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Il punto di vista. Lo sciopero generale suona la campana dei diritti e dei bisogni, compie il primo atto di rottura dell’unità nazionale e incrina la stessa unità sindacale, con la Cgil che assume un ruolo politico anche verso un Pd abbandonato dagli operai, lontano dalle periferie sociali.

Mario Draghi

Mario Draghi  © LaPresse

Quanti bambini avranno diritto all’asilo pubblico nel nostro Sud oltre ai 13 su 100 di oggi. Quanti pensionati costretti ad aspettare la chiusura del mercato per riempire la busta con gli scarti della giornata, potranno domani risparmiarsi l’umiliazione. Quante donne potranno trovare un lavoro stabile. Quanti degli oltre 100 mila ragazzi che se ne vanno ogni anno dal nostro paese potranno evitare l’emigrazione forzata. Quanti ragazzini saranno strappati alla strada e riportati a scuola. Quanti uomini e donne potranno trovare un’occupazione utile all’ambiente. Quante persone abiteranno una casa senza doverla occupare e quante potranno curarsi senza essere costrette allo studio privato.

Scuola, lavoro, casa, sanità, ambiente materia viva di una legge di Bilancio che avrebbe dovuto iniziare a invertire la rotta di un paese ferito dalle disuguaglianze, facendo buon uso del fiume di miliardi europei, anziché replicare un copione già visto di finanziamenti a pioggia, secondo i desiderata dei partiti di questa anomala maggioranza di unità nazionale.

Non abbiamo mai creduto, per la natura stessa di questo governo calato dall’alto, o dal basso di una crisi orchestrata in piena pandemia da personaggi come Renzi, che Draghi potesse rispondere al disagio sociale con misure economiche adeguate alla sfida di una stagione riformatrice. È accaduto il contrario. La patrimoniale respinta con sdegno dal presidente del consiglio: ”Non è il momento di prendere ma di dare”. Un sollievo fiscale per i più deboli? Sarebbe giusto ma non si può.

Un provvedimento sulla concorrenza per limitare le rendite insopportabili sui beni pubblici? Tutto il contrario con la messa a bando dei beni comuni e dei servizi locali essenziali. Lasciati alla finestra, convocati per illustrare provvedimenti già pronti, i sindacati finalmente hanno rotto la tregua e deciso di farsi sentire con lo sciopero generale. Una scelta difficile, ma necessaria. Semmai si è aspettato anche troppo.

Perché se oggi un marziano arrivasse nel Belpaese con il livello di occupazione e i salari i più bassi d’Europa, con la maggioranza delle donne disoccupate, e di giovani che né studiano né cercano lavoro, si chiederebbe se qui da noi esiste ancora un sindacato. Che per fortuna c’è, ma fortemente indebolito (specialmente sul piano della rappresentanza) da quel formidabile esercito di riserva del precariato che in Italia ha il suo Bengodi. Un sindacato isolato perché senza una sinistra capace di rappresentare il suo popolo e di tradurre in progetto di governo le istanze di chi vive solo del proprio lavoro.

Lo sciopero generale suona la campana dei diritti e dei bisogni, compie il primo atto di rottura dell’unità nazionale e incrina la stessa unità sindacale, con la Cgil che assume un ruolo politico anche verso un Pd abbandonato dagli operai, lontano dalle periferie sociali. Naturalmente il giocattolo del governo non si è rotto. Ma lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil (la Cisl è da sempre più “filogovernativa”), è qualcosa di più di un segnale di malcontento sociale. Che peraltro non arriva a sorpresa: già a ottobre il tavolo della trattativa si era incrinato, con l’annuncio di una mobilitazione generale di protesta contro le misure programmate da Draghi (con qualche scricchiolio politico di fondo).

Eppure adesso le forze della maggioranza attaccano duramente la decisione sindacale, accusandola di irresponsabilità di fronte a quello che sta accadendo nel Paese con la Pandemia. E hanno buon gioco, perché con questa potente quarta ondata – che sta mettendo con le spalle al muro diversi paesi europei – traballano alcuni piani che puntavano alla ripresa economica, in assenza di scossoni violenti.

Ma non si può essere tutti, e sempre, allineati e coperti. E Draghi non è né Superman, né il salvatore della patria, nonostante i peana che lo accompagnano dai tempi del governo Conte 2, nonostante il sostegno mediatico senza precedenti che lo ha imposto all’Italia facendo cadere chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi, nonostante la grancassa che lo vuole accompagnare fino sul Colle, cercando di evitare ricadute sull’attuale compagine governativa. La realtà è più complessa. E questo sciopero generale ci dice che la tradizionale luna di miele è ormai finita. E che non bastano i sorrisi e le buone maniere per risollevare le condizioni sociali dell’Italia. Che sono, nonostante i tamburi di latta di tg e talk-show, drammatiche.

Come ricorda l’ultimo rapporto Censis: “…il nostro Paese non può essere intrappolato in parole tanto rassicuranti, quanto povere di significato, utili a enfatizzare un impegno generico di programmazione, ma difficilmente capaci di riconnettere la società in un partecipe desiderio di ricostruzione… Tutti avvertono, invece, che per rimettere in cammino l’economia e risaldare la società occorrono interventi concreti e in profondità, che il puro gioco di controllo e mediazione delle variabili sociali è fuori dal tempo”.

Se prendiamo come background queste parole, allora si riesce a comprendere meglio il significato e l’importanza dello sciopero generale. Che sì, può essere anche impopolare, proprio a causa del delicato momento che stiamo vivendo. Ma il senso di responsabilità di una forza politica, di una forza sociale, di un mezzo di informazione, non può, non deve essere ricattato dall’emergenza. Anzi.