubblica il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino ha dettato la linea: «Il quesito è inammissibile – ha detto – perché il quesito non è unitario, non ha per oggetto l’abrogazione di una norma, ma la creazione di una norma nuova, che non è mai esistita». Su questa linea si è schierato il bocconiano Maurizio dal Conte, nominato da Renzi alla presidenza dell’agenzia delle politiche attive (Anpal) che ha aggiunto una tesi fantasiosa secondo la quale l’abrogazione del Jobs Act su questo punto porterebbe a un boom di licenziamenti e della precarietà: «Molte aziende ridurrebbero il loro organico per scendere sotto il nuovo tetto», ha detto ieri al Corriere della Sera.
I dati Inps raccontano un’altra realtà: da gennaio a ottobre i licenziamenti «disciplinari» per giusta causa e giustificato motivo sono aumentati del 28% a causa del Jobs Act, mentre continuano ad aumentare i contratti a termine riformati dal governo Renzi. Il 75% delle nuove assunzioni è precaria, ha calcolato la Fondazione Di Vittorio (Cgil) sulla base dei dati Inps. A queste tesi ha risposto puntualmente la Cgil con un post pubblicato su Facebook: la costituzionalità dei tre quesiti è «manifesta» sostiene il sindacato di Corso Italia. Nessuno riguarda leggi a «contenuto costituzionalmente vincolato». Se abrogate le parti delle norme contestate, non sarebbe pregiudicata la Costituzione. I licenziamenti illegittimi, la responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto e i voucher dipendono dalle decisioni dei governi ed è su questo che gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi in una consultazione in cui è previsto il quorum.
I giuristi che hanno accompagnato la Cgil nella definizione dei quesiti sottolineano che il Jobs Act non è conforme alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che ha lo stesso valore dei Trattati. La legislazione in vigore dopo Renzi non prende sanzioni contro il licenziamento ingiustificato, mentre la Carta europea riconosce tale diritto a ogni lavoratore. Sui voucher la partita è chiara: si cerca di neutralizzare il quesito abrogativo evocando un intervento legislativo che il ministro del lavoro Poletti non ha escluso, anche se attende l’esito del monitoraggio Inps dopo l’introduzione della tracciabilità dei “buoni lavoro”. Attesa inutile, dato che nel 2016 i voucher supereranno ogni record. Nei primi dieci mesi dell’anno sono stati venduti 121 milioni di voucher.
Due sono le alternative proposte in queste ore. Si parla di tornare alla legge Biagi del 2003 che ha istituito questa peculiare forma di lavoro occasionale, limitandola alle prestazioni realmente occasionali e non all’intero mercato del lavoro come deciso dai governi Motti e Letta, entrambi sostenuti dal Pd. Si sostiene, inoltre, la possibilità di abbassare il limite massimo di incasso per singolo lavoratore: da 7 a 5 mila euro, o addirittura a 2 mila. Intervento inutile perché, come dimostrato dai dati Inps, la stragrande maggioranza dei voucheristi (1 milione e 380 mila nel 2015) non ha superato i 633 euro annui.
Non è escluso aumentare comunque, nel privato e nel pubblico, a cominciare dagli enti locali. Contro il quesito della Cgil si sostiene che la vittoria del Sì all’abrogazione porterebbe a un aumento del lavoro “nero”. Su questo punto la formulazione del quesito potrebbe risultare incerta, ma è inequivocabile l’intenzione di riportare il voucher al suo uso originario. In generale si trascura un elemento materiale decisivo emerso in una ricerca Inps sul «lavoro accessorio dal 2008 al 2015»: il voucher non fa emergere il lavoro nero, ma lo aumenta insieme al lavoro precario già esistente.
Si prospettano settimane di disinformazione in cui la politica sfuggirà al principale problema: non basta il maquillage della riforma renziana, è necessaria l’abolizione integrale di un provvedimento che ha regalato tra gli 11 e i 18 miliardi di euro alle imprese con risultati a dir poco discutibili sull’occupazione. Questo è il contenuto politico del referendum Cgil che si cerca di occultare.
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Si è svolta questa domenica 18 dicembre a Bologna l'assemblea nazionale "Costruire l'alternativa", a cui sono intervenuti numerosi esponenti della #sinistra sociale e politica italiana. Un incontro molto partecipato, in particolare da giovani, iniziato al mattino con diversi laboratori tematici: sui saperi, sul #Lavoro, sulle città e sulle migrazioni. Nel pomeriggio si è svolta poi l'assemblea plenaria con numerosi interventi, sia di attivisti sociali che di esponenti politici nazionali. Nel dibattito sono stati lanciati molti messaggi per la creazione di uno spazio alternativo, da sinistra, rispetto ai poli attualmente in campo nella politica italiana.
Fra i promotori dell'evento Federico Martelloni, consigliere comunale bolognese di Coalizione Civica. Ma hanno partecipato anche molti amministratori locali come Luigi Felaco di Napoli, Federico Alagna di Messina, Francesco Rubini di Ancona e membri di varie liste civiche di cittadinanza. Claudio Riccio, attivista della rete ACT, ha detto che "la crisi della democrazia è a un livello tale che nessuno può pensare a darsi come obiettivo quello di fare una lista per eleggere qualche deputato. Questo non ci basta perché la portata della sfida è molto più alta: dobbiamo cambiare tutto" e poi ha invocato la necessità di creare una sinistra "che sia differente, inusuale e in grado di sorprendere". Il deputato di Sinistra Italiana Stefano Fassina ha dichiarato:"Dobbiamo dare una risposta al popolo delle periferie che ha votato No. Va data loro rappresentanza politica e dobbiamo ammettere che come Sinistra Italiana siamo inadeguati a farlo.Serve un'autonomia progettuale e programmatica per dare rappresentanza a questa area così vasta di chi soffre e fa fatica a fidarsi di tanti di noi.La Costituzione italiana che abbiamo difeso ha dei principi che sono alternativi all'impianto dell'Unione Europea e dell'unione monetaria che ne scaturisce". L'eurodeputata dell'Altra Europa con Tsipras Eleonora Forenza ha detto: "Per costruire davvero l'alternativa serve un'agenda europea dei conflitti e dei movimenti. Noi non dobbiamo avere niente a che fare con i membri del Partito Socialista Europeo che hanno votato negli ultimi anni tutte le misure di austerità e con quelli che in Italia hanno imposto il pareggio di bilancio in Costituzione.Per dare continuità alla vittoria del referendum occorre mobilitarci già da gennaio sui temi del lavoro.Siamo sicuri che serve discutere in due congressi diversi o sarebbe meglio trovare uno spazio comune?". Non presente in sala, è comunque intervenuto in diretta da Napoli il sindaco Luigi De Magistris, che ha detto:"Nessun soggetto politico può intestarsi la vittoria del No, che è una vittoria popolare. E soprattutto nel sud c'è stata una grande risposta. I gruppi che fanno politica dal basso devono ora unirsi per creare un'alternativa politica, sociale ed economica. Viceversa non credo nel centrosinistra e non mi convince l'ipotesi di Pisapia". Nicola Fratoianni ha detto: "A chi dice che ci chiudiamo in una riserva identitaria, dico che la radicalità è necessaria per essere credibili in questo contesto di sofferenza sociale. Invece di parlare di alleanze, discutiamo di quale proposta mettere in campo. Non parliamo di contenitori, ma di contenuti. Ad esempio creiamo subito i comitati per il Sì ai referendum per il lavoro. Serve un'agenda politica e sociale per favorire una confluenza e dargli uno sbocco politico". Luca Casarini, ha parlato invece di "crisi di rappresentanza", aggiungendo che "oggi un partito è utile per rompere e costruire nuove istituzioni esterne a quelle classiche, che sono invece sempre più lontane dalle persone comuni. Le elezioni siano solo uno strumento".
Quando mi fermo a guardare il presepe, al di là di ogni significato religioso, vedo un bambino che nasce povero tra poveri, in pace con la natura.
Eppure tutto attorno il mondo turbina al contrario. A Natale impera lo spreco sbandierato e sfacciato, l’inquinamento euforico. Tante città incentivano a fare shopping in auto, limitando le zone pedonali, rendendo gratuiti i parcheggi. Traffico selvaggio, centri urbani e centri commerciali assediati dalle auto, luminarie sempre accese, abeti secolari sradicati dalla terra per morire addobbati nelle piazze. Corsie dei centri commerciali ammiccanti di luci, strabordanti di oggetti (per lo più inutili). So this is Christmas… and happy new year!
Alla faccia di un bimbo che nacque povero tra poveri, in pace con la natura.
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Commenta (0 Commenti)Non basterà il sapone di Aleppo – ormai introvabile per effetto della guerra – a lavare le responsabilità dell’Occidente e le post-verità, raccontate negli ultimi cinque anni sulla Siria.
Del resto è già capitato per le guerre nell’ex Jugoslavia: sotto una foto che dimostrava come i crimini fossero commessi da tutte la parti, si preferiva una didascalia menzognera. Così sotto una fotografia, in bella mostra su un settimanale di grido, che mostrava un miliziano musulmano con tanto di berretto afghano e in mano il trofeo di tre teste tagliate di nemici, veniva scritta la didascalia: «Atrocità delle milizie serbe»; era in realtà un mujaheddin già allora cortocircuitato con altre migliaia in Bosnia dall’Afghanistan grazie a Usa, Iran e Arabia saudita. E le teste tagliate appartenevano, come emerse, a tre miliziani serbi.
Adesso accade la stessa cosa.
Perché il fermo-immagine era quello di armeni, kurdi e cristiani in festa in tutta Aleppo, con migliaia di rifugiati in cammino per raggiungere l’ovest della città. Certo prima dell’attuale stallo, con gli ultimi civili bloccati nell’evacuazione perché deve avvenire insieme ai combattenti jihadisti, mentre riprendono i micidiali raid aerei governativi e russi e i lanci di razzi dei «ribelli» che hanno provocato sei vittime nel quartiere Bustan al Qasr da poco riconquistato dai governativi.
Ora la foto vera dello stallo siriano sono gli autobus, con le insegne governative, che avrebbero dovuto portare a termine l’ultima evacuazione, fermi e vuoti ad Al Ramusa, con colonne di civili che si sono avvicinate per poi allontanarsi di nuovo.
Di fronte alla tragedia di Aleppo, sfigurata per sempre nell’orizzonte delle sue rovine, i media occidentali sembrano divertirsi a gridare alla «strage di civili», quasi augurandosela.
Ma di stragi di civili ce ne sono state a centinaia e nell’indifferenza generale, se è vero che i morti di Aleppo sono più di 100mila e più di 200mila nel Paese ormai dilaniato, con 1 milione di feriti e con circa 7 milioni tra profughi e rifugiati interni. Questa è la strage che più o meno dovrebbe stare sotto i nostri occhi tutt’altro che innocenti.
Perché i Paesi europei, gli Stati uniti con la Turchia e le petromonarchie del Golfo (Arabia saudita in testa) hanno tentato con coalizioni internazionali come gli «Amici della Siria» e con un intervento militare indiretto – fatto di forniture di armi, finanziamenti e addestramento militare fin nelle basi della Nato nella confinante Turchia – di destabilizzare la Siria esattamente come avevano fatto già con successo in Libia con Gheddafi.
Certo sulla scia della repressione di Assad contro una rivolta interna che era scoppiata, ma che più che movimento di «primavera» fu quasi subito armata e con un ruolo centrale dello jihadismo islamista (dai salafiti, ad Al Nusra-Al Qaeda, a formazioni legate all’Isis) e invece con una presenza subito marginale dell’«opposizione democratica», anch’essa armata. Un’area politica, quella jihadista, dilagata dai santuari libici in tutta la regione fino a costituirsi in «Stato islamico» in metà della Siria e in due terzi dell’Iraq, qui grazie ai disastri provocati di ben tre guerre americane.
Questa tragedia strategica dell’Occidente, segnatamente sia delle destre che delle sinistre al governo, è un’ombra che sarà difficile rimuovere.
Nonostante – ha recentemente notato anche Paolo Mieli sul Corriere della Sera – il dispendio di manicheismo politico-giornalistico. Per il quale ci sarebbero i bombardamenti aerei dei «buoni», quelli Usa che su Mosul sgancerebbero caramelle – e invece anche lì è strage di civili – e dall’altra i raid aerei dei «cattivi» del nemico finalmente ritrovato, la Russia di Putin. Che, è bene ricordarlo, torna sullo scenario siriano una prima volta nel 2013 quando impedisce l’attacco Usa per un presunto raid governativo al gas nervino – che inchieste indipendenti e il New Yorker dimostreranno inventato – insieme alla preghiera di papa Francesco. Che in questi giorni ha inviato una lettera che auspicava la fine della guerra «contro ogni violenza» proprio ad Assad in qualche modo criticando i suoi metodi ma anche accreditandolo come interlocutore; poi Putin ritorna a fine 2015 quasi chiamato da Obama che lo incontra nel «vertice del caminetto» alla Casa bianca, di fronte al fallimento della strategia militare occidentale e all’esplodere del bubbone Turchia, con le rivelazioni sui rapporti diretti, in armi e traffici petroliferi, tra il Sultano atlantico Erdogan e lo Stato islamico.
Ora Aleppo est è liberata dalle milizie jihadiste e dei pochi combattenti dell’opposizione democratica che però per esistere si sono ormai coordinati con salafiti e qaedisti, dopo l’ennesimo insuccesso degli Stati uniti – per ammissione della stessa Cia – che hanno provato ad organizzarli.
Ma la guerra non è finita, anzi. Con la Turchia impegnata a massacrare i kurdi e a demolire le autonomie del Rojava ai suoi confini, e con l’Isis che resta forte a Idlib e Raqqa. Dove affluiscono tutti i jihadisti scampati da Aleppo e quelli in fuga dall’Iraq.
La nuova battaglia infatti che si apre, e che punta a decretare la pericolosa spartizione della Siria, è quella delle «vie d’uscita» jihadiste.
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili, in fuga in milioni e in centinaia di migliaia arrivati nel cuore dell’Europa e sostanzialmente da noi respinti. Con i civili, anche adesso che servono a far durare la battaglia di Aleppo.
Ma è naturalmente politicamente scorretto dire per Aleppo quello che è narrazione corrente per Mosul: e cioè che sono sequestrati come scudi umani. Se escono loro devono uscire anche i miliziani jihadisti.
Questa è la trattativa sul campo, quello che l’inviato dell’Onu Staffan De Mistura chiede da due mesi appellandosi alle milizie anti-Assad perché abbandonino le posizioni evacuando sotto supervisione Onu.
Della foto di questo stallo la didascalia che suggeriamo è: «Ecco il fallimento della guerra umanitaria dell’Occidente che ha avvantaggiato Putin richiamandolo a ruolo egemone nell’area, permettendo alla nuova destra nazionalpopulista americana di ergersi addirittura a garante della pace».
La rappresentante Usa all’Onu Samantha Power ha accusato Russia-Iran e Cina di «sponsorizzare la barbarie», invitandoli a «vergognarsi».
Ma non dovrebbero vergognarsi per primi proprio gli Stati uniti e i governi europei impegnati nella scellerata «amicizia» con la Siria?
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L'assenza, o la rimozione. L'avrei titolata così l'intervista a Giuliano Pisapia di oggi a Repubblica. La rimozione di un qualunque tipo di analisi della società, di cosa sia accaduto in tutti questi anni e di cosa abbiano prodotto le politiche del governo Renzi. Ovvero, un attacco al cuore, già debole e malandato, dei diritti collettivi e sociali.
Esiste una sinistra che muove la sua iniziativa senza un giudizio netto sul Jobs Act? Che non vede i 110 milioni di voucher che nel 2016 (per stare ai dati di novembre) legalizzano e rendono ordinaria una moderna forma di schiavitù nel mercato del lavoro? Che sembra rimuovere il danno che la cosiddetta Buona Scuola produce, non solo nella vita di migliaia di insegnanti e studenti, ma nella stessa natura della scuola come luogo di formazione collettiva e di cooperazione?
Ma soprattutto, a tre giorni dal voto si può discutere della sinistra e della sua utilità senza guardare al cuore del voto referendario? Quel No è innanzitutto un voto connotato socialmente. Un voto che in altri tempi avremmo chiamato di classe. È il voto di chi si ribella alla propria condizione sempre più marginale, precaria, povera. È un voto di sinistra? Certamente non solo.
Ma il punto è che lo sbocco politico di quel voto non è scontato! In quel voto esistono pulsioni e perfino aspirazioni differenti. Ma il carico sociale e democratico è il punto determinante. Sì, anche democratico perché la riappropriazione di uno strumento di democrazia diretta per respingere al mittente un pessimo disegno di riforma e per manifestare tutto il proprio dissenso verso un impianto di politiche incapace di dare risposte agli effetti più duri della crisi è un'altra delle questioni a cui dovremmo guardare.
È su questo dunque che si misura la distanza fra quello che penso e quello che propone Pisapia. Due idee della politica e della Sinistra molto differenti. Cosa rischia di diventare infatti la sinistra di Pisapia, senza un giudizio compiuto sul Paese reale? Lo dico senza nessuna voglia di emettere sentenze e provando a prendere sul serio il suo ragionamento.
Rischia di diventare la sinistra degli schemi astratti, definendo in anticipo e senza nessuna prova empirica un "campo progressista", che al di là dell'etichetta e del nome, non ha elementi di progresso da proporre ai milioni che hanno detto No. La Sinistra non può avere come unica ambizione quella di sostituire Alfano e Verdini. La Sinistra non può essere quella del riflesso condizionato rispetto al dibattito fra le correnti del Pd.
Se per davvero dobbiamo essere costretti a misurare noi stessi e a definirci sulla base di quello che accade all'interno del dibattito del Partito Democratico, in un'eterna attesa che qualcosa comunque prima o poi succeda, allora lo dico senza acrimonia e con molto realismo, sarebbe meglio iscriversi al Pd e fare lì dentro la propria battaglia politica. Sarebbe più leggibile e comprensibile.
Resto convinto, ancora di più in questi giorni, che sia necessario qualcosa di completamente diverso. E che deve interessarci più di ogni schema e di ogni riproposizione astratta di ciò che è stato: il campo sociale che il No ha disegnato. Come ho già detto non mi sogno nemmeno di considerarlo come uno spazio della sinistra. Ma quello che so con certezza è che una sinistra che si ponga il tema dell'utilità deve lavorare perché non sia consegnato alla destra.
Ora più che mai, mentre l'attenzione rischia di essere tutta concentrata sulla crisi politica del paese, mentre il dibattito si concentra sulla natura del prossimo governo e sulla legge elettorale, una Sinistra che voglia almeno ambire a ricostruire la sua utilità deve spostare lo sguardo. Per esempio al disastroso dato sulla povertà che ieri l'Istat ci ha consegnato.
Cancellare il Jobs Act e l'odioso strumento del voucher. Cancellare lo sblocca Italia che questa riforma avrebbe voluto costituzionalizzare e la sua idea di sottrarre il territorio e il suo sviluppo al punto di vista di chi lo abita, la Buona Scuola. Per bonificare un terreno inquinato da decenni di politiche sbagliate servirà tempo e serviranno altri rapporti di forza. Per alcune di queste pessime leggi c'è uno strumento, quello dei referendum sociali promossi dalla Cgil che è già disponibile e che va messo in sicurezza in questo passaggio.
Mi rivolgo su questo con assoluto rispetto e piena fiducia nella sua saggezza al Presidente Mattarella. La crisi del paese è prima ancora che politica, sociale e democratica. Qualunque Governo esca da questo passaggio deve mettere tra i suoi primi atti l'indizione di quei referendum. Infine viene il nodo di fondo.
Esiste una Sinistra che non ponga radicalmente in discussione un modello economico e di sviluppo che si rivela ogni giorno più incompatibile con la dignità umana, con la tutela dell'ambiente, col rispetto dei diritti individuali e collettivi? In Europa e nel mondo la Sinistra che torna a disegnare una speranza di cambiamento e riconquista credibilità lo fa, mettendo radicalmente in discussione questo punto.
Da Sanders a Corbyn fino a Pablo Iglesias. Linguaggi e storie diverse che si incontrano su questo punto decisivo. Per questo lo dico ancora una volta. Non so cosa siano i campi progressisti, larghi o stretti. Sono un po' stufo di una discussione che chiama alla responsabilità contro il pericolo populista senza accorgersi che la questione è un po' più complessa e che forse anche a sinistra più di qualcuno ha confuso il populismo col popolo. roviamo dunque a lavorare sull'unico campo che può ridare senso all'ambizione di una sinistra utile al cambiamento. Oggi quel campo è definito in buona parte (anche se non solo) dal carattere sociale del No di domenica scorsa. Facciamolo insieme con tutti quelli e tutte quelle che non si rassegnano all'idea che la sinistra diventi l'arredo di una scena disegnata da altri.
Senza rimuovere le differenze che pure esistono tra noi su molte questioni. Ma almeno con una idea condivisa: o la Sinistra che vogliamo torna a pensare la trasformazione oppure semplicemente non è.