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Intelligence, Lucio Caracciolo al Master dell’Università della Calabria: “Il controllo dei mari sará al centro dei conflitti presenti e futuri. Decisiva la questione di Taiwan”

Lucio Caracciolo: «Un continente da ravvivare»

 Il deep state tra Geopolitica e intelligence” è il titolo della lezione tenuta da Lucio Caracciolofondatore e direttore di “Limes”, al Master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri.  

Caracciolo ha descritto le due principali aree di tensione geopolitica: una di dimensioni più contenute relativa al conflitto in Ucraina, definita “guerra russo-americana”; e l’altra relativa alla sfida strategica sino-americana.

Il docente ha messo in evidenza che gli Stati Uniti, nella rappresentazione che intendono dare di sè stessi, pur non utilizzando la terminologia riconducibile al concetto di “impero”, si presentano come una “nazione missionaria provvidenziale”, il cui interesse coincide con quello dell’intera umanità.

Questa vera e propria “vocazione” di cui si sentono investiti “ha mosso, ha legittimato e ha autogiustificato le molte guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto a partire dalla loro esistenza e in particolare nel Novecento.

Infatti, a partire dal 1898 con la guerra ispano americana, quando gli Stati Uniti conquistarono le Filippine, è iniziato un percorso di crescita egemonica che li ha visti diventare una potenza mondiale, dominante dalla seconda guerra mondiale in poi

Caracciolo ha poi osservato come lo spazio imperiale degli Stati Uniti si basi su due elementi: sul controllo delle rotte marittime, che rappresenta la conditio sine qua non per assicurarsi un decisivo vantaggio nella competizione economica, e sull’isolamento territoriale.

A proposito, il docente ha sottolineato come l’impero americano goda di una situazione di cui nessun altro impero abbia mai beneficiato nel corso della storia, ovvero l’impossibilità di essere attaccati via terra.

Nell’ambito della supremazia americana, la nostra nazione ha un ruolo di “friend and alley“, come vengono definiti gli alleati della Natogarantendo agli Stati Uniti l’installazione di basi militari oggetto di trattati segreti che garantiscono agli U.S.A. una libertà di azione “incontestabile e decisiva. 

Il docente ha quindi sottolineato come la conseguenza che deriva dalla necessità di mantenere la posizione di “fattore benefico dell’umanità” sia quella di impedire che nel continente euroasiatico nasca una potenza che possa sfidarli e mettere in discussione il loro primato.

Tale fattore ha spinto gli Stati Uniti ad intervenire nelle due guerre mondiali, per poi, dopo il 1945, “stabilizzare la loro presenza tramite l‘alleanza atlantica“. 

Caracciolo ha qllora sottolineato che la sfida principale ad oggi, per gli Stati Uniti, è quella rappresentata dalla Repubblica Popolare Cinese che “si presenta in modo esplicito, da quando è stata rifondata nel 1949, come una potenza globale”, la cui dimensione oceanica è più “importante che mai“, nella sua ambizione di diventare grande potenza e riprendere il controllo dei propri mari

Per la Cina la sfida è dunque rappresentata dal “controllo delle rotte marittime che la collegano con il resto del mondo” e, per raggiungere tale scopo, occorre respingere gli Stati Uniti dalla loro area di influenza marittima.

Il docente si è poi soffermato sull’importanza del fattore demografico, considerando la posizione della Federazione Russa, il cui territorio è caratterizzato da uno spazio terrioriale molto vasto, che copre ben undici diversi fusi orari, ma abitato da una popolazione molto scarsa tanto da rendere “la Russia asiatica più un oggetto di competizione che non un soggetto”. 

Caracciolo ha sottolineato come tale criticità potrebbe effettivamente portare la Russia, in caso di sconfitta nella attuale guerra con l’Ucraina, a perdere grandi spazi territoriali, contribuendo a spingere la Russia aconsiderare in gioco la sua stessa esistenza“.

Passando poi ad analizzare la posizione del nostro Paese, il docente ha rilevato come quello relativo alla fragilità demografica sia uno dei problemi più urgenti, di cui però non ci si occupa a sufficienza

A rendere evidente la gravità della situazione sono le proiezioni demografiche per continente al 2100, da cui si evince con chiarezza che già nel 2025 i continenti maggiormente popolosi saranno Africa ed Asia, mentre risulta evidente il declino europeo “con popolazione destinata a decrescere da qui alla fine del secolo”

Con questi rapporti demografici, non sarà più sostenibile “che l’attuale sistema di potere nato nel Novecento possa reggere da solo le sorti dell’intero pianeta”, continuando a prevedere un mondo unipolare,

Che è il mondo fino ad oggi perseguito dalla politica americana, che rappresenta invece “qualcosa di chimerico, qualcosa di impossibile o addirittura un sogno pericoloso perché, essendo irrealizzabile, se perseguito provocherebbe delle conseguenze catastrofiche”.

definendo il teatro indopacifico, il docente si è soffermato sulla rappresentazione che la repubblica popolare cinese intende date dinsè stessa come continuazione comunista di un impero millenario dei figli del drago, ovvero di un ceppo etnico fortemente radicato nella storia.  

L’obiettivo cinese è pertanto quello di assumere il controllo dei mari, nel tentativo di sfidare gli Stati Uniti per l’egemonia mondiale. 

Per attuare una strategia di contenimento dell’aspirazione cinese, gli Stati Uniti hanno garantito la loro presenza in tale area installando basi aereonavali nelle Filippine ed in Giappone, che, con India ed Australia, fa parte del cosiddetto Quad, l’alleanza militare strumentale all’egemonia americana per il contenimento della potenza cinese. 

In tale scenario risulta estremamente rilevante l’arcipelago indipendente di  Taiwan, che per la sua posizione strategica rappresenta il “cuore del dilemma del controllo delle grandi rotte oceaniche”

Taiwan, che formalmente ha mantenuto fino ad oggi il nome di Repubblica di Cina, sta attuando una dismissione del patrimonio storico e culturale cinese, con la contestuale valorizzazione di quello taiwanese, in palese ottica di contrapposizione alla Cina.

Gli Stati Uniti fungono da potenza garante nella piena consapevolezza che chi controlla Taiwan controlla le rotte marittime commerciali

Caracciolo ha sottolineato che è fondamentale ricordare che “la partita degli stretti oceanici sarà il cuore degli interessi geopolitici dei prossimi anni” e che per gli Stati Uniti questo è il cuore dello scontro, mentre il teatro dell’ucraina rimane secondario. 

A tal proposito, il docente ha rappresentato i possibili scenari degli sviluppi del conflitto europeo, sottolineando la dimensione marittima dell’Ucraina e la possibile volontà da parte della Russia di chiuderne gli sbocchi sul mare, che rappresentano importanti rotte commerciali verso il Mar Nero e la rotta artica, ma che per la Russia hanno anche un valore simbolico rappresentato da Sebastopoli.

In riferimento al conflitto ucraino, Caracciolo ha rilevato come, nonostante “le comunicazioni mediatiche facciano apparire questa guerra come se non ci tocchi direttamenteil nostro Paese subisca, in realtà, implicazioni notevoli.

 L’invio di armi in Ucraina, senza che peraltro siano state rese pubbliche tipologia e quantitàrischia di indebolire notevolmente il nostro arsenale militare, andando ad intaccare il nostro potenziale di difesa senza, tra l’altro, avere le capacità finanziarie per riarmarci”.

Altrettanto rappresentano per l’economia nazionale le sanzioni, pur non avendo significativamente intaccato l’economia russa, che ha continuato a crescere grazie alla disponibilità di paesi cosiddetti triangolatori, con un volume di importazione e scambi che non rileva particolari sofferenze. 

Facendo riferimento all’inchiesta del giornalista americano Seymour Hersh, che attribuisce agli Stati Uniti il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, Caracciolo ha poi sottolineato che una delle cause fondamentali di questo conflitto è la volontà da parte degli Stati Uniti di interrompere definitivamente l’interdipendenza energetica tra Italia, Germania e Russia. 

Ciò evidenzia il significato geopolitico più che quello economico, dal momento che gli accordi di intesa energetica tra Russia e Germania erano guardati con sospetto dagli Stati Uniti fin dall’epoca della guerra fredda. 

In futuro gli approvvigionamenti di gas saranno garantiti dall’Azerbajan, per compensare almeno in parte la perdita del gas del Nord Stream, e dall’Algeriache apre una sorta di paradosso, poiché le forze armate algerine sono fortemente dipendenti dalle forniture militari russe.

Infine, Caracciolo, riferendosi al posizionamento dei Paesi Europei, ha rilevato come non esista un fronte univoco antirusso nella Nato, dal momento che vi sono posizioni differenti connesse al percorso storico di ciascuna nazione

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CONGRESSO PD. La/il nuova/o leader avrà di fronte un compito arduo ma ineludibile: inventare nuove procedure di discussione, partecipazione e decisione democratica, che diano al Pd quella che un tempo si chiamava agibilità politica

 Il voto in un gazebo per una tornata di primarie del Pd - foto Ansa

Alla vigilia delle primarie del Pd, è possibile delineare un primo bilancio di quanto accaduto. Un primo elemento di giudizio riguarda il carattere che si voleva dare al percorso congressuale: semplicemente, non c’è stato nulla di propriamente costituente. E ciò è accaduto perché, sin dall’inizio, non si è voluto costruire un processo che non avesse esiti predefiniti.

L’esito (provvisorio) della nota vicenda del nuovo “Manifesto dei valori” (approvato, ma senza che sostituisse il vecchio!) costituisce una rappresentazione plastica dei dilemmi identitari di questo partito.

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Per molte settimane, in assenza di testi su cui si potesse discutere, c’è stato il vuoto: e di fatto, com’era facile prevedere, tutto è precipitato nella competizione tra i candidati, affidata alle interviste. Si è potuto capire meglio il profilo politico delle diverse proposte solo quando sono state presentate infine le mozioni dei candidati, all’inizio di febbraio. Ma anche quando sono emerse nero su bianco, quel che ha caratterizzato gran parte del dibattito è stata una bizzarra incongruenza. I vari candidati (in misura diversa) si sono soprattutto impegnati a presentare proposte di policy, come se si trattasse di illustrare un programma di governo. Ma un congresso dovrebbe prima di tutto servire a definire l’idea di partito, i principi a cui ci si ispira, la cultura politica che fa da cornice ai programmi, il modello di democrazia interna e di partecipazione, la strategia delle alleanze (sì, anche questa: non la si può eludere, rimandandola a chissà quando!).

E’ giusto riconoscere che nelle mozioni e nei discorsi di Cuperlo e Schlein ci sono stati elementi che vanno in questo senso, ma nel complesso non si può non notare questo appiattimento della discussione sul terreno delle “politiche”. La “politica” ha un po’ latitato.

Alla fine, al di là della significativa diversità tra i candidati, emerge un elemento che è un dato di lunga durata, nella vita del Pd: una notevole povertà del livello di elaborazione politica e intellettuale che ha caratterizzato, nel suo complesso, e continua a segnare la cultura politica diffusa, la “cassetta degli attrezzi” concettuali e analitici, con cui dirigenti e militanti riflettono sul loro stesso lavoro politico.

Detto ciò, come leggere il risultato di domenica? Decisivo, anche qui, il livello della partecipazione. Nel 2019, il rapporto tra voti degli iscritti e votanti alle primarie fu di circa 1 a 8,5: si può dunque presumere che, con 150 mila votanti tra gli iscritti, venga toccata la soglia del milione di votanti. Un salto di scala che potrebbe rendere ininfluenti gli scarti percentuali registrati nel primo voto. La grande incognita è questa: chi saranno mai tutti questi elettori? Da chi sarà composto il “corpo sovrano”, mutevole e indistinto, volatile e inafferrabile, chiamato a dare questa investitura plebiscitaria? Che tipo di “circolazione extra-corporea” si attiverà? Si possono formulare alcune ipotesi.

Primo punto: il Pd è stato percepito, in tutti questi anni, come il partito-sistema, che ha gestito molto potere, al centro e in periferia. Senza voler dare alla questione un tono moralistico, è indubbio che un partito siffatto attira molti gruppi di interesse e cordate di potere. Domanda: ma un partito catch-all che sta diventando catch-little, è in grado ancora di attivare queste filiere? Le forze che si sono allontanate da destra sono ancora interessate alla competizione interna al Pd?
Secondo punto: la novità sta nel fatto che una candidatura “anomala” come quella di Elly Schlein sta scommettendo proprio sulla riattivazione di una base elettorale esterna e chiaramente connotata a sinistra che, nel corso degli ultimi dieci anni, si è dispersa e allontanata dal Pd. I segnali che arrivano sembrano indicare un fenomeno di ri-mobilitazione: fino a dove potrà giungere?

Infine, i rapporti di forza che emergeranno dal voto non sono indifferenti rispetto alla successiva tenuta del partito. Oggi i due candidati non possono fare altro che promettersi lealtà reciproca: ma certo non potranno controllare i comportamenti di decine di migliaia di loro elettori. Distacco, delusione, risentimenti, convenienze: potrà accadere di tutto e di più, dopo, chiunque vinca. La/il nuova/o leader avrà di fronte un compito arduo ma ineludibile: inventare nuove procedure di discussione, partecipazione e decisione democratica, che diano al Pd quella che un tempo si chiamava agibilità politica; ovvero, un modello di democrazia interna che permetta il formarsi di distinte, e vere, aree di cultura politica e renda praticabile e produttiva la battaglia politica interna. L’unico modo per provare ancora a tenere insieme questo partito. Perché certo non lo potrà fare di per sé un leader (sulla carta) legittimato dal popolo delle primarie, ma di fatto (come la storia del Pd dimostra) fragile e vulnerabile

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A UN ANNO DALL'INIZIO DELL'INVASIONE DELL'UCRAINA. Da Bolzano a Palermo passando per Napoli e altri capoluoghi, marce, fiaccolate e manifestazioni contro la politica in armi. Sostegno alla popolazione ucraina ma anche attenzione agli altri conflitti nel mondo dallo Yemen al CongoIl popolo della pace si mobilita in oltre 120 città Manifestazione per la pace - Ansa

Se le consideriamo in ordine alfabetico si parte da Acireale e si arriva a Zagarolo. Ma è davvero coperta tutta la Penisola: da Bolzano a Palermo (dove ieri sono scesi in piazza migliaia di studenti), da Torino a Bari passando per Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e praticamente tutti i capoluoghi di regione. Sono le oltre 120 città coinvolte nelle manifestazioni promosse dalla coalizione Europe for Peace per l’anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina, causata dall’invasione decisa da Putin.

INIZIATIVE che hanno preso avvio già nei giorni scorsi con diversi appuntamenti, in particolare la marcia notturna tra Perugia e Assisi, e che culminano in queste ore con momenti davvero significativi. Già abbiamo visto le migliaia di persone, con tantissimi giovani, presenti nelle fiaccolate, marce e presidi di Palermo, Cagliari, La Spezia, Ivrea, Genova, Padova, Modena, Potenza, Reggio Calabria, Sassari, Reggio Emilia, Torino, Verona… nella città scaligera erano presenti anche le tre giovani attiviste nonviolente da Russia, Bielorussia e Ucraina che saranno protagoniste anche del grande evento a Brescia domenica 26 febbraio.

A BOLOGNA uno degli appuntamenti più significativi anche per gli interventi in programma: il cardinal Matteo Zuppi, il sindaco Lepore e Giulio Marcon di Sbilanciamoci in

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Non condivido la rappresentazione della sinistra come ormai persa ad ogni progetto di trasformazione del Paese, delle lotte sociali in Italia come più arretrate rispetto a quanto accade in Francia o in Inghilterra.

E’ senz’altro così se si resta dentro una concezione tutta politicista della sinistra e la si misurar solo sulla base dei risultati elettorali, o se ci si dimentica della straordinaria giornata del 5 novembre dove un vasto fronte, dalla Cgil ai cattolici di Sant’Egidio, ha dato vita all’unica grande manifestazione europea per la pace. Se si gira un po' tra i congressi della Cgil, o fra i siti in cui si esprimono i giovani di Fridays for future, o quelli che collegano fra loro le varie Ong e le associazioni che si occupano di salvare e accogliere i migranti, ci si accorge che esiste un vasto popolo molto preoccupato per la vittoria della destra, e del mix perverso fra neoliberismo e sovranismo, ma che non vive come propria la sconfitta elettorale della sinistra dei partiti, e continua a tessere idee e proposte per le mobilitazioni future, convinti che solo così è possibile arginare l’avanzata della destra, e costruire nel presente e nel futuro l’orizzonte di una altro mondo possibile.

Si sta formando nei fatti una vasta coalizione sociale, che lavora nel profondo delle coscienze di chi vi partecipa, abbattendo progressivamente gli steccati che hanno finora diviso gli operai dagli ambientalisti, il popolo delle differenze e quello dell’uguaglianza. Contano soprattutto su se stessi e sulla loro capacità di iniziativa sociale, ma non sono indifferenti alla politica istituzionale, perché sanno che a quel livello si giocano alcune partite che possono avere effetti drammatici per la continuità del loro impegno. Avere un governo che non fa partire le comunità energetiche, che continua a incentivare la produzione e l’uso delle energie fossili, o che legifera per rendere più difficile il lavoro delle Ong e che perpetua anziché ridurre gli accordi criminali con la Libia, che estende il precariato, o che addirittura assiste indifferente alle aggressioni squadriste contro gli studenti, come a Firenze, non è certo una questione indifferente.

Contro queste cose sono pronte a mobilitarsi. E anche a votare alle elezioni. Ma l’ incapacità dei partiti del centro e della sinistra, la loro incapacità di

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IL LIMITE IGNOTO. «È vero, c’è la legittima difesa. Ma dov’è il suo limite? E quindi qual è il limite degli aiuti militari? Questa è la domanda che dobbiamo porci, e la risposta è complessa»

Il presidente della Cei Matteo Zuppi: «Costruire dialogo, non risposta militare» La grande manifestazione per la pace del 20 marzo 2022 a Berlino - Ap

In quest’ultimo anno il mondo cattolico ha rappresentato uno spezzone importante del movimento per la pace, sabato scorso a Bologna è stato rilanciato l’appello di oltre cinquanta associazioni e movimenti cattolici per chiedere ai governi italiani – finora senza successo – di aderire al Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari e anche oggi molti cattolici sono in piazza a manifestare contro la guerra con quello che  resta della sinistra pacifista. Ne abbiamo parlato con il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana.

Dopo un anno di guerra non si parla più di negoziato ma solo di impegno per la vittoria. Siamo in un vicolo cieco?
È veramente pericoloso non investire più nella ricerca della pace. Nei primi mesi di conflitto ci sono stati alcuni tentativi di incontro fra le delegazioni di Russia e Ucraina, ma la via del dialogo è stata interpretata da molti come un favore all’uno o all’altro. Invece non è così. La guerra è una sconfitta per tutti. Il dialogo è l’unica strada per un cessate il fuoco, per

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Aldo Schiavone firma il funerale del lavoro e del socialismo, spogliati di ogni valenza simbolica, sostituiti da diritti universali e uguaglianza redistributiva

Dopo la fine della storia, arriva il de profundis sulla lotta di classeIllustrazione di Pedro Scassa

Potremmo sorvolare sull’ultimo libretto di Aldo Schiavone (A Sinistra. Un Manifesto, pubblicato da Einaudi) prendendolo come l’ennesima profezia di “fine del lavoro” fra le tante già clamorosamente smentite dalla storia: ricordate “La fine del lavoro” del futurologo Rifkin? Uscì nel 1995 e fu immediatamente seguito – per l’ingresso della Cina nell’arena mondiale – da quella che si sarebbe rivelata addirittura una quadruplicazione delle forze di lavoro globali. Se non fosse, però, che le tesi di Schiavone vengono riprese da vari zelanti commentatori e perfino da esponenti politici, come Walter Veltroni e Stefano Bonaccini, con voce in capitolo importante nel dibattito che si è aperto intorno al futuro della sinistra italiana e in particolare del Pd, impegnato in un congresso non di routine.

Schiavone fa conseguire da quella che ritiene la vittoria generalizzata del capitalismo, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la fine del lavoro come “valore unificante”, da questa la dissoluzione delle classi e da entrambe il tramonto del socialismo (storicamente scopo e strumento della lotta di classe). Di conseguenza, l’idea di sinistra che residua deve essere disgiunta da quella di classe e deve essere collocata nel solo perseguimento dell’universalità e dell’eguaglianza, quest’ultima, a sua volta, scissa e disarticolata dall’idea di lavoro, ridimensionando anche il significato dell’articolo 1 della Costituzione italiana (dandone un’angusta interpretazione “lavoristica”, quando siamo di fronte a un grande progetto di rifondazione antropologico-strutturale).

Sul capitalismo faccio solo alcune osservazioni: 1) a livello diacronico una sua caratteristica fondamentale è la spinta irrefrenabile al cambiamento, la quale dà luogo a continue metamorfosi, più importanti dello stesso capitalismo in quanto tale; 2) a livello sincronico sussiste una “pluralità” di capitalismi (variety of capitalism) e capirne e apprezzarne le differenti tipologie e strutture consente di realizzare differenziati rapporti capitale/lavoro, una delle cui forme è rappresentata dal capitalismo scandinavo profondamente influenzato dalla socialdemocrazia.

Sul lavoro e sul socialismo mi sembra semplicemente imperdonabile ignorare il pensiero e le analisi assai innovative che si vengono accumulando in Europa (e non solo), per esempio dalla scuola di Francoforte in Germania, a partire da Habermas, e dai suoi accoliti in Francia e in Italia. Axel Honneth costruisce la sua teoria del “riconoscimento” sul lavoro – visto come una pratica altamente simbolica oltre che materiale, attraverso cui i soggetti esperiscono e riconoscono la loro reciproca dipendenza e sviluppano un sentimento di appartenenza comune acquisendo la consapevolezza di essere membri di una comunità sociale – e coltiva un’idea di socialismo lontana dal duplice determinismo dei marxismi tradizionali: quello derivante da una filosofia della storia gravitante sulla lotta di classe come motore automatico della trasformazione e quello economico-tecnologico spinto dalle contraddizioni oggettive fondamentali.

Per Honneth bisogna riferirsi ai primi socialisti i quali, attraverso la scoperta di una contraddizione assai profonda tra un’interpretazione restrittiva della libertà limitata all’egoismo privato e all’individualismo – tipica del liberalismo conservatore – e l’ideale di una comunità “fraterna” e “solidale” intrinseco alle categorie della Rivoluzione francese, erano risaliti alla intensa carica normativa dei principi costitutivi dell’illuminismo e si erano dimostrati perfettamente consapevoli della loro dipendenza normativa dalle innovazioni rivoluzionarie attribuendo al socialismo proprio il compito di risolvere quella contraddizione, realizzando l’essere solidali, cioè non solo “l’uno con l’altro” ma “l’uno per l’altro”.

Si trattava di un compito morale, non limitato alla subordinazione della sfera economica alle direttive sociali o alla questione di una giusta ripartizione delle risorse, perché investente la sfera dei valori e delle strutture primarie, in particolare la reale realizzazione del binomio libertà/fraternità, il che richiedeva di sovrapporre all’idea di imporre un sistema di redistribuzione più giusto. l’accesa speranza di istituire una nuova “forma di vita”.
Sono queste le ragioni per cui Honneth pensa a una sorta di socialismo a forte valenza morale: “L’intuizione normativa alla base del primo socialismo – egli scrive – spinge ben oltre la visione tradizionale della giustizia redistributiva”, perché spinge alla costruzione di “rapporti sociali nei quali le finalità della Rivoluzione francese – libertà, eguaglianza, fraternità – si realizzano in modo tale da coadiuvarsi reciprocamente, risolvendo l’enigma scaturente dalla necessità di conciliare i tre principi”.

Anche oggi, “tramontata l’idea di una tendenza immanente del capitalismo all’autodistruzione e quella di una classe automaticamente portatrice di una società nuova”, un socialismo rinnovato non può non nutrirsi di una “corposa concezione etica”, in grado di indurlo a ricorrere a una ricerca di tipo sperimentale che valorizzi le spinte all’autodeterminazione politica e i “bisogni di intimità emotiva e fisica”, pensandosi come “forma di vita ‘sociale’” incardinata sul binomio libertà/solidarietà esaltante la relazionalità e l’intersoggettività, dense di potenzialità inespresse.

Tutto ciò comprende l’eguaglianza ma va oltre, perché solo in un disegno nuovo e simbolicamente motivato di sviluppo umano, oltre le mere istanze redistributive, la problematica della diseguaglianza può evitare di concentrarsi quasi esclusivamente sul destino dei poveri, degli “ultimi”, dei “diseredati” e fare spazio all’attenzione ai bisogni e alle crescenti difficoltà dei ceti medi, i quali rimangono pur sempre “il nerbo della democrazia”.

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