Stato innovatore. Oltre al necessario impeto verso la neutralità della rete e la sua autonomia rispetto al vecchio monopolista, l’occupazione stia in testa alle priorità. La banda ultralarga scambiata con la vita di lavoratrici e lavoratori sarebbe una sconfitta
E così Habemus retem. Sembra, ormai, ai titoli di coda l’annosa vicenda della rete di telecomunicazioni italiana. Sembrava che il negoziato tra l’ex monopolista Tim e Open Fiber (la combinazione tra Enel e Cassa depositi e prestiti) fosse parzialmente arenato. Tuttavia, lo stato di necessità ha preso il sopravvento, giustamente. Non si poteva continuare a rimanere terz’ultimi in Europa quanto a irradiazione della banda larga e ultralarga. Ora che – con le varie stagioni della pandemia – il diritto alla connessione è stato finalmente riconosciuto come un bene comune e primario, evitare lo spezzatino a pois di questi anni diventa un imperativo categorico.
I fatti. Nel prossimo consiglio di amministrazione Tim varerà la scelta decisiva. Vale a dire, la destinazione dell’apposita società (ora 58% Tim, 4,5% Fastweb, 37,5% il fondo statunitense Kkr, ma in arrivo Tiscali e soprattutto Cassa depositi e prestiti) ad occuparsi del collegamento tra i cosiddetti armadi di strada e le abitazioni. Con la fibra e via via con tecnologie plurali, tra cui spicca il tanto evocato 5G (sarà sicuro per la salute?), in modo da recuperare i ritardi con quello che si chiama il “doppio salto”: dall’arretratezza ai piani più alti. Va ricordato che uno dei motivi della maggiore duttilità di Open Fiber sta, probabilmente, nello scarso successo ottenuto nelle zone deboli del paese, per la cui copertura aveva pure vinto diversi bandi pubblici.
Se la combinazione societaria assegnerà una formale (risicata, ma la simbologia conta) maggioranza al gruppo diretto da Luigi Gubitosi e se il ruolo pubblico verrà assolto dalla Cassa depositi e prestiti (che ormai ricorda i fasti dell’Iri) la partita a scacchi si conclude. Rimane un dubbio: i francesi di Vivendi tacciono. E Berlusconi, che sogna da anni di attraccare là dentro? E l’Europa?
Malgrado le evocazioni retoriche del mercato, per siglare l’intesa si è tenuta una riunione tra il governo e la maggioranza in grande stile. “Quelli che…”, avrebbe compendiato Enzo Jannacci. Già, perché solo ora si appalesa una soluzione bocciata, per motivi ottusi figli del peggior liberismo, diverse volte?
Nel frattempo, la privatizzazione di Telecom ha fatto danni enormi e una struttura che fu avanguardia nel villaggio globale è stata spolpata. Il governo presieduto da Matteo Renzi pensò bene di cambiare cavallo, optando per Enel. Altra stagione di rinvii e perdita di tempo. Quest’ultimo è una variante cruciale in un sistema nel quale le tecniche corrono alla velocità dell’intelligenza artificiale.
Bene, allora, che sia l’occasione per una vera politica dell’innovazione, sorretta da un’idea forte e non passatista di “Stato innovatore”. Non solo. Forse qualcuno si è ricordato di ascoltare le organizzazioni sindacali, giustamente inquiete. In tutto il parlare di rete e di governance, si è perso di vista il punto di vista del lavoro. Stiamo parlando di circa 100.000 persone, tra gli interni e l’indotto. Oltre al necessario impeto verso la neutralità della rete e la sua autonomia rispetto al vecchio monopolista, l’occupazione stia in testa alle priorità. La banda ultralarga scambiata con la vita di lavoratrici e lavoratori sarebbe una sconfitta.
Non il fiore all’occhiello che oggi si vuole agitare. Se la prospettiva è, invece, un serio sviluppo, allora si comincia a ragionare. Se, poi, la rete diviene l’alternativa alle attuali piattaforme degli Over The Top, c’è da brindare. Comunque, un pezzetto di socialismo, in una rete sola.