La figura del logo, che richiama “questa bella d’erbe famiglia e d’animali” cantata dal Foscolo in odio alla morte e ai suoi sepolcri, si libra illesa su un mare di fuoco in un poliedro che è la Terra circondata dal cielo di Giotto. L’immagine è tratta da un manoscritto miniato armeno recante le concordanze tra i quattro Vangeli, eseguito per lo scriptorium patriarcale del katholikos Costantino I nel XIII secolo, ora custodito nel Paul Getty Museum di Los Angeles. L’allusione agli Armeni evoca il primo genocidio del Novecento, monito a ricordare che i genocidi passati e presenti sono i padri dell’attuale resistibile ecocidio.
L’appello “ai Pacifici” di Michele Santoro e Raniero La Valle per la formazione di un corpo politico che dia rappresentanza al Popolo della Pace, difenda e custodisca la Terra e rivendichi la Dignità di ogni creatura
Pubblichiamo l’intervento che Raniero La Valle, a nome suo e di Michele Santoro, ha pronunciato all’assemblea “E se spuntasse un Arcobaleno?” tenutasi il 26 agosto 2023 alla Versiliana di Marina di Pietrasanta.
Prima di tutto vorrei ringraziare Michele Santoro che con la sua straordinaria capacità di convocazione e lettura degli eventi, ci ha riunito in questa grande assemblea. Siamo qui per dare voce a un sogno, un sogno comune, suo e mio, e credo anche vostro, il sogno che finalmente appaia un Arcobaleno. L’Arcobaleno è un simbolo potente, perché unisce la terra col cielo. Sul cielo noi non abbiano giurisdizione, ma sulla Terra sì; e sulla terra che cosa vorremmo che questo Arcobaleno segnasse e portasse? Vorremmo tre cose, prima di tutto la Pace; la Pace non ha nulla al di sopra di sé, la pace è sovrana, la pace non ha scambi da fare con alcuna altra cosa al mondo, è la condizione di tutto, quella per la quale viviamo, speriamo ed amiamo. E la seconda cosa è proprio la Terra, questa Terra che ci stanno togliendo da sotto i piedi, questa terra infuocata, questa Terra dove si rompono le acque, questa Terra dove si accendono i fuochi, dove bruciano le foreste, dove finisce l’ossigeno, questa Terra che è la nostra madre, la dobbiamo recuperare, difendere, salvare. E la terza cosa è la Dignità, la Dignità delle persone che l’hanno perduta, a cui non viene riconosciuta. Pensate solamente ai migranti, non solo sono abbandonati al mare, ma prima ancora di essere lasciati al naufragio e alla morte sono negati nella loro dignità, vengono scambiati per denaro, si va a Tunisi a dire: “quanti soldi volete per non fare arrivare i migranti da noi?”. Allora queste tre cose, la Pace, la Terra e la Dignità sono le cose che noi vorremmo a questo Arcobaleno chiedere, perché si riversino qui sulla Terra. L’Arcobaleno è anche un segno polivalente, perché l’Arcobaleno può sorgere in qualunque punto del cielo. Noi vorremmo che sorgesse qui in Italia, in Occidente, dove giacciono i nostri valori, ma può sorgere anche altrove; io ricordo, nel 1987, avevamo una rivista che si chiamava “Bozze”, e facemmo un titolo così: se la Pace viene dall’Est. Allora erano altri tempi, c’era Gorbaciov, la Russia si chiamava in un altro modo, però in quel momento c’era la guerra atomica, c’era il pericolo dell’ecatombe nucleare, ma da lì venne la proposta di “un mondo senza armi nucleari e non violento”. E quindi l’Arcobaleno può sorgere oltreoceano, può sorgere qui da noi, può sorgere nel Sud del mondo, o può sorgere all’Est.
E allora per realizzare questo sogno, Santoro ed io, insieme, facciamo un appello. Non lo facciamo solo ai pacifisti, non è roba di pacifismo; noi abbiamo molta gratitudine per i pacifisti che hanno tenuto alta la fiamma della Pace in questi anni di guerre e di guerre. Però questo appello va al di là dei pacifisti. Noi facciamo un
APPELLO
Ai Pacifici, che sono una moltitudine. Ai figli di Dio che prendono la Terra per madre, Ai resistenti perché nessun volto sia oltraggiato e la Dignità sia riconosciuta a tutte le creature, Agli eredi di milioni di uomini e donne che hanno lottato per il lavoro, per l’emancipazione e per la libertà dal dominio pubblico e privato, A quanti si ribellano al sacrificio – c’è questa ideologia del sacrificio – ci rivolgiamo a quanti si ribellano al sacrificio degli uni per il tornaconto degli altri. Ai giovani che abbiamo perduto, a cui non abbiamo saputo garantire il futuro.
È questo un appello che affidiamo agli organizzati e ai disorganizzati, ai militanti di tutti i partiti, agli elettori di tutte le liste e agli assenti dalle urne, agli uomini e donne di buona volontà e a quelli di deluse speranze, a quanti godono di buona fama e a chi soffre di una cattiva reputazione, agli inclusi e agli scartati .
Noi ci rivolgiamo a Voi non perché siamo da più di voi, ma perché siamo Voi.
Noi vogliamo dare una rappresentanza a tre soggetti ideali che ancora non l’hanno o l’hanno perduta, a tre beni comuni che tutti dovrebbero curare e difendere in questi tempi di ferro, tre beni comuni che sono il “minimo sindacale” o il “minimo politico” da rivendicare per tutti: Anzitutto la Pace, da cui tutto dipende, nella quale viviamo, speriamo e amiamo, una pace da istituire come ordinamento originario e sovrano come lo è stata finora la guerra; in secondo luogo la Terra, da salvare come madre comune di tutti; e infine la Dignità da rispettare di ogni creatura.
Quanto alla PACE, tutti dicono di volere la pace nel mondo, ma questa non si può nemmeno pensare se prima non finisce questa guerra in Europa, dunque è una seconda pace, ed è una bugia quella di chi dice di volere la seconda pace se non vuole e impedisce la prima.
Noi sappiamo invece che LA PACE DEL MONDO è politica, imperfetta e sempre a rischio. Essa è assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire non rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati, implica prossimità e soccorso nelle situazioni di distretta e di massimo rischio a tutti i popoli.
E sappiamo che l’antagonista alla pace non è semplicemente la guerra, ma è il sistema di guerra che ormai è diventato il vero sovrano e “padre di tutti”, tanto che comanda ogni cosa, pervade l’economia e domina la politica anche quando la guerra non c’è o non è dichiarata. Noi infatti siamo in guerra, ma avete forse sentito che le Camere abbiano deliberato lo stato di guerra, secondo l’art. 78 della Costituzione? E forse Mattarella ha dichiarato lo stato di guerra, secondo l’art. 87 della Costituzione? E intanto la guerra d’Ucraina non riesce a finire, benché in essa entrambi i nemici già ne siano allo stesso tempo vincitori e sconfitti. Una vittoria l’ha avuta infatti l’Ucraina che è diventata la star del mondo, è stata adottata dalla NATO e, pur tributaria dell’Occidente, non ha perduto la sua sovranità. Ma ha vinto pure la Russia perché ha fronteggiato la NATO, non è stata ridotta alla condizione di paria, come Biden voleva, né è stata espulsa dal consorzio mondiale.
Tuttavia la guerra ha anche inflitto alla Russia, all’Ucraina e all’America una severa sconfitta. Alla Russia perché con l’aggressione ha compromesso il suo onore. All’Ucraina perché chi, governandola, la doveva difendere l’ha gettata in una fornace di fuoco ardente, le famiglie sono divise perché gli uomini sono trattenuti per combattere mentre in tutti i 72 distretti di reclutamento, come è stato rivelato, la corruzione ha permesso a molti di sottrarsi alle armi e la controffensiva ucraina è fallita. Ma sconfitta è stata anche l’America perché non ha raggiunto i suoi scopi, ha profuso miliardi che peseranno sul suo debito, mentre viene messo in gioco il monopolio del dollaro negli scambi mondiali, la sua vera ricchezza, né essa potrà conseguire quel dominio globale che si riprometteva debellando la Russia per poi far guerra alla Cina. E a pagare le spese della guerra siamo anche noi, i veri corrotti e sconfitti nel giudicarla e darne conto.
Ma se già sono arrivare vittorie e sconfitte, perché questa guerra non finisce? Non finisce perché la guerra d’Ucraina, così ben piantata nel cuore dell’Europa per rialzare la vecchia cortina sul falso confine tra Occidente ed Oriente, è funzionale o addirittura necessaria al sistema di guerra, e perciò gli stessi negoziati sono stati proibiti.
Dunque, prima di tutto la Pace. Il secondo bene da salvare è la TERRA. La terra è in pericolo, essa non è un patrimonio da sfruttare, un ecosistema da aggredire, ma la casa comune da custodire, da tornare a rendere abitabile per tutte le creature, da arricchire con i frutti del nostro lavoro e le opere del nostro ingegno. Essa è oggi in attesa di una nuova nascita e soffre le doglie del parto.
Infine, il terzo assillo è LA DIGNITÀ, degli uomini, delle donne e di tutte le creature. La dignità da difendere è quella della libertà e della ragione, del lavoro e del tenore di vita, la dignità del migrante per diritto d’asilo e del profugo per ragioni economiche, del cittadino e dello straniero, dell’imputato e del carcerato, dell’affamato e del povero, del malato e del morente, della donna e dell’uomo e, nel loro ordine, di ogni altra creatura.
Dunque abbiamo tre beni da salvare, come i “tria bona” di cui parlano i monaci di Camaldoli, lì dove qualche giorno fa è andato il presidente della Repubblica per ricordare il “codice di Camaldoli”. Ma prima di tutto noi vogliamo la pace e ciò che è oltre la pace, e lo chiediamo a chi gestisce il potere, anche ai partiti. Noi non neghiamo rispetto e stima ai partiti e alle loro personalità più eminenti, ma sappiamo che essi non possono affrontare la totalità delle sfide e che in quanto partiti non sono tali da farsi carico di tutte le parti della realtà.
Perciò senza ignorare i partiti, prendiamo partito. Il nostro è un PARTITO PRESO per la pace, la Terra e la dignità, e a queste vogliamo dare una rappresentanza, una presenza, in tutte le sedi.
Non aspiriamo alla stanza dei bottoni, ma la vorremmo più aperta e trasparente, non ci affascinano i Palazzi ma i Parlamenti. Vorremmo una scuola che non trasformi i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è[1], ma in padroni della parola, coscienti e cittadini. Amiamo i valori dell’Europa e dell’Occidente ma congiunti a quelli di ogni altra tradizione e visione, non pretendiamo un mondo a nostra misura, tanto meno uniformato al modello di “democrazia, libertà e libera impresa”, che si è voluto esportare con le guerre umanitarie e per procura, consacrando così l’”economia che uccide” e la guerra che è incompatibile con la democrazia e che anche prima del nucleare devasta la Terra. Non vogliamo il “decennio di competizione strategica” progettato in America fino alla “sfida culminante” con la Cina. Pensiamo a una comunità internazionale placata e garantita da un costituzionalismo mondiale. Resistiamo al dominio e rifiutiamo la lotta per l’egemonia. Nei confronti di quanti oggi lasciamo in balia del mare e che noi, da soli o con l’Unione Europea, respingiamo o ”ricollochiamo” nei lager e nei deserti, non è alla “sostituzione etnica” che dovremmo imprecare, ma è piuttosto alla sostituzione etica della nostra idea di confini, di identità e di supremazia che dovremmo provvedere.
Il nostro è dunque un appello per dare vita a una grande
Assemblea permanente
il cui obiettivo sia una politica che prenda in mano il mondo non per farne un impero delle armi e del denaro ma per preservarlo e fare sì che la natura sia salva e che la storia continui.
un’Assemblea permanente per rovesciare il corso delle cose presentI e preparare un altro avvenire per l’Italia e per l’ Europa.
un’Assemblea in cui tutti parlino e tutti ascoltino, un’Assemblea che mandi suoi rappresentanti in tutti i luoghi delle decisioni, che partecipi a tutte le elezioni, che abbia eco nelle università, nelle scuole, nei palazzi del potere, e susciti nuovi pensieri e progetti alternativi così nelle riunioni dei partiti come perfino nell’Assemblea dell’ONU.
Si avvicinano le elezioni europee e risuona per l’Europa la domanda gridata da papa Francesco: “Dove vai Europa?”. Essa ha tradito le ragioni della sua unione abbandonando gli ideali per cui è nata, che è il patrimonio di quanti hanno resistito all’idea di Europa voluta da Hitler, fino al sacrificio dei maquis in Francia, dei partigiani in Italia, dei ghigliottinati e impiccati in Austria e in Germania.
È materia di discussione se e come questo soggetto politico nascente dovrà avere un suo ruolo nel confronto elettorale, in ogni caso lo dovrebbe fare non vivendo le elezioni come una competizione all’ultimo voto, nella consueta logica dello scontro tra amico e nemico. Perché non dovrebbe essere possibile nella competizione elettorale muoversi come Alexander Langer chiedeva per il confronto politico, in modo “più lento, più profondo, più dolce”? la si dovrebbe affrontare in effetti in modo inclusivo, cercando tutte le convergenze appropriate e avendo per obiettivo il cambiamento dell’Europa, perché si faccia protagonista dello stabilimento della pace sulla Terra.
Questo cambiamento implica anche l’aggiornamento delle culture e dei linguaggi, l’abbandono degli stereotipi e delle parole usurate, Bisognerà rovesciare le priorità, per essere credibili, bisognerà dire non “prima Noi” ma “prima gli ultimi”, perché se si salvano gli ultimi si salvano anche i primi, bisognerà dire che ogni straniero è cittadino, che ogni patria straniera è nostra patria, e ogni patria è straniera. E dovremmo operare perché tutto ciò si faccia ordinamento con le sue Costituzioni, le sue leggi, le sue garanzie e le sue giurisdizioni per tutta la terra.
Infine vorrei citare un altro sogno, di David Maria Turoldo, un grande poeta e amico nostro, traendolo da una sua poesia dedicata a Rigoberta Menchù, un’india del Guatemala che ha lottato per i diritti del suo popolo maya e delle altre minoranze oppresse, e per questo ha ricevuto nel 1992 il Premio Nobel per la pace. Rigoberta aveva raccontato questa storia in un libro intitolato “Mi Chiamo Rigoberta Menchù” e padre Turoldo le aveva dedicato una ballata dallo stesso titolo, prendendola a simbolo del riscatto dei poveri e della lotta per la pace. Io vorrei citare questa ballata cambiando semplicemente il nome di Rigoberta Menchù nel nome di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni con la maglietta rossa, di etnia curda, che fu trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, dopo un naufragio che almeno quella volta commosse il mondo, un gommone che fu travolto e annegarono in molti, anche un suo fratello e la mamma.. Questa famiglia, fuggita dalla guerra in Siria, non aveva ottenuto di poter emigrare in Canada, e per rifugiarsi in Europa aveva osato un tragico passaggio in mare; dunque il piccolo Alan con la maglietta rossa è un simbolo di tutti e tre i beni che abbiamo perduto o stiamo perdendo: la pace, la Terra, e la dignità delle persone, la dignità sia di quanti sono rifiutati e diventano residui umani nel mare, come pane spezzato che noi abbandoniamo ai pesci dicendo: “prendete e mangiate”, sia di chi li respinge e li scambia per denaro.
Commenta (0 Commenti)GOVERNO. Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure […]
Migranti sbarcano dall'Ocean Viking al porto di Napoli - Ansa
Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure di stampo esclusivamente repressivo che già in passato hanno dimostrato un totale fallimento. Gli annunci sembrano mirati ad esigenze elettorali ed al riaggiustamento dei rapporti di forza all’interno del governo, piuttosto che alla soluzione di problemi che vengono definiti «epocali».
La proliferazione dei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) in ogni regione, di fatto con un raddoppio dei posti disponibili (oggi meno di 1.200), e ulteriori strutture di detenzione amministrativa per le procedure accelerate in frontiera, da riservare ai richiedenti asilo che provengono da paesi terzi ritenuti sicuri, come la sezione detentiva del nuovo hotspot di Pozzallo-Modica, che dovrebbe aprire il primo settembre, come la stretta sulle procedure di rimpatrio e sui criteri per l’accertamento dell’età dei minori non accompagnati, con una modifica di quanto previsto dalla legge Zampa del 2017, sono tutte misure che, al di là dei gravi problemi di legittimità costituzionale e di conformità con la normativa europea ed internazionale, sono destinate, non solo a «deludere sul piano dell’efficacia», come sostiene una parte dell’opposizione, ma a produrre in pochi mesi una emergenza umanitaria senza precedenti.
SULLA PELLE delle persone più deboli che comunque arriveranno sulle nostre coste, e comunque resteranno nel nostro paese, in condizioni di assoluta incertezza, anche se si può dare come scontato un leggero calo delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia per il peggioramento delle condizioni atmosferiche in autunno. Calo che però potrebbe essere compensato da un aumento dei migranti, forzati a lasciare quei due paesi, per una nuova deflagrazione militare della crisi libica, e per l’inasprimento della persecuzione nei confronti dei migranti subsahariani, da parte della Tunisia di Saied, principale partner della politica estera e migratoria italiana in nordafrica. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni a Lampedusa, a Porto Empedocle ed in tanti centri di prima accoglienza in Italia. E con gli effetti a catena in Libia, ancora spezzata in due tra il governo «provvisorio» di Dbeibah a Tripoli, ed il Parlamento di Tobruk sostenuto dal generale Haftar a Bengasi.
INTANTO la legittimazione internazionale strappata da Dbeibah con la firma del Memorandum d’intesa Ue-Tunisia, fortemente voluto da Meloni, è servita per rigettare nel deserto al confine con la Libia centinaia di persone rastrellate nelle aree urbane della Tunisia sud-orientale (soprattutto a Sfax). E proprio da quei territori si sono moltiplicate le partenze verso l’Italia, a cui ha fatto seguito il congestionamento totale dell’hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Altra crisi umanitaria innescata dal governo Meloni, e dal ministro dell’interno Piantedosi, perché allontanando con l’assegnazione di «porti vessatori» e con «fermi amministrativi» le navi del soccorso civile che potevano sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali in diversi porti di destinazione in Sicilia e Calabria, se non con trasbordi su unità della Guardia costiera italiana, è saltata qualsiasi possibilità di programmare gli sbarchi, dopo i salvataggi in mare, ed i trasferimenti via terra, come si verificava nel 2017, prima del Memorandum Gentiloni con la Libia, e prima del Codice di condotta per le Ong imposto da Minniti. Ormai, su oltre 76.000 persone sbarcate quest’anno, soltanto poco più di 4.700 persone sono state recuperate da navi del soccorso civile. Nel 2016, a fronte di oltre 178.000 persone soccorse in mare, le navi delle Ong ne avevano salvate direttamente 46.796, secondo i dati uficiali della Guardia costiera, adesso oscurati. Il cosidetto pull factor, fattore di attrazione operato dal soccorso civile, su cui hanno costruito campagne elettorali e processi penali non è mai esistito. Lo hanno accertato anche i giudici, lo confermano i fatti.
La maggior parte degli «sbarchi» sono ormai «autonomi», magari con l’assistenza a distanza di unità della Guardia costiera o della Guardia di finanza in acque internazionali, e poi con veri e propri interventi di salvataggio nelle acque Sar di competenza italiana. Mentre continua la sostanziale delega alla sedicente guardia costiera libica quando le chiamate di soccorso arrivano dalla zona Sar assegnata al governo di Tripoli. Rimane il grande buco nero della zona Sar maltese, nella quale La Valletta non invia mezzi di soccorso, e possono arrivare anche i libici a sparare sulle navi delle Ong. Ma tutto questo viene ignorato da chi sventola come unica soluzione un nuovo Decreto sicurezza.
Vediamo così che mentre una parte dell’opposizione attacca il governo lamentando la scarsa efficacia degli interventi e degli accordi che dovrebbero garantire una riduzione degli arrivi, le scelte del governo non divergono troppo da quelle inaugurate con il secreto Minniti-Orlando del 2016, sul terreno delle procedure di asilo e della detenzione amministrativa, e poi rafforzate con i due decreti sicurezza Salvini che nel 2018 destrutturavano i sistemi di accoglienza, e nel 2019 criminalizzavano i soccorsi umanitari.
NON È FACILE fare proposte, che pure ci sarebbero, con una opposizione tanto divisa e incapace di autocritica, ed un governo che, attraverso la maggioranza assoluta in parlamento riesce a fare passare norme in aperto contrasto con la Costituzione e con gli obblighi internazionali. Il ruolo del parlamento è sempre più marginale a vantaggio delle iniziative dei ministri. Ci si lamenta del mancato supporto europeo, ma poi, anche sul piano energetico, si opera secondo una linea politica marcatamente nazionalista, come emerge nei rapporti con la Tunisia e con il governo di Tripoli, fino al disastro diplomatico del recente incontro a Roma, organizzato da Tajani, tra il ministro degli esteri israeliano e la ministra degli esteri del governo Dbeibah, costretta alla fuga in Turchia per gli scontri che ne sono scaturiti in tutta la Libia. Ed anche su questo si comprime il diritto all’informazione.
In ogni caso dovrà ripartire una forte mobilitazione per una regolarizzazione permanente di tutti quanti sono tagliati fuori dalle procedure di ingresso legale per lavoro, per il superamento dei centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, per garantire i diritti fondamentali, a partire dai diritti di difesa e dal diritto di chiedere protezione (nelle varie forme di asilo costituzionale) a tutte le persone «comunque presenti» in Italia, dopo il loro ingresso nel territorio nazionale, dunque anche nelle procedure di identificazione e di protezione «in frontiera» come impone anche l’articolo 2 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98. E quindi sarà necessaria la sospensione immediata della lista dei paesi terzi ritenuti, spesso a torto, «sicuri» con la revisione di tutti gli accordi di riammissione o di cooperazione di polizia con quei governi che non rispettano effettivamente i diritti umani.
La lotta ai trafficanti si può fare ripristinando davvero la cooperazione giudiziaria, non certo patteggiando con le milizie colluse con i criminali. Non si potranno creare per decreto legge zone franche escluse dal rispetto delle garanzie dello stato di diritto, in Nordafrica, ma anche in Italia. Oggi questo vale per le persone di origine straniera, domani potrebbe valere anche per i cittadini italiani
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Incontro segreto in Italia tra i due nemici storici, Israele e Libia. Ma Tel Aviv rivela tutto e fa scoppiare il caos. Tripoli brucia di protesta, Biden è furioso. Il ministro degli esteri Tajani ne esce a pezzi: si è fatto beffare da uno dei suoi migliori alleati e non ha ancora capito la Libia
ISRAELE/LIBIA. La Farnesina responsabile di una fallimentare manovra diplomatica, con lo zampino statunitense. A uscirne danneggiate sono Roma e la Tripoli di Dabaiba, già debolissima
Il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani - Ansa
Come se non bastassero l’indomabile instabilità libica (55 morti in scontri tra fazioni tripoline a cavallo di ferragosto) e la tragica questione dei migranti, il ministro degli esteri italiano Tajani ha favorito la scorsa settimana un incontro segreto a Roma tra il capo della diplomazia israeliana e la ministra libica Mangoush (data per «sospesa» e in «viaggio» verso la Turchia).
Gli israeliani sui media hanno fatto trapelare la notizia ed è scoppiato un putiferio in Libia: sono esplose le proteste popolari – anche manovrate ad arte – e soprattutto l’esecutivo di Daibaba, quello con cui tratta Roma, appare sempre più in difficoltà.
INSOMMA, l’Italia e il suo alleato libico sono caduti in una trappola assolutamente da evitare. Se gli Stati Uniti – che finalmente dopo oltre due anni di assenza hanno inviato un ambasciatore a Roma – intendono allargare il Patto di Abramo tra Israele e i Paesi arabi forse è il caso di lasciarlo fare a loro: a noi non ne viene in tasca nulla (anzi), se non una medaglietta per un governo che discetta di un fantomatico Piano Mattei per l’Africa senza neppure avere i
Commenta (0 Commenti)Si può condividere o meno la tesi proposta ieri al meeting di Rimini da Sergio Mattarella e cioè che sono state l’amicizia e l’armonia tra i popoli e tra le classi a far progredire l’umanità e non invece il conflitto. Si può accettare o meno l’idea che il dibattito pubblico sia decaduto al punto che un presidente della Repubblica debba replicare alle trivialità di un generale ansioso di fama. Ma certamente il discorso del capo dello stato fischia la fine della ricreazione estiva. I problemi della politica sono tutti sul tavolo e la ripresa è dietro l’angolo.
Al termine di un’estate in cui gli esponenti del governo e della maggioranza – a dispetto di un ostentato desiderio di relax – hanno sperimentato nuove crudeltà sui migranti, confermato l’allergia all’antifascismo e coniugato in parole e opere il verbo di una politica antisociale e in definitiva nemica dei poveri, il presidente della Repubblica rovescia il quadro. Proietta un altro film i cui fotogrammi fondamentali sono le parole chiave del suo discorso: ricchezza delle diversità, no ai muri, solidarietà, antifascismo e Costituzione. La contrapposizione non potrebbe essere più netta. Non c’è (ancora) polemica diretta, perché il capo dello stato ha come stella polare la tutela della sua funzione e del suo ruolo. E perché a ogni strappo che questa destra produce sulla tela repubblicana regge ancora il gioco del silenzio, da parte della presidente del Consiglio, e delle mezze smentite riparatrici, da parte della sua cerchia. Ma fino a quando?
La coabitazione, perché di questo si tratta, tra un presidente della Repubblica guardiano della Costituzione e una maggioranza a-costituzionale – con la frequente tentazione di scivolare nell’anticostituzionale – si è fin qui nutrita soprattutto di segni. Trattenendo oltre ogni ragionevole limite il disegno di legge sulla giustizia e chiamando al Quirinale i vertici della Cassazione, Mattarella ha segnalato in silenzio la sua distanza dalle scelte del governo. Ricevendo i presidenti di senato e camera ha sottolineato la sua insoddisfazione per il ripetersi di decreti e maxiemendamenti, malgrado i suoi precedenti richiami.
Stressando la matrice neofascista della strage di Bologna, il Quirinale ha coperto l’afonia di palazzo Chigi. Parlando della necessità di canali di ingresso legali nel nostro paese e ricordando il dovere costituzionale dell’accoglienza, il presidente ha proposto un regolare controcanto a ogni più truce uscita di leghisti e meloniani. Potremmo continuare.
Lo stile di questo presidente della Repubblica – che ha davanti a sé un mandato ancora lungo, più di quello (teorico) del governo – è consolidato. Non prevede interferenze nell’azione del potere esecutivo. Punta invece sulla moral suasion, accompagnata quando serve da gesti e discorsi pubblici molto chiari accolti (come ieri) dal silenzio della maggioranza. Ormai, però, il presidente deve sempre più spesso intervenire per queste pubbliche correzioni di rotta. E non potrà che continuare, perché le difficoltà del governo sul terreno concreto dell’economia sposteranno inevitabilmente capi e sottocapi della destra sul terreno simbolico delle battaglie identitarie sui diritti e sui valori, precisamente quello che il capo dello stato presidia con più attenzione. Ancora, a metà ormai tra il concreto e il simbolico sta il tema della riforma costituzionale, utile com’è ai governanti anche per parlar d’altro. Al Quirinale sanno benissimo quanto la sgangherata ipotesi di premierato elettivo che la destra mette in campo sia minacciosa delle prerogative del presidente della Repubblica, quanto e più del tramontato presidenzialismo.
Nella versione italiana della coabitazione, non è il capo dello stato, come in Francia, la figura investita dal mandato popolare. Il discorso di Rimini di Mattarella conferma la distanza del presidente dall’agenda pratica e simbolica del governo. Conferma d’altro canto anche la sua estrema cura nell’evitare contrapposizioni. Eppure questo equilibrio di sottintesi diventa ogni giorno più precario
Bruno Trentin ci ha lasciato in questo giorno di agosto, 16 anni fa. Va ricordato per il ruolo nella Fiom, nella Cgil, nel Pci-Pds- Ds e per l’attualità delle sue riflessioni. Anzitutto il suo impegno a misurarsi con l’innovazione tecnologica ed organizzativa per le conseguenze che ha sulla condizione di chi lavora, reinventando su basi nuove la costruzione di una autonomia dei “produttori”, per liberare il lavoro dalla frantumazione ripetitiva che lo rende debole, subalterno.
I quaderni e i resoconti di Bruno Trentin
Le innovazioni ispirate da Trentin a partire dal convegno del Gramsci sul capitalismo nel 1962 furono molte, dalle 150 ore per la fondamentale riappropriazione culturale e professionale dei lavoratori alla riaggregazione delle funzioni lavorative per superarne la parcellizzazione, fino alla riforma del lavoro pubblico per ridargli senso e ruolo nella società. Innovazioni per una risposta non subalterna, man mano che la qualità del lavoro diventava strategica per la competitività. Oggi c’è un altro salto nelle innovazioni tecnologiche ed organizzative. I “sacerdoti” delle innovazioni prefigurano un futuro etero diretto dall’intelligenza artificiale in cui ci sarà meno lavoro umano. In realtà il nocciolo è la ulteriore restrizione del potere decisionale, in una rarefatta lontananza, come ci ricordano gli algoritmi che dilagano in diverse funzioni e campi, con la costante dell’imposizione nella vita e nel lavoro.
E’ una balla che non sia possibile arrivare alla comprensione di ciò che l’algoritmo descrive e ad una sua rideterminazione, ma la sfida è lacerarne il manto di imperscrutabilità che vuole far passare la subalternità e la passività per oggettive, inevitabili. Trentin non ha potuto misurarsi con la sfida dell’intelligenza artificiale, ma la sua riflessione, il suo metodo ci aiutano a trovare il sentiero dell’autonomia per chi lavora e a contrastare gli elementi di autoritarismo e di presunta inevitabilità, per affermare il principio che chi lavora è un cittadino con pieni diritti, in coerenza con la Costituzione.
Trentin è stato segretario della Cgil in una fase tormentata. Nel 1992 governo Amato e classi dirigenti puntarono a slegare il recupero dell’inflazione, già alta, da quella importata, programmando la riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni, in vista di una svalutazione. Anche oggi il governo mette in conto la riduzione delle retribuzioni e delle pensioni (anche dei risparmi) a fronte di una guerra le cui conseguenze stanno frantumando il mondo in nuovi blocchi, generano inflazione spingendo in secondo piano la transizione ecologica che non è più obiettivo centrale per le resistenze di settori delle imprese e di interessi (fossili e armamenti) che non vogliono cambiare questo modello di sviluppo per contrastare la catastrofe climatica. Invece è vitale invertire la corsa agli armamenti, alla guerra, che comporta il rischio dell’olocausto nucleare. Le soluzioni richiederebbero anche oggi un programma che fu lo scatto di reni di Trentin per superare la crisi del sindacato, rifondandolo, oltre le appartenenze partitiche che ne erano state elemento costitutivo e poi ne hanno segnato il declino.
La risposta alla crisi fu il sindacato di programma, oltre le certezze passate, scommettendo sulla capacità dei lavoratori di scegliere il sindacato per il progetto di società, non solo per le singole scelte rivendicative. Intuizione che ha avuto un valore rifondante per il sindacato, con l’ambizione di costruirne un ruolo chiave nel cambiamento dell’economia, della società, della vita stessa, ben oltre la sommatoria delle rivendicazioni. (…) Non accontentandosi di un angolo riparato ma con l’ansia di costruire un futuro per il lavoro dentro una società migliore, in cui i singoli vedano riconosciuti diritti e insieme esercitino un ruolo dirigente. Il fascino di Trentin era nel non dare nulla per scontato, un pensiero mobile per correggere certezze obsolete, fino a trarre conseguenze radicali quando il rapporto di fiducia con i lavoratori entrava in crisi.
Le dimissioni del 1992 dopo avere firmato l’accordo (che aveva cercato di evitare) con il governo vennero ritirate a fronte di una richiesta crescente nella Cgil di ripensarci per provare a risalire la china tutti insieme. Il ritiro delle dimissioni era legato al superamento delle correnti di partito e al sindacato di programma, aprendo così la strada ad un nuovo accordo l’anno dopo con Ciampi, in parte riparatore del 92. Nel 94 lasciò la segreteria della Cgil. Dal parlamento europeo (l’Europa era punto fermo) e dall’ufficio di programma Pds/Ds continuò l’impegno per rifondare il partito, la sinistra, la politica. Il sindacato aveva solo fatto i conti per primo con la crisi della politica
DISARMO. Nelle sale italiane il film sullo scienziato. La speranza è che stimoli a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale atomico globale rappresenta ancora per tutti noi
J. Robert Oppenheimer nel suo studio di Princeton nel 1957\Ap
Il film sulla figura di Oppenheimer, coordinatore scientifico del Progetto Manhattan, può essere una buona occasione per continuare a riflettere sul pericolo ancora oggi rappresentato dalle armi nucleari. Una consapevolezza riemersa dopo decenni di sottovalutazione (nei quali solo le organizzazioni della società civile hanno continuato a sottolineare la necessità di arrivare a un disarmo completo) a seguito dell’uso latentemente “ricattatorio” che Putin ne fa nel contesto della guerra in Ucraina.
Ben venga quindi aprire una finestra sul percorso che ha portato all’utilizzo come arma delle forze nascoste negli atomi (e poi nei nucleari), progetto inedito per complessità e dimensioni e di certo guidato da ingegni eccezionali. Senza però cadere in due errori che potrebbero essere gravi: pensare che tutto questo, e ciò che ne è seguito per decenni, sia da ascrivere solo a personalità straordinarie mentre invece è il frutto di un processo allargato su vari livelli, che riecheggia davvero quella “banalità del male” troppo spesso dimenticata.
E, soprattutto, dimenticare la questione più grave e concreta: gli impatti sulle persone, non solo in Giappone ma anche in tutti quei luoghi in cui sono stati condotti i circa 2.000 test nucleari dal 1945 in poi.
IN PRATICA occorre evitare di farsi trascinare nei soli incubi personali del fisico protagonista di questa biografia per immagini: il vero delirio è stato (e continua ad essere) collettivo. Tanto più che Oppenheimer, tormentato per anni da visioni di funghi atomici su città e ondate di radiazioni distruttive come conseguenza della potenza che il suo lavoro stava scatenando come moderno vaso di Pandora, non poteva nemmeno avere la consapevolezza degli scenari ancora peggiori che gli studiosi hanno potuto elaborare successivamente.
Rabbia e atomica, guerra nucleare mai così vicina dal 1945
Oggi infatti sappiamo che una singola guerra nucleare, anche una combattuta con sole poche decine di testate, potrebbe mandare la Terra in uno stato apocalittico chiamato inverno nucleare (un raffreddamento anche di 15 gradi indotto da un inquinamento così forte da bloccare i raggi solari) con miliardi di persone che morirebbero di fame. Senza dimenticare che buio, freddo e radiazioni nucleari distruggerebbero gran parte della vita animale e vegetale della Terra.
Gli analisti ritengono che una guerra nucleare tra Stati uniti e Russia potrebbe far morire di fame cinque miliardi di persone, cioè un numero di vittime più di dieci volte superiore a quelle che morirebbero per gli effetti diretti delle bombe lanciate. Una guerra nucleare di minore entità tra India e Pakistan porterebbe invece a una scenario con circa due miliardi di morti.
Oltre il ricordo di una storia di certo spartiacque nella storia umana, il film di Christopher Nolan avrà una reale utilità culturale solo se porterà gli spettatori a domandarsi perché nel XXI secolo esistano ancora armi nucleari, come potrebbero essere usate e le motivazioni di chi continua a volerle. Rigettando ogni deriva di “fascinazione” per la grande impresa tecnologica realizzata che un racconto così epico potrebbe invece generare.
La genialità scientifica è infatti inevitabilmente accompagnata da fallimenti e fragilità umane. E le scelte di molte persone se corrotte da ego, potere e ambizione, possono plasmare la storia portandola quasi alla folle autodistruzione. Senza però dimenticare che il Gadget – soprannome della prima bomba fatta esplodere nel luglio del 1945 durante il Trinity Test – e tutti gli ordigni a esso successivi sono strumenti costruiti dall’umanità che possono (devono!) essere smantellati dall’umanità.
LA SPERANZA è che anche questo film stimoli molti a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale nucleare globale rappresenta per tutti noi, ancora oggi. Rendendosi conto che un qualsiasi uso di armi nucleari (anche se presentato come razionale, o derivante dalla falsa teoria della deterrenza) sarebbe una catastrofe senza limiti per la quale non sarebbe possibile alcuna gestione emergenziale.
E in questo l’opera di Nolan commette un grave errore: concentrandosi così intensamente sul dramma di una persona riduce ad aspetto secondario gli effetti reali della devastazione nucleare su esseri umani in carne e ossa, sui loro cari, sulle loro case, città, terre, acque e clima. Che invece sono fondamentali.
Mancano all’appello l’esproprio delle famiglie locali e delle popolazioni indigene a Los Alamos, la mancanza di misure di protezione per le popolazioni sottovento al fallout del Trinity Test (che oggi sappiamo aver coperto quasi tutti gli Stati uniti arrivando fino al Canada e al Messico) che ha causato per decenni malattie legate alle radiazioni e persino la morte di due scienziati del Progetto Manhattan.
E ovviamente l’incenerimento degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki con bombe lanciate espressamente per causare il massimo numero di vittime umane: due armi nucleari di dimensioni tattiche relativamente piccole per gli standard odierni) capaci di uccidere 230mila persone. Nessuna considerazione sulle armi nucleari dovrebbe essere separata da ciò che tali armi effettivamente provocano.
Perché invece le elucubrazioni del potere sui temi legati allo sviluppo di armamenti cercano sempre di massimizzare i “vantaggi” politici e strategici (spesso più teorici che reali) eliminando dall’equazione le persone e i popoli.
Lo dimostra la stessa storia del Progetto Manhattan, la cui motivazione di base derivava dal timore che la Germania nazista fosse in vantaggio nello sviluppo della bomba atomica e che, se fosse arrivata prima, non avrebbe esitato a usarla con effetti terrificanti. Ma già alla fine del 1944 era diventato chiaro come il programma tedesco fosse in fase di stallo per nulla vicino ad ottenere un ordigno funzionante.
Perché a quel punto il progetto statunitense non fu abbandonato? Perché ormai l’investimento politico, finanziario e scientifico che vi era stato riversato aveva acquisito uno slancio tale da farlo proseguire a pieno ritmo in una maniera ormai inarrestabile. Solo uno degli scienziati coinvolti, Joseph Rotblat, in seguito insignito del Premio Nobel per la pace per i suoi sforzi a favore del disarmo, ebbe l’integrità e il coraggio morale di abbandonare il Programma quando le ragioni per cui era stato istituito, e per cui lui stesso vi si era associato, svanirono.
L’USO della bomba contro il Giappone non faceva parte di tali ragioni originarie e già nel 1944 l’obiettivo politico principale del programma era diventato quello di massimizzare l’influenza e il potere postbellico degli Stati uniti d’America contro l’Unione sovietica.
Progetto Manhattan, la scienza cattiva che non muore mai
Addirittura fino al primo test nucleare Trinity del 16 luglio 1945 vi era incertezza scientifica sulla possibilità che l’esplosione potesse incendiare l’atmosfera terrestre e porre fine alla vita sulla Terra (fino all’ultimo momento lo stesso Enrico Fermi aveva raccolto scommesse a riguardo…): anche se l’evidenza scientifica lo considerava molto improbabile, il fatto che il test sia stato condotto nonostante non si potesse escludere una possibilità così devastante è profondamente inquietante. E significativo: come si è potuto decidere di correre un rischio così terribile?
Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, Oppenheimer e molti altri scienziati del Progetto Manhattan erano profondamente preoccupati per le implicazioni del frutto del loro lavoro sul futuro dell’umanità: “L’atomo lacerato, non controllato, può essere solo una minaccia crescente per tutti noi”, scrisse profondamente convinto che l’accesso alla bomba atomica si sarebbe inevitabilmente allargato in assenza di un controllo internazionale.
Non a caso in una conferenza stampa del marzo 1963 l’allora presidente degli Stati uniti John F. Kennedy disse chiaramente: “Vedo la possibilità che negli anni Settanta il presidente degli Stati uniti debba affrontare un mondo in cui 15 o 20 o 25 nazioni possano avere armi nucleari. Lo considero il più grande pericolo e rischio possibile”. Tra questi c’era anche l’Italia, con il proprio programma nucleare militare implementato vicino a Pisa.
UNA STRADA ben diversa, e ancora oggi pericolosa, da quanto scritto invece nel 1948 da Robert Oppenheimer: “Se la bomba atomica doveva avere un significato nel mondo contemporaneo, doveva essere quello di dimostrare che non l’uomo moderno o i suoi eserciti, ma la guerra stessa era obsoleta. Cosa si può fare con questo terribile sviluppo per renderlo uno strumento per la conservazione della pace?”.
Per decenni non si è fatto nulla ma ora non c’è più tempo da perdere: le armi nucleari sono “kamikaze globali” che potrebbero colpire tutti. Sono state create in maniera collettiva, perciò anche la loro totale eliminazione dalla storia dovrà nascere da uno sforzo allargato, in cui tutti (persone, comunità, istituzioni) sono chiamati a dare il proprio contributo.
*Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne Rete Pace Disarmo e autore del libro “Disarmo nucleare”
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