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La vittoria della sinistra. È un voto di rivolta, una svolta che ci riguarda direttamente. Intanto e subito chiama a verifica le forze di sinistra e i movimenti d’opposizione del Continente latinoamericano

 

Il nuovo presidente del Cile Gabriel Boric festeggia tra la folla  © AP Photo/Matias Delacroix

Davvero una bella notizia. Gabriel Boric, 35 anni, deputato ed ex leader delle proteste studentesche, è stato eletto presidente del Cile. Boric ha ricevuto il 56% delle preferenze, sconfiggendo il rivale Josè Antonio Kast, fascista-pinochettista con il suo richiamo aperto al golpe militare sanguinoso che nel settembre del 1973 abbatté il governo democratico del «compagno presidente» Salvador Allende. C’era di che essere preoccupati alla vigilia dall’affermazione al primo turno delle presidenziali del candidato dell’estrema destra – abbiamo aperto domenica con «L’ombra di Pinochet», mentre in casa nostra il razzista Salvini si augurava «per l’ordine» la vittoria del fascista Kast. L’ombra si è dissolta, a cominciare dal sì di un anno fa alla nuova Costituente, e con la vittoria schiacciante di Boric si è fatta nuova luce su mezzo secolo di conflitti non solo dell’America latina.

È un voto di rivolta, una svolta che ci riguarda direttamente. Intanto e subito chiama a verifica le forze di sinistra e i movimenti d’opposizione del Continente latinoamericano che a partire proprio dal golpe di Pinochet, attraverso il famigerato Plan Condor che coinvolse a pieno l’intelligence delle varie amministrazioni Usa, vide l’affermazione di dittature militari nei punti chiave della sua crisi, dall’Argentina, all’Uruguay, alla Bolivia – nel ’64 i militari avevano preso il potere già in Brasile. E dove, come in Cile, non è bastato che al governo arrivassero forze di centrosinistra per avere un cambiamento nella gestione del potere e nella trasformazione egualitaria della società.

Intanto si rompe l’isolamento di esperienze centrali per comprendere la crisi politica mondiale, come quella del Venezuela dove pure non solo il carisma di Chavez aveva costruito una svolta progressista ma l’avvento anche di un vasto movimento di protesta sviluppatosi in tutti gli anni Novanta; e come quella rivoluzionaria di Cuba, sotto assedio e in stato di sopravvivenza, non solo per effetto di un criminale embargo Usa perpetuato anche dalla nuova amministrazione Biden, ma anche per le difficoltà di gestione delle nuove decisive riforme economiche.

Una rottura dell’isolamento e l’apertura di nuove prospettive che vale anche per il Brasile ora nella morsa del protofascista populista Bolsonaro arrivato al potere dopo una stagione di destabilizzazione mediatica e giustizialista, un vero e proprio «golpe bianco», contro l’esperienza democratica di Lula. Ma il messaggio arriva anche da noi, nel Vecchio continente, quello di un’Unione europea «reale», nata male sulla base di una moneta che si voleva unico cemento «unificante», e malvissuta nella logica della primazia dei mercati e del fiscal compact imposto perfino nelle costituzioni nazionali; in un’Europa dove la critica al neoliberismo e alla centralità del mercato e delle sue scelte arranca e quasi è costretta ad approfittare della tragedia pandemica per avere voce ed ascolto.

E segnatamente la svolta cilena arriva, dovrebbe arrivare, anche in Italia. Vince infatti in Cile una coalizione di sinistra radicale Apruebe Dignidad (approvare la dignità) – il Cile si riprende la dignità: Pinochet aveva chiamato “Dignidad” una colonia penale per oppositori – , con i comunisti che non si sono «suicidati», una coalizione che ha guidato le lotte contro le privatizzazioni e il neoliberismo e che per la sua credibilità ha conquistato anche la maggior parte del decisivo voto centrista. Mentre in Italia «la sinistra che abbiamo conosciuto non esiste più», eternamene ricondotta nel cortile delle compatibilità e della governance; e anche quella d’opposizione scompare, dispersa in mille rivoli contrapposti. Come dimenticare invece che qui, proprio in Italia, l’esperienza cilena ha lasciato segni profondi nell’evoluzione della nostra storia recente?

Il compromesso storico di Berlinguer, e non le sinistre unite al governo, fu tra l’altro la risposta politica – presentata come «obbligata» – al pericolo fortissimo di una soluzione cilena per un Paese che vedeva ancora in campo un vasto movimento di protesta nato con le lotte studentesche del ’68 e diventato strutturale solo con la scesa in campo nel ‘69 di un grande movimento operaio. Contro il quale la repressione e la provocazione violenta non tardarono a farsi vive con una stagione militare di stragi neofasciste orchestrate all’interno degli apparati centrali dello Stato. E anche la scellerata scelta di una parte marginale e minoritaria di quella esperienza, di ricorrere alla scorciatoia della «lotta armata» fu, nella logica di chi la sceglieva, una «risposta giustificativa» – ma nefasta, sconsiderata e perdente in partenza – alla sconfitta violenta cilena.

Ma l’insegnamento più forte che arriva dalla svolta in Cile riguarda, sempre come riflesso di quella storia, la crisi mondiale attuale e il destino delle nuove generazioni. Perché la dittatura di Pinochet non fu una «tradizionale» dittatura fascista ma il primo esperimento mondiale, pagato dal popolo cileno, del modello di «neoliberismo autoritario» che sarebbe diventato dominante sul finire del secolo breve ma anche nel nuovo secolo in corso. Un modello che si è avvalso proprio del «lavoro» della scuola economica dei Chicago Boys, gli economisti guidati da Milton Friedman.

Vince in queste ore in Cile la giovane generazione che, contro governi di centrodestra e di centrosinistra, si è battuta, pagando spesso anche con la vita, contro i processi di privatizzazioni che hanno colpito la scuola, la sanità, il sistema di welfare a partire dalle pensioni, riducendo alla povertà i cileni – e il Continente latinoamericano – e costruendo un sistema di diseguaglianze che chiamava la gente a partecipare diffondendo l’ideologia individualistica della «scelta di libertà». Grazie Cile.