Quirinale. Sull’anomalia rappresentata da un’eventuale ascesa al Colle del Cavaliere poco c’è da aggiungere al molto che a proposito del leader di Forza Italia è stato detto e scritto negli ultimi trent’anni
Sul tavolo delle trattative per l’elezione del Presidente della Repubblica risaltano due autocandidature (fatto di per sé inedito nella nostra storia repubblicana). La prima candidatura è quella esplicita di Silvio Berlusconi; la seconda è quella implicita, ma non per questo meno evidente, dell’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi. Qualunque sia l’esito di questa “guerra dei nonni” (per riprendere il fulminante titolo del manifesto), essa pone urticanti dinamiche istituzionali.
Le due autocandidature pongono il nostro Paese di fronte a torsioni che è utile riproporre davanti all’opinione pubblica in questo scorcio di “campagna elettorale” quirinalizia.
Sull’anomalia rappresentata da un’eventuale ascesa al Colle del Cavaliere poco c’è da aggiungere al molto che a proposito del leader di Forza Italia è stato detto e scritto negli ultimi trent’anni; rimane semmai da rinnovare il monito a non sottovalutare le capacità di manovra del personaggio, specialmente sul finire di una legislatura come questa, contraddistinta dall’auge di un personale politico non propriamente esemplare.
Più ovattate, ma non per questo meno minacciose, le ombre che si addensano attorno alla prassi repubblicana del Paese sulla scia dell’autocandidatura
di Draghi. Per due ordini di motivi. Il primo, per il ricatto implicito che essa pone al Parlamento. Considerato infatti il potere assunto dalla figura presidenziale nei cascami della crisi italiana (il famoso presidenzialismo di fatto, ormai una realtà più che una possibilità), la mancata accettazione da parte dei partiti di maggioranza dell’autocandidatura di Draghi comporterebbe una sua delegittimazione anche come primo ministro. Un corto circuito non previsto dalla nostra Carta costituzionale, ma nei fatti operante: per via dell’impotenza dei partiti, e di una campagna mediatica che ha fatto di un presidente del consiglio incaricato, se capace, di risolvere alcuni problemi del paese poco meno di un Re taumaturgo, ai cui desiderata risulta adesso complicato opporsi.
Più insidioso ancora il secondo motivo. In caso infatti di una sua elezione al Quirinale, Draghi sarebbe il primo Presidente ad essere eletto sulla scorta di un dettagliato programma politico. Un precedente potrebbe essere trovato a prima vista nell’elezione di Giovanni Gronchi nel 1955. Ma in quel caso il programma – far seguire il disgelo costituzionale al disgelo bipolare – non precludeva nessuna formula di governo specifica; nessuna potenziale “coabitazione forzata” avrebbe potuto insomma prodursi, per dirla in termini presidenzialisti. Anzi, l’elezione dell’esponente della sinistra Dc ampliava nei limiti del possibile lo spettro delle potenziali soluzioni parlamentari “legittime” in diversi campi (eventuale rottura del “centrismo” e ingresso dei socialisti in maggioranza; politica estera di distensione; attuazione della Costituzione).
Con Draghi invece al Quirinale traslocherebbe non solo una personalità, ma anche un programma politico rigido e poco suscettibile di essere scalfito nel caso in cui le urne producessero maggioranze politiche ad esso avverse: quello del “vincolo esterno”, col suo portato di svalorizzazione del lavoro e subordinazione alla disciplina del mercato dei servizi pubblici essenziali, senza limite alla concentrazione e alla volatilità dei capitali.
Cosa accadrebbe in caso si producesse una maggioranza parlamentare con programma politico di segno opposto a quello presidenziale? Quale dei due poteri ne uscirebbe delegittimato? Con quali conseguenze?
Male farebbe la sinistra a non considerare questi aspetti, crogiolandosi nella consapevolezza che al momento il draghismo al Quirinale porrebbe problemi soprattutto alla destra nazionalista: c’è da sperare che prima o poi, più prima che poi, una critica di massa alle politiche egemoni negli ultimi anni venga messa in campo anche da sinistra.
Ma più in generale tutti i partiti sono chiamati a considerare che, vigente ancora la Carta del ’48, l’unico programma politico affidato alla presidenza della Repubblica dovrebbe consistere nel suo rispetto e nella sua attuazione.
Verità nascoste. La rubrica a cura di Sarantis Thanopulos
La scienza è inaffidabile quando si pretende che diventi norma, verità su cui riporre una fede religiosa. Come sanno tutti gli scienziati veri, appassionati delle loro ricerche e non della visibilità e del potere (nulla di più estraneo allo spirito scientifico), la scienza non produce certezze (esse fanno parte di sistemi dogmatici che si legittimano dalla capacità di conformazione che esercitano sulle masse).
Produce una conoscenza necessariamente approssimativa e discontinua della realtà e per farlo deve operare in campi diversi tra di loro, dialoganti per quanto è possibile, ma in nessun modo uniformabili a un pensiero unico che detta legge. L’essere umano è tale, vive e prospera nella buona e nella cattiva sorte, se non ambisce a possedere uno sguardo divino capace di vedere tutto nel suo insieme, in un’unica prospettiva. La scienza vede la realtà secondo prospettive diverse che restano asintotiche rispetto a una visuale totale che non è reale. Lo iato tra la visuale umana (multi-prospettica, asintotica rispetto a ogni verità assoluta) e un ipotetico sguardo divino, produce conoscenza e esperienza, ampliando all’infinito il loro spazio, ed è la condizione della permanenza del desiderio e della vita. Grazie a questo iato si respira.
Con tutte le difficoltà e le tante inefficienze del sistema sanitario mondiale, gli scienziati hanno prodotto dei vaccini che hanno un’efficacia innegabile, seppure relativa. Non si capisce perché avrebbero dovuto produrre miracoli, la scienza non li crea (men che mai a commando). Diversa, e molto più importante, è la questione di chi e come usa la scienza. Ci sono due interrogativi che sono ineludibili e il silenzio che li copre è scoraggiante. Si può continuare a affidare la ricerca scientifica quasi esclusivamente a investimenti privati (esenti da controlli e regolazioni da parte di organismi pubblici) che per definizione non tengono conto dell’interesse collettivo (se non in una sua interpretazione legata alle opportunità di speculazione)? Può in prospettiva produrre qualcosa di buono l’investimento di enormi fondi nella produzione privata di vaccini (comprati a prezzi scandalosi) che vengono sottratti dalla sanità pubblica (il grande malato, il nostro tendine d’Achille, di cui non prendiamo cura)? Lo smantellamento della libertà della scienza sfocia nella confusione tra verità scientifica e propaganda. Quando l’ad di Pfizer si indirizza direttamente all’opinione pubblica per dire che sarà necessaria, a breve, una quarta dose, è in chiaro conflitto di interesse. Queste valutazioni spettano a autorità di controllo indipendenti.
I vari esperti che parlano in tv dando comunicazioni contraddittorie, su un virus di cui non sono ricercatori, hanno disorientato il loro pubblico, stretto tra due opposte tendenze: il ritiro dalla vita è il diniego di un pericolo reale oggetto di disinformazione. La volontà ossessiva di ridurre l’essere umano alla biologia, denegando la sua natura relazionale, affettiva e erotica e la sua fondamentale necessità di dare senso alla sua esistenza (senza il quale perisce), è messa alle corde dal fatto evidente che i vaccini ci proteggono, ma dai pericoli (i virus e altre catastrofi che incombono) non usciamo senza una diversa cultura e politica di vita. L’ossessione in crisi si fa veleno: “la scienza non è democratica” dice un tecnocrate mediatico.
Fuori dalla Polis democratica la scienza non è indipendente ed è priva di verità e di etica. Essa prospera nel dibattito, si fonda sulla libertà di espressione delle idee e evolve secondo modalità di consenso fondate sul ragionamento e non sull’arbitrio. Opera nel rispetto rigoroso del principio della non contraddizione, pronta sempre a rivedere le sue visioni.
Vive, tuttavia, sulle contraddizioni: la sua specificità è di riconoscerle e metterle in tensione, creando verità, senza eliminarle necessariamente.
Delocalizzazioni. L'assemblea delle lavoratrici dell'Ortofrutticola del Mugello conferma la mobilitazione. La Flai Cgil: "Da Italcanditi solo parole, da qui non esce nemmeno un bullone se non c'è un dettagliatissimo piano industriale che tenga conto degli ingenti investimenti necessari per progettare nuove lavorazioni". Istituzioni locali e regionali al fianco delle operaie.
Sciopero a oltranza e avanti con il presidio davanti ai cancelli della fabbrica, nonostante il freddo e la neve. Non hanno avuto alcun dubbio le 80 operaie dell’Ortofrutticola del Mugello, al termine di un’assemblea in cui si è fatto il punto delle supposte novità emerse al tavolo regionale con i proprietari di Italcanditi. Supposte, perché agli occhi delle lavoratrici, della Flai Cgil e della Fai Cisl non è apparsa convincente l’apertura, solo verbale, al mantenimento dello stabilimento a Marradi. Ma con il trasferimento dei macchinari a Bergamo, dove Italcanditi intende accentrare la lavorazione dei marron glacès. Passando da una produzione a chilometro zero, grazie al prelibato Marrone del Mugelllo Igp, a non meglio precisate lavorazioni del prodotto semilavorato.
Leggi tutto: Alla “fabbrica dei marroni” le operaie insistono: “Sciopero e presidio”
Commenta (0 Commenti)Massimo D'Alema © LaPresse
Massimo D’Alema ci accoglie nel suo studio alla fondazione Italianieuropei, due grandi finestre sui tetti di Roma, sulle librerie i cimeli e i ricordi di una vita. Accenna a una futura missione nell’Artico «per tentare di demilitarizzare il Polo Nord. Un tema che mi appassiona moltissimo». Si avvicina a una mensola ed estrae un grosso volume rilegato in pelle nera: «Ecco, è il primo numero della rivista. Era il 2001, ci interrogavamo con Giuliano Amato e altri su come la sinistra potesse condizionare la globalizzazione neoliberista: l’idea fondamentale era che l’integrazione europea potesse costruire una soggettività politico-istituzionale in grado di dominare i processi di globalizzazione. Così non è stato: la costruzione europea ha preso una torsione ordoliberale». «Ora – prosegue iniziando a torturare con sapienza uno dei suoi famosi origami – stiamo vivendo la fine del lungo ciclo neoliberista».
È davvero arrivato alla fine?
Quel processo è stato scosso dalla crisi del 2008, ma non messo in crisi. La pandemia agisce più in profondità, tocca la dimensione antropologica. Non a caso si ripropone una gerarchia di valori fondamentali: il discrimine tra destra e sinistra in tutto il mondo è tra chi adotta il principio di cautela e fa della difesa della salute il cardine delle politiche pubbliche e chi invece difende la logica del profitto a rischio della vita. Come Bolsonaro e Trump, così anche in Italia. E siamo di fronte a rischi regressivi: dalla globalizzazione liberista si può uscire anche con un ritorno ai nazionalismi e alla politica di potenza, con i rischi di una nuova guerra fredda.
C’è la concreta possibilità di una uscita a sinistra dalla pandemia?
Il quadro internazionale è incerto ma aperto. I democratici americani e la socialdemocrazia tedesca sono al governo. C’è un tentativo di rilancio neokeynesiano, la ripresa è improntata al protagonismo delle politiche pubbliche in una misura che non vedevamo da oltre trent’anni. Il piano di Biden, che in parte si è arenato, aveva dimensioni roosveltiane, sia nelle opere pubbliche che nelle politiche sociali. L’Ue è uscita dalla logica dell’austerità, anche se ci sono spinte per tornarci. Next Generation Eu non è solo un piano espansivo, ma anche un programma volto a garantire una riconversione ecologica e la riduzione delle diseguaglianze sociali. C’è dunque una potenzialità. Oggi piangiamo David Sassoli, un amico che ha dato un contributo molto importante alla svolta europea e ha lasciato un vuoto che non sarà facile colmare.
Per tornare all’America c’è però una crisi dell’amministrazione Biden.
La verità è che un new deal non regge un rilancio della guerra fredda: è la maggiore contraddizione della politica americana. La classe dirigente occidentale si trova a gestire una fase storica di ridimensionamento, che è cosa diversa dal declino, tuttavia è un dato oggettivo. In un mondo in cui si riaprono faglie e rischi di guerra, è più facile che torni a vincere la destra. Il nodo è come tenere insieme l’inevitabile competizione e la necessaria collaborazione con la Cina, e l’Europa paga prezzi ancora maggiori in questa contrapposizione con Russia e Cina.
Una crisi della democrazia che in Italia pesa particolarmente.
Siamo l’unico paese democratico dove la transizione post 1989 ha portato alla distruzione di tutti i partiti che avevano costruito e innervato la Repubblica. Non siamo riusciti a costruire rinnovati soggetti politici e a rinnovare le istituzioni nel segno dei principi e dei valori che animano la prima parte della Costituzione. In questa crisi ha giocato un ruolo una borghesia come quella del nostro Paese che, nelle sue élite economiche, ha sempre avuto una profonda diffidenza verso il sistema democratico.
E ora siamo all’ennesimo governo tecnico.
Draghi è stato chiamato ad affrontare un’emergenza. Lo fa certamente con autorevolezza e competenza. Ma quello che io trovo davvero impressionante è il “draghismo”, e cioè che uno stato di eccezione venga eletto a nuovo modello democratico. Sui grandi giornali ho letto cose inquietanti che mi sono appuntato, tipo «finalmente abbiamo un premier di cui non si sa per chi vota, dunque non può perdere le elezioni amministrative». Vorrei che mi si indicasse un paese democratico al mondo in cui non si sa per chi vota il capo del governo. Altra frase inquietante: «Bisogna fare in modo che Draghi resti a palazzo Chigi a prescindere da quale sarà il risultato delle prossime elezioni». Se il messaggio è questo come si fa a chiedere alle persone di andare a votare? Ancora: l’idea che possa governare dal Quirinale mettendo una persona di fiducia a palazzo Chigi. Un’esplosione di antipolitica, elitismo e spirito antidemocratico. L’apice si è raggiunto quando si è scritto che il problema non è quello che pensa il Parlamento bensì quello che vuole Goldman Sachs a proposito della collocazione futura del presidente Draghi. È umiliante per il nostro paese. Ma oltretutto, queste considerazioni sono sciocche perché alimentano delle aspettative messianiche che sono inevitabilmente destinate ad essere deluse, generando qualunquismo e sfiducia.
Il premier è vittima o beneficiario di questo meccanismo?
Io penso che questa ondata lo danneggi.
Lui però ci mette del suo, quando dice che il governo ha finito il suo compito e lui è pronto a fare il «nonno a disposizione delle istituzioni».
Purtroppo la recrudescenza della pandemia prolunga l’emergenza. E la messa a terra del Pnrr è tutta da realizzare, anche se sono stati finora compiuti tutti gli atti necessari.
Che giudizio dà nel merito sul governo Draghi?
Il premier svolge efficacemente il suo ruolo internazionale spendendo la sua forte credibilità, a Bruxelles e con gli Stati Uniti. Sul lato interno fa il possibile con una maggioranza contraddittoria e inevitabilmente divisa, cerca i compromessi possibili. Fa politica quindi, misurandosi con una realtà rispetto alla quale non esistono super poteri in grado di produrre soluzioni miracolistiche.
Sul Quirinale che strada vede?
Mai come in questo momento serve un’intesa tra le forze politiche, altrimenti si rischia il caos. Il centrosinistra in passato, pur avendo la maggioranza dei grandi elettori, ma non ne ha mai abusato proponendo figure che non dividevano il paese, come Ciampi, Napolitano e Mattarella. Oggi nessuno ha la forza di governare il processo. Sarebbe importante che le forze politiche si vincolassero ad avanzare ipotesi di candidature femminili. Dopo 70 anni, e in una fase di crisi profonda del sistema democratico, sarebbe un segnale importante.
Secondo il Corriere la sua preferenza andrebbe a Letizia Moratti.
Non sono nelle condizioni di avere preferenze. E se le avessi indicherei una donna del centrosinistra.
La candidatura di Draghi resta la più forte ai nastri di partenza.
Se i partiti ritengono che l’unica personalità su cui si può trovare una larga convergenza è quella di Draghi, questo però richiede un accordo per il governo. In questo scenario confuso vedo un unico disegno chiaro, quello della destra di Giorgia Meloni: eleggere il premier con buona pace del folle tentativo di Berlusconi di assaltare il Quirinale. Così si pagherebbe un ticket di legittimazione agli occhi dell’establishment internazionale per poi andare subito alle elezioni con questa legge elettorale. Questa almeno è un’agenda politica, che io ritengo dannosa. Il resto dello scenario mi pare confuso.
Torniamo all’ipotesi di un governo di fine legislatura.
Non serve soltanto un nome, ma una maggioranza e un’idea su come arrivare al 2023. A mio avviso questo progetto dovrebbe avere un duplice contenuto: il primo di carattere sociale, visto che la ripresa economica sta avvenendo all’insegna di una ulteriore precarizzazione del lavoro, giustamente denunciata da Landini. La pandemia ha aggravato le disuguaglianze, serve un nuovo patto sulle tutele del lavoro.
Il governo in questo anno non ha agito adeguatamente?
Il tema sociale non mi è parso in cima all’agenda, ed è la comprensibile ragione dello sciopero di Cgil e Uil. Anche se contro di loro si è scatenato il finimondo.
Lei non si è sorpreso dello sciopero generale?
Non c’era motivo di sorpresa. Può sorprendersi solo chi è disinteressato alle condizioni di vita dei lavoratori. I dati confermano le ragioni dei sindacati.
Il Pd che si è sorpreso ha sbagliato? O lo ha fatto perché riteneva comunque equilibrata la manovra?
Il Pd e la sinistra dovrebbero fare leva sul malcontento sindacale per incidere sull’agenda di governo. Mi sembra che il ministro Andrea Orlando abbia iniziato a porre temi importanti e certamente questo capitolo mi sembra fondamentale nel finale della legislatura.
Qual è l’altro capitolo di questo ipotetico programma 2023?
Gli atti di messa a terra del Pnrr, la selezione dei progetti, l’attribuzione dei fondi, altrimenti rischiamo che una parte di quei soldi non vengano spesi. A questo va aggiunta la riforma della legge elettorale.
In senso proporzionale?
Sì, sul modello tedesco. Oggi il problema, a differenza degli anni Novanta, non è favorire l’alternanza, ma ricostruire la rappresentanza e la mediazione politica, almeno se vogliamo restare una democrazia parlamentare. Sarebbe saggio fare una riforma del genere, introducendo anche il principio della sfiducia costruttiva.
Ci sono le condizioni per un programma così ambizioso?
Le condizioni sono date dagli uomini. Ripeto: la destra vuole Draghi al Quirinale per poi andare al voto.
E il centrosinistra?
Non è chiaro, non riesco a capirlo.
I 5 stelle sono storicamente per il proporzionale.
Mi sembra un’idea saggia.
Quale maggioranza sarebbe adeguata per questo governo di fine legislatura? Si può fare
anche senza Lega e Forza Italia?
Non vedo la possibilità di una maggioranza ristretta. E mi pare difficile mantenere una maggioranza larga senza Draghi. Non è un compito facile arrivare al 2023 se il premier viene eletto al Quirinale.
Ha fatto rumore il suo annuncio di un vostro rientro nel Pd.
Non ho annunciato “il mio rientro”. Ho detto che sono favorevole alla ricostruzione unitaria di una forza progressista. Mi dispiace di avere creato imbarazzo, che le mie parole siano apparse sgarbate, ma sinceramente ero convinto che si trattasse di uno scambio di auguri tra amici e non di una manifestazione pubblica. Su Italianieuropei ho scritto che «la netta cesura rispetto a un recente passato non propriamente brillante ha restituito al Pd una maggiore credibilità sul piano politico ed etico». Questo evidentemente qualcuno non lo aveva letto non lo ha letto nessuno, ma lo pensiamo in tanti. E non dovrebbe essere considerato un insulto dagli attuali dirigenti del Pd.
Rientrare è per voi l’ammissione di una sconfitta?
Non c’è dubbio che uscendo dal Pd non siamo riusciti a costruire una forza robusta della sinistra: sì, è una sconfitta. Non che non possa esserci tout court una forza a sinistra del Pd: vedo che c’è un accordo tra Sinistra italiana e Verdi, credo che lo spazio per una sinistra radicale e ambientalista ci sia. E credo sia utile. Per questo faccio gli auguri. Ma non è il mio mestiere.
Perché?
Noi siamo un pezzo della sinistra riformista e di governo, credo ci siano tutte le condizioni perché Speranza e gli altri compagni partecipino alla ricostruzione di una forza della sinistra. Per quanto mi riguarda ho già chiarito molte volte che non ambisco a nuovi ruoli politici.
La scissione è stata un errore?
C’è bisogno da parte nostra di una riflessione seria. Ma anche il Pd deve rendersi conto di cosa non funziona nel profondo: è figlio di una visione ottimistica della globalizzazione, la stessa forma partito è frutto di quell’impianto: un partito leggero che naviga sull’onda della società, aperto, non ideologico, post novecentesco. Tutte queste espressioni lievi sono oggi completamente fuori dal tempo: mentre noi disarmavamo, la destra guadagnava terreno con un messaggio ideologico e brutalmente novecentesco come il nazionalismo e persino l’etnocentrismo. Di fronte al bisogno di protezione noi abbiamo offerto ai cittadini la levità.
Un nodo molto più profondo rispetto alla «malattia» renziana da lei denunciata.
Lasciamo stare Renzi. Il punto è quale fondamento dare al processo di ricostruzione di una forza progressista. Da questo deriva anche la forma partito. Spero che le “Agorà” discutano anche di questo se vogliamo ri-radicare la sinistra nel popolo. Altrimenti restiamo il partito della parte privilegiata della società, ceti urbani acculturati, che non hanno bisogno di protezione. Il punto è creare un ponte tra questa e la parte più fragile della società, l’unica forza che sta a cavallo tra le due è il sindacato, ma è rimasto solo. Una grande battaglia contro la precarietà del lavoro sarebbe un primo ponte fondamentale da costruire. Senza un messaggio di riscatto sociale, senza suscitare una speranza, la sinistra non va da nessuna parte. C’è un rapporto anche fisico da ricostruire, il partito come forma organizzata».
Pensa che il Pd, anche depurato dal renzismo, sia in grado di fare tutto questo?
La politica si basa sulla presunzione di essere in grado, altrimenti ci si occupa d’altro. Il politico deve rispondere sì, andare avanti malgrado tutto. Certo, servono gruppi dirigenti che si pongano questo problema.
I dem non hanno molto gradito l’annuncio del suo ritorno
E pensare che mi ero posto in modo amichevole, avevo espresso un giudizio positivo sulla direzione di marcia del Pd…se avessi detto io le cose che ha detto Zingaretti al momento delle dimissioni chissà come avrebbero reagito. E invece quando le ha dette lui hanno fatto finta di nulla.
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Kazakistan. Le crisi in Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e tra Armenia e Azerbaijan sono viste dagli Usa come occasioni per destabilizzare la Russia odierna fastidiosamente alleata della Cina
È singolare che gli Usa, ieri a colloquio a Ginevra con Mosca sulla questione Ucraina, minaccino sanzioni a Mosca ma non al Kazakhstan dove i russi e i loro alleati sono intervenuti a fianco del presidente Tokayev che ha messo in galera 8mila oppositori e fatto dozzine di morti nella repressione della rivolta.
Una rivolta che appare sempre di più una resa dei conti con il vecchio regime del presidente dittatore Nazarbayev. Basti pensare che nella notte di martedì scorso ad Almaty la polizia è scomparsa dalle strade lasciando via libera a saccheggi e incendi: un messaggio inequivocabile che erano in due a dare gli ordini e uno doveva soccombere.
Biden in realtà è stato al fianco di Tokayev: “gli Usa sono orgogliosi di poterla chiamare amico”, ha scritto a settembre in un messaggio al presidente del Khazakstan, al di là delle dichiarazioni attuali che Washington “monitorerà i diritti umani” nel Paese. Come no: lì ci sono investimenti miliardari di Exxon e Chevron (c’è anche Eni). Questo interessa monitorare.
All’Occidente dei diritti umani in Kazakhstan non è mai importato nulla, se non fare affari con Nazarbayev. O ci siamo dimenticati che l’Italia nel 2013 deportò Alma Shalabayeva, moglie del’ex oligarca Ablyazov: un sequestro di persona per cui a Perugia adesso sono imputati cinque funzionari di polizia.
L’intervento russo difende anche questi interessi occidentali. Le multinazionali dell’energia e minerarie in questi anni hanno investito in Khazakistan 160 miliardi di dollari ma non significa che questo sia un Paese ricco, anzi gas e petrolio hanno accentuato le differenze di classe e di censo durante gli anni della dittatura di Nazarbayev. In troppi Paesi petroliferi come Iraq, Libia, Iran e Algeria, l’oro nero non ha portato quella ricchezza che tutti si aspettavano.
In realtà gli Usa si augurano di proteggere gli interessi energetici e minerari in Kazakhstan e allo stesso tempo sperano che i russi si impantanino in Kazakhstan. Insomma la botte piena e la moglie ubriaca: i problemi della Russia ai suoi confini devono mettere sotto pressione Mosca e far dimenticare il vergognoso ritiro americano dell’Afghanistan. Da tenere presente anche le frange locali jihadiste che possono essere strumentalizzate come avvenne in Uzbekistan nella valle di Ferghana oppure in Tagikistan durante la guerra civile tra clan, dove ci fu l’intervento dell’Armata Rossa. Quindi il terreno in Kazakhstan è favorevole sia alla destabilizzazione locale ma anche del regime di Putin. Non è una novità ma vale la pena tornare un attimo sul passato per capire cosa potrebbe accadere in futuro.
Nel 1978 Brzezinski, il consigliere di Carter, accolse un rapporto in gran parte elaborato dal celebre studioso Bernard Lewis – reso noto alla Trilaterale e al gruppo Bilderberg nel 1979 – in cui si sosteneva che l’Occidente dovesse incoraggiare i movimenti islamisti e i gruppi indipendentisti per promuovere la balcanizzazione del Medio Oriente e delle repubbliche musulmane dell’allora Unione Sovietica. Il disordine doveva sfociare in un arco della crisi, espressione che ebbe una grande fortuna.
L’invasione sovietica dell’Afghanistan diede un enorme impulso alla teoria di Lewis che vent’anni dopo fu anche l’intellettuale più influente nella decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003. Ma allora mancava un attore che oggi non si può ignorare: la Cina.
E ora la balcanizzazione torna di moda. Le crisi in Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e tra Armenia e Azerbaijan sono viste dagli Usa come occasioni per destabilizzare la Russia odierna fastidiosamente alleata della Cina. Questo è il nuovo arco della crisi dove gli Stati Uniti, ritirandosi dall’Afghanistan in fretta e furia, si sono liberati dell’ipocrita fardello di dovere “democratizzare” un Paese già in buona parte in mano ai talebani. Missione fallita è vero, ma adesso il campo è più libero per manovrare nel cuore dell’Asia centrale, ovvero sull’asse che unisce l’Eurasia. Torkayev, che sta facendo fuori i vertici della sicurezza fedeli a Nazarbayev, è tra l’altro una figura di raccordo interessante perché viene dall’élite sovietica, conosce molto bene la Cina (parla mandarino) ma all’Onu ha trattato anche per il bando dei test balistici ed è stato pure vicepresidente dell’Osce. Insomma sa muoversi tra i punti cardinali del potere. Ecco un altro motivo per cui piace agli americani: può servire al tavolo a pranzo e a cena.
Perché il vero problema strategico del Kazakhstan e dell’Asia centrale, dal punto di vista americano, non è soltanto la Russia ma la Cina. Una componente fondamentale della strategia della Cina di Xi Jinping consiste nel superamento della dipendenza del commercio estero di Pechino dalle rotte marittime che possono essere bloccate dagli Usa e dai suoi alleati. Per questo gli accordi Cina-Russia sulla Belt and Road Initiative (Bri) sono importanti: oggi il 90% del commercio terrestre cinese con l’Europa avviene attraverso il territorio russo e centro-asiatico.
Fino alla rivolta del Kazakhstan, Mosca sembrava relativamente tranquilla riguardo alla stabilità e alle ingerenze esterne in Asia centrale ma adesso sente ancora di più tutto il peso di essere il principale garante della sicurezza degli stati della regione. Putin qui è sotto osservazione non solo degli Usa ma anche della Cina che vuole “strade sicure” per il suo commercio.
Ecco perché i colloqui di Ginevra fanno parte di un dossier più ampio, quello del “nuovo arco della crisi”, che oltre alla Russia coinvolge anche Pechino come convitato di pietra. Putin è quello che si gioca la posta più alta: a Ovest le tensioni sull’Ucraina possono spingere Svezia e Finlandia nella Nato e a Oriente deve dimostrare alla Cina di essere il vero “guardiano” dell’Asia centrale.
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