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Lavoro. La protesta nelle campagne per una regolarizzazione che non escluda nessuno e per maggiori diritti

Braccianti

L’Unione sindacale di base (Usb) ha indetto per oggi una giornata di sciopero dei braccianti. «Facciamo comodo quando c’è da raccogliere pomodori e zucchine per la Grande distribuzione organizzata destinate alle tavole (non soltanto italiane), ma diamo decisamente fastidio quando chiediamo diritti», scrive Usb.

La mobilitazione nasce dal malcontento che circola tra migliaia di migranti che saranno esclusi dal provvedimento di regolarizzazione deciso dal governo ed è l’ennesimo momento di protesta all’interno della dura e lunga battaglia per i diritti e la dignità dei lavoratori agricoli nelle campagne italiane.

Davanti alle prefetture di diverse città saranno consegnate cassette di frutta e verdura. Il momento più importante della giornata sarà il corteo che partirà da Torretta Antonacci (l’ex gran ghetto di Rignano) e raggiungerà la prefettura di Foggia. Usb fa appello ai consumatori per una giornata di sciopero degli acquisti di frutta e verdura a sostegno della mobilitazione dei braccianti.

Migranti, criteri più ampi per la regolarizzazione

Almeno 220 mila domande di regolarizzazione e 94 milioni di euro in più di incasso per lo Stato, frutto dei contributi che verranno versati per l’emersione dei migranti oggi impiegati in nero in settori come l’agricoltura e il lavoro domestico.

Sono alcuni dei dati relativi alla regolarizzazione contenuti nella relazione tecnica del decreto Rilancio. Ma il numero di quanti potranno accedere alla sanatoria, seppure limitatamente ai settori indicati dal provvedimento, potrebbe aumentare. Il testo del decreto, da ieri in Gazzetta ufficiale, presenta infatti alcune novità rispetto a quello approvato il 13 maggio scorso. In alternativa a uno dei due requisiti richiesti al comma 1 per poter accedere alla regolarizzazione (essere stati sottoposti a rilevi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020 e aver soggiornato in Italia prima della stessa data) se ne è aggiunto un terzo che prevede il possesso da parte dello straniero di una documentazione proveniente da organismi pubblici che dimostri l’ingresso nel nostro paese sempre prima del 20 marzo scorso: dal visto sul passaporto a un certificato rilasciato dal pronto soccorso di un ospedale, all’iscrizione a una scuola o all’università.

Altra novità riguarda poi il contributo forfettario previsto per poter accedere alla regolarizzazione, che diventa più caro per i datori di lavoro (da 400 a 500 euro per ogni lavoratore che si vuole mettere in regola) e un po’ più economico per i lavoratori (da 160 a 130 euro). Come si vede si tratta di piccole novità, sufficienti però in teoria ad allargare la platea di quanti potrebbero essere interessati a regolarizzare la propria posizione.

Del resto era stata la stessa Inps, in un documento inviato nelle scorse settimane alla commissione Lavoro del Senato in occasione di un’audizione relativa all’emergenza Covid, a giudicare troppo «restrittivi» i criteri poi inseriti nel decreto. Questo, sottolineava l’Istituto, «induce a pensare che diversi irregolari presenti sul territorio non siano in grado di presentare domanda».

Senza fondamento, invece, la possibilità che la sanatoria porterebbe un aumento dei flussi irregolari, e questo proprio perché limitata ad alcuni settori. La smentita arriva dalla Fondazione Ismu di Milano che calcola in 562 mila i migranti irregolari presenti in Italia. «Oggi come in passato – spiega la Fondazione – per lo più gli immigrati irregolarmente soggiornanti hanno già un lavoro e quindi per ottenere un permesso faranno riferimento al rapporto di lavoro in corso e non a un possibile nuovo impiego come stagionali in agricoltura». Quello appena varato è quindi un provvedimento che va bene per braccianti, colf e badanti, ma che esclude settori importanti come l’edilizia dove è impiegato un gran numero di lavoratori stranieri.

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Michele De Palma, segretario nazionale della Fiom con delega sull’automotive, Fca ha chiesto un prestito da 6,3 miliardi allo stato italiano. In serata l’azienda vi ha informato. Soddisfatti?
Solo una breve conference call con poche informazioni. Invece tutto dovrebbe essere trasparente, anche la risposta del governo. Il decreto Liquidità è di oltre un mese fa (è uscito in Gazzetta Ufficiale l’8 aprile, ndr), la richiesta sia stata fatta da tempo. Noi chiediamo al governo di stabilire delle condizionalità stringenti per Fca: un piano industriale e occupazionale di lungo periodo. Sappiamo che il finanziamento prevede condizioni per un solo anno ma noi sappiamo che a novembre ci sarà la fusione con Psa – confermataci dall’azienda – e il rischio, con i problemi di mercato già esistenti acuiti dal Covid che ha già compromesso l’intero 2020, è che a pagare siano i lavoratori italiani, già provati da anni di cassa integrazione.

Michele De Palma, segretario nazionale Fiom

La notizia ha fatto però molto scalpore, anche i giornali di destra si sono scatenati nelle critiche a Fca.
La canea dei giornali di destra è indecente: se ne accorgono adesso che Fca è diventata non paga le tasse in Italia? Quando noi denunciammo che Fca se ne andava in Olanda passammo per reprobi. Ci vorrebbe un po’ di memoria di coerenza.

Ieri il vicesegretario del Pd Andrea Orlando chiede che in cambio del prestito Fca riporti la sede in Italia. E’ anche la vostra posizione?
Dove sia la sede fiscale è un tema del governo. A noi interessa condizionare il prestito al futuro degli stabilimenti italiani. Il governo ci convochi e chieda all’azienda un piano di lungo respiro. Certo, in questa situazione anche in vista della fusione con Psa che è in parte statale sarebbe giusto porre il tema del cambiamento della governance sul modello tedesco: capitale privato, capitale pubblico e sindacato come attore delle scelte strategiche.

Lei crede davvero possibile che Fca diventi un modello di co-gestione con intervento pubblico nel capitale?
Io dico che in Italia ragioniamo sempre per pezzettini e emergenze – Decreto Liquidità, decreto Crescita, ammortizzatori sociali – e mai in modo sistemico e guardando al futuro. Noi ci siamo stancati di essere convocati solo per gestire crisi aziendali e ammortizzatori: vogliamo discutere di innovazione, di nuovi prodotti, di micromobilità nelle città, di tecnologie sostenibili. Il mercato della mobilità va in questa direzione in tutto il mondo: non basta la 500 elettrica a Mirafiori (unico stabilimento con la Sevel di Atessa in cui si sta lavorando), serve l’ibrido, serve ragionare di nuovi prodotti. Questo finanziamento può essere l’occasione perché il governo faccia pressione su Fca per farlo.

Nel frattempo però a dieci anni dalla rottura di Pomigliano voi con Fca avete firmato accordi e ora l’azienda vi ha riconosciuto ore per le assemblee sindacali anche se non siete firmatari del contratto. Siete cambiati più voi o è cambiata più Fca con l’addio di Marchionne?
Non sono cambiati loro e non siamo cambiati noi. E’ cambiata la situazione in cui siamo entrambi. Nell’emergenza Covid siamo stati i primi a chiedere di fermare la produzione e poi come metalmeccanici siamo stati i primi firmare un accordo con una multinazionale stabilendo le condizioni di sicurezza per riaprire. Sono stati questi accordi che hanno portato al reciproco riconoscimento. Le linee guida sulla riapertura prevedono che la gestione della sicurezza sia demandata ai delegati di fabbrica: l’azienda coerentemente ci ha riconosciuto le ore di assemblea per poterlo fare. L’accordo scade a luglio, contiamo di rinnovarlo.

Per il rientro totale in Fca manca solo la firma del contratto aziendale…
Il primo contratto che la Fiom vuole firmare è quello nazionale con Federmeccanica.

Pensa che con Grolier, il responsabile Emea che ha firmato gli accordi con voi, Fca possa tornare in Federmeccanica?
La domanda va posta all’azienda. Di certo le dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria Bonomi contro l’importanza dei contratti nazionali non favoriscono Federmeccanica. Soprattutto in un momento di emergenza i contratti nazionali sono fondamentali per uscire dalla crisi.

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Sei ore di assemblea per la decisione del direttore. Approvato un comunicato dei giornalisti

 

Più di sei ore di assemblea al termine della quale le paventate dimissioni del cdr sarebbero rientrate e la redazione ha approvato un documento che dovrebbe essere pubblicato nell’edizione di oggi in cui si rinnova la fiducia alla rappresentanza sindacale dei giornalisti.

Ma nonostante quella che ha tutta l’aria di essere solo una tregua, le acque a Repubblica restano agitate e anche se per ora non si parla di un altro sciopero dopo quello proclamato lo scorso 23 aprile, è chiaro che la linea editoriale del nuovo direttore Maurizio Molinari continua a creare non pochi malumori all’interno della redazione.

L’ultimo caso risale a domenica scorsa e riguarda il modo in cui sul giornale è stata trattata la richiesta di un prestito da 6,3 miliardi di euro a tasso agevolato e garantito dallo Stato a Fca.

Exor, il gruppo proprietario della casa automobilistica, controlla anche il giornale di Largo Fochetti, motivo per cui in redazione si sarebbe preferito un maggior equilibrio nell’informare i lettori.

Domenica, invece, all’argomento viene dedicata un’intera pagina con due articoli giudicati troppo schierati a favore dell’operazione.

Motivo per cui il cdr, come previsto dal contratto, a sera chiede la pubblicazione di un comunicato in cui si esprimono critiche e perplessità sul modo in cui la vicenda è stata trattata. Richiesta bocciata dalla direzione.

Certo non si può dire che Molinari sia entrato in punta di piedi nel giornale fondato da Eugenio Scalfari. E non solo perché rivoluziona la grafica urlata voluta dal suo predecessore Carlo Verdelli – liquidato dalla nuova proprietà proprio il 23 aprile, giorno in cui, stando alle numerose minacce ricevute in quattro mesi, sarebbe dovuto essere «cancellato».

Proprio Scalfari, del resto, è tra i primi a essere investito dalle novità. Il suo consueto fondo della domenica – generalmente l’unico in prima pagina in quel giorno – viene affiancato da un editoriale del nuovo direttore. Se non proprio un contraltare, quasi.

Il giornale assume inoltre un orientamento giudicato da alcuni troppo filo amministrazione Usa. Infine Molinari istituisce un premio di 600 euro per il miglior giornalista della settimana che lascia perplesso più d’uno.

Scelte che ovviamente non possono passare inosservate tra le firme più prestigiose del quotidiano.

«Dal 23 aprile il panorama dell’editoria italiana è cambiato» scrive l’ex direttore di Lotta continua, Reporter e Diario Enrico Deaglio annunciando le dimissioni da collaboratore del Venerdì. «In poche settimane Repubblica è cambiata, non la riconosco più» aggiunge Gad Lerner annunciando anche lui il suo addio al giornale nel quale era stato richiamato proprio da Verdelli. E con loro va via anche Pino Corrias.

Ieri l’assemblea della redazione è andata avanti fino a tarda sera in un clima tutt’altro che tranquillo e con il cdr indeciso fino all’ultimo se dimettersi o meno.

Un clima così pesante che, si lascia scappare qualcuno, fino a oggi nel giornale non si era mai visto.

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Benvenuti in Paradiso. Polemica contro Orlando, ma Zingaretti è con lui: sugli incentivi il governo deve vigilare. Renzi tenta l’ironia sul complotto dei poteri forti. Ma i giornali del gruppo Gedi attaccano

La Fca di Terni

 Statalisti e sovietici sono le espressioni più composte sui social, ma stavolta gli attacchi più velenosi arrivano dalla carta stampata, dal neodirettore della Stampa Massimo Giannini. A scatenare la caccia al complottista bolscevico sono alcune frasi del vicesegretario del Pd Andrea Orlando a proposito del prestito da 6,3 miliardi di euro chiesto da Fca (finanziaria Exor, gruppo editoriale Gedi, cioè Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX, L’Espresso e una catena di locali e radio) a norma di decreto Liquidità (art. 1, co. 2) a banca Intesa Sanpaolo con le garanzie dello Stato. Il ragionamento di Orlando è: «Senza imbarcarci in discussioni su che cosa è un paradiso fiscale (il riferimento è all’Olanda dove ha la sede fiscale Fca, ndr), si può dire con chiarezza una cosa: un’impresa che chiede ingenti finanziamenti allo Stato italiano riporta la sede in Italia. Attendo strali contro la sovietizzazione e dotti sermoni sul libero mercato». E gli strali e i sermoni piovono. Sin dalla mattina campeggiano sulla Stampa. Anche perché sabato, a una riunione del Pd milanese, Orlando aveva aggiunto al ragionamento: «Nelle prossime settimane vivremo una serie di attacchi al governo, finalizzati alla caduta del governo Conte, che saranno ispirati da centri economici e dell’informazione».

I temi si intrecciano, le reazioni anche. Paolo Mieli sul Corriere della sera liquida le parole di Orlando come «imbarazzanti» – e non c’è aria di «nessun agguato a Conte» aggiunge, replicando a un appello pubblicato dal manifesto -. E invece la Stampa non riesce a sorvegliare lo stile: mentre opinionisti e economisti fieramente liberisti arpeggiano sulla necessità di aiuti di stato senza condizioni, Giannini rifiuta dubbi sull’autonomia del quotidiano che oggi dirige. E ci va giù con la penna pesante. Parla di «fetido venticello della calunnia», srotola un filo fra gli odiatori antisemiti contro Liliana Segre e quelli antislamici contro Silvia Romano, «le semplificazioni di Orlando nascono dallo stesso ‘agente patogeno’: la strumentalizzazione sistematica, i soliti sospetti, l’eterno cui prodest. Un virus pericoloso che indebolisce la democrazia». Metafora quest’ultima particolarmente sgraziata, dati i tempi di pandemia. Una parentesi. Fra il direttore e il deputato c’è un precedente: in una recente intervista di Orlando al suo quotidiano la richiesta di garanzia da parte di uno stato finanziatore nel titolo diventa la richiesta «di un posto in Cda». Di nuovo la parodia del sovietico. Secondo indizio, ma il dubbio di una campagna mirata sarebbe definito ’solito sospetto’.

La discussione entra nel vivo del governo: perché se il prestito è consentito dal decreto Liquidità, presto il ministro Gualtieri dovrà scrivere un decreto ministeriale ad hoc per autorizzarlo.

Intanto il Pd è costretto a dire cose di buonsenso e un po’ di sinistra per difendere il vicesegretario. «Nelle politiche di incentivi e prestiti con garanzia statale alle imprese e ai grandi gruppi industriali deve essere determinante la finalità di utilizzo delle risorse per a stabilizzare l’occupazione in Italia e a non delocalizzare» dice Nicola Zingaretti, «Molte volte gli accordi sono stati disattesi». Le garanzie, aggiunge Delrio, non le «chiediamo noi ma la legge». Gli fanno eco Bettini, Martina e Romano. Il ministro Provenzano cita l’ex capo del centrosinistra: «Prodi si è recentemente espresso con preoccupazione riguardo l’intera vicenda ricordando che Fca non è più una impresa italiana» e che «è legittimo finanziarla ma occorrono garanzie». Con Orlando si schiera anche una coppia inedita, Crimi e Calenda. L’ex ministro, non collocabile fra gli ’statalisti’, aggiunge un tassello: «Non puoi godere di prestiti garantiti dal tuo paese e pagare le tasse in un altro». E ancora: «Benissimo il prestito, ma poi non distribuisci 5,5 miliardi ai tuoi azionisti all’estero». In effetti la distribuzione dei dividendi sarà sospesa, ma per un anno. Con Orlando anche il segretario Cgil Landini: «Tutti i prestiti alle imprese devono avere delle condizionalità precise: che non ci siano delocalizzazioni, che vengano garantiti i livelli occupazionali, che non si chiudano stabilimenti». E la segretaria Cisl Furlan: «È necessaria la verifica puntuale che le risorse siano utilizzate esclusivamente per gli investimenti produttivi nel nostro Paese».

Renzi invece attacca: «Evocare i ‘poteri forti’ e gli ‘interessi dei padroni’ è ridicolo». Controreplica di Orlando: «Nessuno ha parlato né di padroni né di poteri forti bensì di sedi legali e fiscali, garanzie degli investimenti e dei livelli occupazionali e interessi, legittimi, in gioco».

 

  

 

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da "il Manifesto" del 16 maggio 2020

I Comuni sono tutti a rischio default, tanto quelli che, prima della pandemia, si trovavano in stato di disavanzo, quanto quelli che, pur disponendo di risorse libere dall’avanzo di amministrazione, le stanno velocemente prosciugando per rispondere all’emergenza sanitaria, economica e sociale.
Sembra in tutt’altre faccende affaccendato il governo, il cui recentissimo decreto, che mette a disposizione 55 miliardi, pare unicamente direzionato a favorire le imprese e a rispondere ai diktat di una Confindustria che, nella guerra per le risorse, non intende fare prigionieri.
Paradigmatico in questa direzione è il provvedimento con cui si abbona alle imprese il saldo 2019 e l’acconto 2020 dell’Irap, privando, in piena emergenza, il servizio sanitario di un’entrata certa (prodromico alla richiesta governativa di accesso al Mes?).
Speculare a questa accondiscendenza verso il mondo delle imprese è l’indifferenza alle sorti dei Comuni, luoghi primari della democrazia di prossimità, che si ritrovano tra la moltiplicazione dei bisogni cui devono urgentemente rispondere e le casse tragicamente vuote.
Su questo punto, si è alzata forte la voce dell’Anci, ma, ancora una volta, con il pesante handicap di limitarsi a chiedere risorse, invece di affrontare i problemi strutturali che negli ultimi venti anni hanno progressivamente depauperato i Comuni, e impoverito e frammentato le comunità territoriali.

Perché tutti i Comuni non rivendicano la sospensione del patto di stabilità interno e del pareggio di bilancio, analogamente

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Silvia Romano. Dopo 535 giorni nelle mani dei suoi rapitori la giovane cooperante è stata finalmente liberata. Intorno a questo evento e alla questione della sua conversione si è scatenata una vergognosa canea mediatica e politica

 

Una donna che torna, dopo un rapimento, non è mai la stessa che è partita. E questo vale anche per Silvia Romano.

Le prime reazioni dopo la liberazione penso siano ancora condizionate dallo shock. Per questo credo debbano essere prese con cautela anche le dichiarazioni «emerse» dall’interrogatorio di domenica. Ci vuole tempo perché prendano forma i particolari di una vita vissuta in cattività. Particolari che forse inconsciamente abbiamo negato a noi stesse, così come altri sono stati probabilmente solo la concretizzazione di suggestioni.

Certo ogni rapimento è una storia a sé, ma credo che per una donna trovarsi isolata in un contesto culturale e religioso così diverso da quello in cui siamo cresciute rappresenti una difficoltà maggiore nella comprensione dei comportamenti e delle reazioni dei sequestratori che sono sempre maschi e trucidi.

Che non capiscono spesso le esigenze di una donna, soprattutto quelle del ciclo mestruale, durante il quale si allontanano perché sei «sporca». Il tabù del corpo della donna ha tuttavia un aspetto positivo: nessuna donna occidentale rapita – almeno negli ultimi anni e a quanto mi risulta – ha mai subito violenze fisiche se non quella estrema della morte. Questo non è poco, ma restano le violenze psicologiche. A volte persino più subdole e traumatizzanti.

Importante è anche il contesto in cui si consuma la prigionia: isolate, con altri prigionieri, la possibilità di comunicare con una donna… Certo per comunicare vi è anche il problema della lingua e non penso che gli shabab di oggi conoscano l’italiano come gli anziani che avevano subito la colonizzazione e la presenza italiana anche dopo l’indipendenza. Oltre al somalo si è diffuso l’arabo, soprattutto attraverso le scuole coraniche che, avevo appurato l’ultima volta che sono stata in Somalia, insegnavano la storia e la geografia dell’Arabia saudita! Scuole coraniche che hanno formato molti jihadisti. Già allora a Mogadiscio era in vigore la sharia fatta applicare da una Corte islamica che mozzava mani e piedi senza nemmeno l’anestesia usata, ipocritamente, dai sauditi.

Non mi meraviglierebbe quindi che Silvia si sia trovata in un contesto da «stato islamico».

Questo non vuol dire che non sia rimasta colpita dal suo abbigliamento quando è scesa dall’aereo che l’ha riportata in Italia. Le domande che subito mi sono posta però sono passate in secondo ordine rispetto alla gioia per la sua liberazione. La libertà vale anche per le scelte che lei ha fatto. Anche se dubito che in uno stato di prigionia – per di più durata così tanto – si possa mantenere lucidità e libertà nelle scelte.

Il mio rapimento – fortunatamente – è durato «solo» un mese durante il quale ho sempre mantenuto un atteggiamento conflittuale – e senza una lacrima – con i miei rapitori con i quali comunque comunicavo, come si può rimanere giorni senza parlare, anche correndo il rischio di non farsi capire? E non è mancata nemmeno la suggestione di farmi convertire all’islam facendomi recitare una preghiera – in questo caso con la sciarpa in testa – per dimostrarmi che in fondo era facile la conversione… Ma per fortuna i miei rapitori non erano fondamentalisti e mentre uno diceva che ero una «senza dio» l’altro – più politico – sosteneva che mi vedeva meglio come «combattente» che come donna sottomessa all’islam.

In effetti l’unico risultato ottenuto è stata la conferma di essere atea.

Ma 535 giorni sono lunghi, interminabili, e come sopportarli senza cercare di adattarsi per sopravvivere? E poi i contesti sono diversi – l’Iraq non è la Somalia – e anche i rapitori sono diversi.

Ma la canea che si è scatenata contro Silvia perché si è convertita all’islam non ha limiti e si scontra con il suo sorriso disarmato e disarmante, quasi ingenuo.

Paragonarla a una detenuta nei campi di concentramento che torna vestita da nazista è un orrore inconcepibile e dovrebbe offendere chi ha il senso della storia, ma purtroppo non è così, non c’è il minimo pudore nelle affermazioni di chi si sente in diritto di giudicare.

Come sempre succede quando una donna torna a casa dopo un rapimento la destra si scatena contro il pagamento del riscatto. Lecito o non lecito? Quanto vale una vita umana? I cittadini italiani devono essere tutti salvati o dipende dalle loro convinzioni? È lecito pagare un riscatto che finirà nelle mani di jihadisti e magari anche in quelle di chi ha fatto da tramite, in questo caso i servizi segreti turchi che hanno fatto il loro spot pubblicitario con il giubbotto antiproiettile indossato da Silvia al suo rilascio?

Interrogativi che fanno passare in secondo piano una vita umana solo quando è una donna che deve essere riportata casa, in questo caso si tratta di Silvia «l’ingrata», che per la sua conversione non potrà essere annoverata tra le «vispe Terese» o le «oche giulive», quelle «che se la sono andata a cercare» o, peggio, hanno messo a rischio la vita di chi le ha volute salvare.

Non potrò mai dimenticare che devo la vita a Nicola Calipari e non basta una vita per elaborare questo trauma.

Ho parlato di donne rapite, perché quando è tornato un fotografo convertito nessuno si è pentito di averlo liberato e in nessun caso i rapiti maschi se la sono «andata a cercare».

P.S. A proposito della diatriba Conte-Di Maio, su chi doveva andare a ricevere Silvia all’aeroporto, per quel che vale, quando sono tornata io a Ciampino è venuto Berlusconi e non Fini!

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