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Intervista. Due anni dopo il crollo del ponte Morandi, torniamo a parlarne con lo scrittore «genovese per scelta». «Saliamoci su, ma per andare dove? Ce l’ho col Pd, con un sistema di persone che non ha interesse a governare ma è solo assorbito dalla folle e miserabile gestione del potere. O anche solo dell’illusione del potere»

 

Lo avevamo sentito due anni fa, Maurizio Maggiani, quando ancora aveva negli occhi le immagini terribili del ponte Morandi che crollava.

Lo scrittore pluripremiato e giornalista, che cittadino di Genova lo è per scelta, e non banalmente solo per nascita, non si è mai allontanato da quel vuoto che ora, nel secondo anniversario della tragedia, è tornato pieno. Di cemento e di acciaio, di vita e di movimento, ma è un pieno solo parziale.

Due anni fa ci diceva: «Genova è morta». Ora sono già tornate le code sul nuovo viadotto, dunque è viva?

Beh sa, anche gli zombie si muovono. Però no, certo che non è morta. Ora c’è il ponte, non c’è più questo iato, questa tragedia di frattura… Ma adesso che ci siamo, su questo ponte così bello, dove andiamo?

Parla come se la tragedia fosse ancora in atto: due anni non sono bastati per elaborare il lutto?

Ovviamente no. Dico una cosa un po’ retorica: la morte non si riscatta con niente se non con la vita. Certo, il ponte è questo: è nuova vita, direi addirittura giovinezza, se questa parola non me l’avessero rubata. A me, che sono un anarco-mazziniano, questo ponte così aggraziato, così svelto e senza le goffaggini degli adulti che la sanno lunga (il vostro Revelli parla addirittura di «architettura poetica») mi fa pensare proprio alla Giovine Italia.

Ha seguito la costruzione del San Giorgio?

Sì, e ogni tanto mi arrivavano immagini dei lavori. Quella più bella, gioiosa e vitale che ho ricevuto non riguarda l’ultimo strallo montato a conclusione dell’opera, ma è un grande cassone di camion colmo di acqua, trasformato in piscina, con dentro una dozzina di operai che facevano il bagno, sotto il ponte, per rinfrescarsi un po’. Perché il ponte non è una semplice costruzione, è un’edificazione. Non un mattone sopra l’altro ma un’idea. E in effetti questo ponte, col suo cantiere dove sono passati quattro mila lavoratori, è un mondo che edifica. Ma adesso che c’è questa opera poetica, così luminosa perché è in una posizione studiata per fargli prendere più luce possibile, adesso: qual è la nostra luce? La nostra, quella dei genovesi, liguri, italiani,europei… Quale luce portiamo noi quando saliamo su quel viadotto? Questa è una domanda vera perché il ponte è l’unica cosa reale, materiale, di cui si possono vantare tutti: sindaco, regione, governo. E infatti erano tutti lì ad inaugurarlo, una roba sfiancante! E non so come quel ponte abbia potuto reggere tutte quelle autorità in una botta sola. Ora lì su non c’è più Renzo Piano, non ci sono più le autorità, ci siamo noi. Ora questa città nobile, antica, superba – che vuol dire signorile e sovrana – sale sul ponte per andare dove? Non credo che Genova lo sappia ancora.

C’è ancora smarrimento?

Sì, è attonita, per un verso. E per un altro è sempre una città che pochi anni fa ha votato all’insegna dell’indifferenza. Che è peggio della paura.

Nessun cambiamento in questo senso?

Non lo so ancora. Bisogna tornarci spesso sotto quel ponte…

Maurizio Maggiani

C’è ancora quella creuza che dal Polcevera sale su fino ai Forti, sul crinale della collina, che il vecchio ponte rispettava girandogli attorno?
Certo che c’è ancora, e su quella salita c’è un signore che, come molti altri a Genova, lascia la porta di casa sempre aperta. Lui ha visto crollare il ponte, le macchine venire giù, e poi di lì in poi ha visto i monconi abbattuti e pian piano il nuovo viadotto ricostruito. È una persona singolare, bella, e quando fa il bucato stende i panni davanti al ponte nuovo di zecca. Genova è anche questo, un posto dove si può vivere dentro ma allo stesso tempo lontani dalla contemporaneità.

Del Morandi, diceva due anni fa, i genovesi si fidavano. Lei stesso aveva fatto amicizia con quel ponte. E ora vi fiderete ancora?

I genovesi e io tra loro si fidavano di quel ponte Morandi perché si fidavano di loro stessi. Io non so se adesso sono già tornati a fidarsi abbastanza di se stessi da potersi affidare di nuovo. La città con molta fatica sta ricucendosi, ma le cose sotto quel ponte sono cambiate tanto: lì c’era un vecchio quartiere post operaio, vero. Adesso non c’è più. Via Certosa è una teoria senza fine di serrande abbassate. E non solo per il Covid. Bisognerà rialzare le saracinesche. Ma non solo fisicamente: bisognerà rialzare lo sguardo. E le pretese. Cosa pretendiamo noi dal futuro?

Questo ponte è fatto anche, per usare le parole del suo ultimo romanzo «L’amore», che risale appunto a due anni fa, della «delicata materia di ciò che è stato»?

Ma certo, quel ponte è delicato, lo è proprio fisicamente. Non lo dico solo io, lo dice il suo progettista: è un ponte che chiede permesso per attraversare la valle. Questo è uno dei tratti più belli del carattere genovese: quello di andare per il mondo chiedendo “permesso”. È la ragione per cui Genova non è mai stata truce, neanche quando era potente. Per poter essere così bisogna essere sovrani, nel vero senso della parola: responsabili di sé, coscienti per sé e per il mondo. Non padroni, che è tutt’altra parola. E in questi giorni mi sto chiedendo se possiamo ancora dirci superbi, sovrani. Quindi signorili nella nostra responsabilità.

Se lo chiede adesso perché tra un mese si vota anche per il rinnovo della regione Liguria? Un po’ di paura?

Chiaro, belin figgeaux... Mi fanno paura queste elezioni perché ci siamo arrivati nel modo peggiore possibile. Parlo da elettore progressista, e questa volta non possiamo dare la colpa all’estremismo infantile, a quelli che l’altra volta fecero perdere di fatto la coalizione di centrosinistra. Io ce l’ho col Pd, con un sistema di persone e di interessi così stretto, così esasperato, che non ha alcun interesse a governare ma è totalmente assorbito solo dalla folle e miserabile gestione del potere. O anche solo dall’illusione del potere. Ma oggi chi sono gli eredi di questa città che si è liberata da sola, grazie a quattro giovanotti, civili, che hanno ottenuto dalle forze armate tedesche l’atto di resa in mostra sul ponte di via XX Settembre?

Due anni fa disse che il Morandi rappresentava «il sol dell’avvenire». Quando ha visto comparire l’arcobaleno durante l’inaugurazione, cosa ha pensato?

Mi sono commosso perché io ci credo veramente, che quel ponte possa aver baciato la città con la sua fortuna. Però ripeto: saliamoci e andiamo da qualche parte. Vede, qualche tempo fa parlavo con un politico importante, che è delle mie parti, e gli chiedevo se discutesse mai con persone che abbiano anche solo un’idea di azione, non dico per la prossima generazione ma per la prossima legislazione. E lui mi ha risposto no, nessuno. Tanti progetti anche belli, tipo Disney World, ma nessuno – mi diceva – che prendesse in considerazione minimamente ciò che conta: il conflitto. Un progetto che agisca davvero nella realtà deve creare un ricco, profondo conflitto. È un po’ marxiana come idea ma mi hanno appena detto che anche a Wall Street studiano molto Il Capitale di Marx. Per fare business.

Al referendum cosa voterà?
Voto «No». Abbiamo discusso, abbiamo fatto le riunioni in famiglia, quell’errore lì non lo faremo.

Sperando in un nuovo sol dell’avvenire?
C’è un vecchio detto cubano: sconfitta dopo sconfitta fino alla vittoria finale.