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COMMENTI. Ritengo il Pd largamente responsabile di questa differenza di opzioni che ci troviamo difronte e che apparentemente sembra una stravaganza incomprensibile

Il mio voto disgiunto: Majorino in Lombardia, Bianchi nel Lazio Illustrazione di Gaetano Leonardi

Ho pensato che sia giusto dirsi, fra lettori e affezionati del manifesto del Lazio e della Lombardia, per chi ognuno di noi domenica voterà e perché. Un tempo era scontato, oggi no. Dirselo e spiegarselo reciprocamente forse aiuta tutti. E così comincio io con la mia dichiarazione di voto.

Io, qui a Roma, voterò per una sigla sconosciuta sebbene quelli che rappresenta siano conosciutissimi. Si chiama Polo progressista, e più sotto è scritto “Sinistra ecologista”, più sopra “Donatella Bianchi (ex presidente del Wwf) presidente della regione Lazio”, candidata scelta dai 5Stelle con cui in questa tornata Sinistra italiana è alleata.

Pochi giorni fa ho partecipato, a Milano, all’assemblea del c.d.Cocomero, la lista rosso-verde con cui ci siamo presentati alle elezioni politiche del 25 settembre, qui alleata col Pd. Anche questa volta con convinzione, e infatti non mi sento affatto in contraddizione, solo amareggiata perché ancora una volta non si è riusciti a stabilire un’ efficace alleanza in grado di contrastare la destra, ma anche di rappresentare un punto di riferimento tale da invogliare i milioni di persone che ai seggi nemmeno ci vanno, a tornare a credere che votare può forse aiutarle a vivere meglio.

Debbo dirvi che ritengo il Pd largamente responsabile di questa differenza di opzioni che ci troviamo difronte e che apparentemente sembra una incomprensibile stravaganza. E che tuttavia è invece, nelle condizioni date, per quell’area di sinistra in cui io mi riconosco, la sola opzione coerente.

In Lombardia una alleanza Pd, sinistra, verdi, 5Stelle si è potuta fare perché Calenda e Renzi hanno deciso di andarsene con la Moratti; perché c’è un buon candidato alla presidenza della regione, Majorino, un Pd che al Parlamento europeo, dove è deputato, ha quasi sempre votato come uno di sinistra. E Sinistra Italiana ha potuto presentarsi con il simbolo che l’ha già unita ai Verdi.

Sarebbe stato meglio che nello schieramento lombardo ci fosse anche il c.d. “terzo polo”? Si’, se si decideva di mettere in campo un fronte antifascista, in base alla stessa logica che spinse Togliatti a dar vita al Cnl. Il fascismo attualmente al governo evidentemente non appare oggi abbastanza pericoloso per suggerire una simile unità, del resto forse peggio esser condizionati da questo duetto detto “terzo” nelle scelte che nelle due Regioni si dovranno fare. A Milano oltretutto

Il nome del candidato presidente, è buono, e altrettanto buono è il cocomero visto che la lista è capeggiata, per i “verdi”, da Daniela Padoan, già alleata alle ultime europee nella lista “per Tsipras”, responsabile del gruppo “Laudato sì”; per i “rossi” da Onofrio Rosati, ex segretario della camera del lavoro di Milano. Per di più anche i 5Stelle fanno parte dell’alleanza.

Nel Lazio si sarebbe potuto fare la stessa cosa? Naturalmente sì, a condizione che il Pd anziché decidere tutto da solo con una arroganza che non ha più titoli per esser giustificata, avesse cercato un dialogo con le altre forze politiche, che avrebbe oltretutto dato ben altre possibilità di vittoria. Il dialogo c’è stato solo nientemeno che con Calenda e Renzi, proprio quelli che in Lombardia hanno preferito stare con la Moratti, e che danno dunque alla compagine un segno che non è quello dell’unità antifascista, ma quello di una precisa e pessima scelta politica. Agli altri – e cioè Sinistra italiana e 5Stelle (con cui peraltro il Pd era in giunta nel Lazio) – è stato solo detto a mezza bocca, dopo aver scelto in proprio il candidato presidente senza consultare nessuno: se volete venire anche voi potremmo farvi un po’ di posto. Dire no a questa proposta e appoggiare una lista che assume con la scelta del terzo polo un preciso equivoco significato politico, credo sia la scelta giusta.

E così a Roma voterò per il Polo progressista, oltretutto perché andando in giro per la campagna elettorale (io sono una veterocomunista e quando c’è una campagna elettorale mi viene naturale andare in giro ), ho scoperto un sacco di nuovi compagni bravi e simpatici che non avevo mai incontrato prima. Soprattutto compagne.

Domenica scorsa a Roma si è tenuta una fantastica assemblea in cui si sono presentate tutte le candidate del Polo progressista e dell’alleato 5Stelle. La sala era stracolma di donne, le candidate di Sinistra italiana e quelle dei 5Stelle molto molto omogenee nei loro propositi, affiatate. Quando hanno dato la parola anche a me, ho raccontato che in una delle vecchie campagne elettorali in cui per le prime volte si affacciarono i 5Stelle mi era capitato assai spesso che qualche compagna alla fine del mio discorso venisse da me e mi dicesse: ”sono totalmente d’accordo con quello che hai detto. E però voterò per i 5Stelle”. Alla mia reazione sconcertata rispondevano “perché c’è bisogno di un botto, di una rottura”.
Era l’epoca Renzi, e la reazione si poteva capire. Il tempo talvolta aiuta. Alle nuove alleate dei 5Stelle ho detto:”Per fortuna anche voi avete capito nel frattempo che destra e sinistra non sono uguali

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REVISIONISMI. Il cortocircuito memoriale nazionale consegna agli esponenti postfascisti il collaudato strumento di una retorica celebrativa autoassolutoria e vittimaria interamente centrata sulla rappresentazione rovesciata degli eventi della Seconda Guerra Mondiale

 

Nell’anno primo della destra postfascista alla guida del governo i già contradittori termini di composizione del calendario civile italiano, promulgato per legge con voti bipartisan dagli anni Novanta, hanno finito per coagularsi in una pallina impazzita. Schizzata da un lato all’altro della storia sfigurandone il profilo.

Ad avviarne la corsa è stata l’assessora all’istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan, che con una lettera alle scuole ha celebrato la «giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini» insensatamente istituita dal Parlamento nella scorsa legislatura il 26 gennaio – per la quale ha protestato, inascoltata, anche Liliana Segre. In quella data ricorre l’anniversario della battaglia di Nikolajewka in cui gli alpini, inquadrati nei reparti del regio esercito fascista che aveva invaso l’Urss, riuscirono ad aprirsi un varco dopo che l’Armata Rossa li aveva circondati nel corso della sua controffensiva. Nella storia impazzita tuttavia Donazzan può scrivere che «purtroppo già nel mese di dicembre i russi dilagano accerchiando le divisioni posizionate più ad est». Purtroppo per gli esiti della guerra nazifascista, per fortuna per i destini dell’umanità.

Negli stessi giorni il Presidente del Senato Ignazio Benito La Russa affermava: «non butterò mai il busto del duce [che conserva in casa e di cui ha fatto mostra pubblica ai giornalisti]. È un regalo di mio padre». Il fatto che Mussolini sia stato il dittatore del nostro Paese è concetto che non sfiora i pensieri della seconda carica dello Repubblica nata dalla Resistenza. Sarebbe pensabile per un suo omologo tedesco esporre un busto di Hitler a favore di stampa e restare al suo posto? È anche il contesto a favorire un abuso pubblico della storia ormai senza filtri.

Nella settimana della Giornata della Memoria del 27 gennaio su una testata online della stampa italiana si è riusciti a scrivere (torcendo il passato ad uso di un presente caratterizzato dall’invasione della Russia di Putin) che Auschwitz sarebbe stata liberata da soldati ucraini anziché dall’Armata Rossa sovietica in cui quei militari erano inquadrati – poco prima nell’Ucraina sovietica spadroneggiavano le bande dell’ «eroe» filonazista Bandera.

Apprendiamo quindi che Primo Levi, che da testimone diretto racconta l’arrivo dei sovietici e la liberazione del campo nel suo struggente «La Tregua», avrebbe confuso le divise degli eserciti.

Giunti al Giorno del ricordo del 10 febbraio il cortocircuito memoriale nazionale consegna agli esponenti postfascisti il collaudato strumento di una retorica celebrativa autoassolutoria e vittimaria interamente centrata sulla rappresentazione rovesciata degli eventi della Seconda Guerra Mondiale.

Un immaginario pubblico in cui il «fascismo di frontiera»; l’invasione italiana del 6 aprile 1941; la snazionalizzazione anti-jugoslava e il razzismo di Stato; i crimini di guerra italiani nei Balcani; l’impunità, garantita dagli equilibri della Guerra Fredda, ai criminali del regio esercito e dei battaglioni «Mussolini» ed il collaborazionismo di Salò non solo sono cancellati ma, se citati come elementi di contestualizzazione storica, vengono usati come «prova» di accusa di inesistenti «negazionismi» o «riduzionismi».
In questo quadro e con questo uso pubblico della storia, le foibe e le drammatiche violenze sul confine italo-jugoslavo del 1943 e del 1945 diventano pietre da lanciare non più contro l’avversario politico (la sinistra ha condiviso istituzione e impianto della legge così come viene interpretata oggi) quanto contro i comunisti «titini» e più in generale contro la Resistenza nel suo insieme.

Ricollocando l’estrema destra, che ha ormai ipotecato la narrazione di quei fatti nel discorso pubblico, all’interno di un racconto storico nazionale da cui era stata esclusa nel secondo dopoguerra e di cui ora chiede non solo di far parte ma di esserne riconosciuta alla pari sulla base dell’equipollenza del dolore come elemento empatico e unificante. Così a Genova, nel municipio Levante, Shoah e foibe vengono celebrate in un’unica giornata con il patrocinio del Comune e con un relatore simpatizzante di Casapound «nella convinzione -si legge nel manifesto dell’iniziativa- che i morti non abbiano colore». D’altronde nella legislatura scorsa i senatori di Fratelli d’Italia avevano già presentato una proposta in commissione (bocciata) per l’equiparazione Shoah-foibe.

A Roma invece una conferenza promossa dal Municipio di Ostia viene prima interrotta dalle invettive dei consiglieri della destra per poi finire con un’aggressione fisica all’interno della sala consiliare.

In ultimo una schiera di esponenti del governo postfascista che va dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (già arruolatore di Dante come padre della destra) al presidente commissione cultura alla Camera Federico Mollicone (per il quale «le coppie gay in Italia sono illegali») fino al vicepresidente del Senato, ex missino oggi in Forza Italia, Maurizio Gasparri (che nel 2005 affermò che i morti nelle foibe erano stati un milione) ha chiesto con coro unanime che delle foibe se ne occupi il Festival di Sanremo. Quando la storia si trasforma in farsa

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IL GIORNO DEL RICORDO. Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti

Il «giorno del ricordo»  e la memoria corta degli italiani

 

Non era difficile prevedere che collocare la Giornata del ricordo, per onorare le vittime delle foibe, a dieci-quindici giorni dal Giorno della memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno come unico denominatore comune l’appartenere tutte all’esplosione, sino allora inedita, di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia.

Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali.

Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione.

Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda.

I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

* Questo testo del grande storico italiano che ci ha lasciato da meno di un anno – legato profondamente alla storia del Manifesto e nostro prezioso collaboratore per decenni – è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel, 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco)

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IL LIMITE IGNOTO. In carcere disobbedienti e renitenti. Il Nyt: «Tanti, in età militare, in fuga dall’Ucraina per non partecipare alla guerra»

 Soldati ucraini vicino a Soledar - Ap

Un decreto presidenziale ha prolungato la Legge marziale e la conseguente mobilitazione generale in Ucraina per altri 90 giorni, fino al 20 maggio 2023. A questo si aggiunge l’entrata in vigore e l’applicazione della Legge n. 8271 approvata il 13 dicembre 2022 dal Parlamento monocamerale, la Verkhovna Rada, che rafforza le pene per i soldati che disobbediscono o disertano la guerra, inasprendo gli articoli del codice penale militare.

Pugno di ferro, dunque, per tentare di arginare il fenomeno, che finora era stato sottovalutato o nascosto, dei disertori, dei renitenti alla leva, delle migliaia di cittadini maschi che vogliono evitare il reclutamento. Se ne è accorto anche il New York Times, che ha scritto: «Migliaia di ucraini in età militare hanno lasciato il paese per evitare di partecipare alla guerra. I governanti ucraini minacciano di incarcerare i renitenti alla leva e confiscarne le case». Difficile quantificare il numero degli espatriati, ma è certo che le organizzazioni contrabbandiere, specialmente in Moldavia, fanno pagare anche 15.000 dollari il viaggio clandestino per uscire dall’Ucraina; affari d’oro, avendo a disposizione un enorme bacino di maschi tra i 18 e i 60 anni cui il governo ha proibito di uscire dai confini: cittadini patrioti, non certamente filo russi, ma poco inclini ad indossare la divisa, imbracciare le armi e andare in prima linea, dove il numero ingente di morti tra russi e ucraini tende ormai a pareggiare.

Che il malumore per questa nuova recrudescenza militarista sia diffuso, lo si è capito anche dalle petizioni sottoscritte da 25.000 firmatari che denunciano come «il comando avrà una leva senza precedenti per ricattare e imprigionare i militari praticamente per qualsiasi critica alle loro decisioni, anche se le decisioni sono incompetenti e basate su una cattiva gestione del combattimento».
La nuova normativa cancella tutte le esenzioni dal reclutamento finora previste: gli iscritti all’università, i disabili e chi ne ha la cura, i padri di almeno tre figli, gli obiettori di coscienza che optavano per il servizio civile. Ora il reclutamento avviene anche per strada, nei luoghi di lavoro, nei numerosi posti di blocco; persino nelle scuole perché l’obbligo della registrazione militare parte dai 17 anni. La mobilitazione riguarda anche coloro che non hanno svolto il servizio militare; oggi basta un mese di addestramento obbligatorio e si è pronti per l’invio nell’esercito. Quando si è inquadrati si è alle dipendenze del generale Valerii Zaluzhnyi, principale promotore della nuova Legge, comandante in capo delle Forze armate ucraine e membro del Consiglio per la sicurezza e la Difesa nazionale. La Legge da lui voluta è osteggiata da molti soldati, avvocati e attivisti che stanno montando una vera rivolta contro l’inasprimento delle pene previste: dai 5 ai 10 anni di reclusione per diserzione, abbandono del luogo di servizio, rifiuto di usare le armi e dai 3 ai 10 anni per disobbedienza ad un ordine militare di un superiore. La normativa prevede inoltre che i giudici non possano applicare nessuna attenuante, né diminuire le pene o concedere il rilascio anticipato o la libertà vigilata.

Il malumore contro la nuova Legge è crescente e rischia di diventare un problema per il governo. Lo stesso Zelensky è intervenuto dicendo che il rispetto della disciplina militare e la lealtà al giuramento militare sono alla base della vittoria contro l’esercito russo. Il generale Zaluzhnyi vuole chiudere la polemica pubblica: «Riconosco l’esistenza di problemi che portano all’abbandono arbitrario delle posizioni ma bisogna lavorare per eliminarli. Il successo delle operazioni militari è l’obiettivo». Migliaia di giovani ucraini che non credono nella «vittoria fino all’ultimo uomo» fanno sapere di non pensarla allo stesso modo

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TELEVISIONE. Nel bene e nel male, la canzone popolare parla, seppure in musica e in versi, di quel che siamo, segnala l'evoluzione del costume, e una volta all'anno, dà vita a un canovaccio di italian teles, in cinque interminabili serate

Nemmeno l’ecatombe in Turchia e in Siria li frena nel titolare a tutta pagina contro Mattarella a Sanremo. Con impavido sprezzo del ridicolo, leader dimezzati bofonchiano contro “la Costituzione a Sanremo”, così come avevano obiettato sulla presenza, poi annullata, del presidente Zelensky tra i fiori dell’Ariston. Parlamentari in ordine sparso e in cerca di visibilità dichiarano che in riviera c’è troppa sinistra. Bisogna capirli.

Tanto più se, per la disperazione delle destre di lotta e di governo, l’esordio sanremese fa il botto di audience. Bisogna capirli perché, effettivamente, quando basta una prima serata perché la propaganda di palazzo Chigi esca ammaccata dal confronto con la corazzata festivaliera, saltano i nervi.

Mostrare la distanza siderale tra la piccola, balbettante Giorgia e i suoi fratelli sul fascismo, con la liberatoria, emozionante performance di Roberto Benigni sul ripudio della guerra (articolo 11) e la libertà di pensiero (articolo 21), è come una poderosa iniezione di anticorpi democratici, un vaccino inoculato a più di 10 milioni di persone di ogni età e ceto sociale.

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Sentimento e post modernità sul palcoscenico del cantar leggero

Quella libertà di pensiero che guai a darla per scontata, perché, dice e ripete Benigni, va difesa ogni giorno da chi potrebbe togliercela. Della serie quando Costituzione fa rima con Emozione, non puoi farci niente bellezza. Oltretutto un monologo costituzionale introdotto dall’inno di Mameli versione pop.

Specialmente se viene miracolosamente depurato da quel tono stridulo di marcetta grazie al timbro del Gianni nazionale, capace di trasfigurarlo in canzone popolare.

Mattarella, Benigni, Morandi e, a dirigere l’orchestra televisiva Amadeus, intelligente art-director del palcoscenico nazional popolare, discreto tessitore con il Quirinale dello “scoop” presidenziale quanto efficace nella secca replica ai borbottii di Salvini (“Sono quattro anni che critica il festival, non è obbligato a vederlo|”). Per sovrappiù, al quartetto, in giacca e cravatta, ha fatto da contrappunto la social-star del momento, Chiara Ferragni, prima donna della serata, autrice di un non originalissimo monologo sull’orgoglio femminile, ma speciale indossatrice di un abito apparentemente di banale nude-look, in realtà tessuto di spessa trama dorata sul quale era disegnato il nudo del suo corpo, un inganno simbolico e provocatorio, una visione disturbante.

Eppure c’è chi, ancora?, dice che sono solo canzonette, scambiando la musica per innocente passatempo. E da questa visione vetusta e politicamente scorrettissima, le retroguardie dell’ancien regime fanno discendere la distinzione tra cultura d’élite e cultura popolare, tra testo e contesto.

E dunque, di conseguenza succede che se il Presidente della Repubblica presenzia alla prima della Scala o a quella del Cinema di Venezia nessuno si meraviglia e l’applauso è generale, ma se va alla prima serata del Festival di Sanremo si alzano i sopraccigli, si accendono le polemiche, si sprecano i retroscena.

Come se nella storia dell’epifania sanremese non avessero trovato ospitalità questioni cruciali, drammatiche, importanti. Dall’ odissea dei migranti, alle stragi mafiose, allo sfruttamento in fabbrica.

Al contrario, nel bene e nel male, la canzone popolare parla, seppure in musica e in versi, di quel che siamo, segnala l’evoluzione del costume, e una volta all’anno, dà vita a un canovaccio di italian teles, in cinque interminabili serate.

Non sembra neppure il caso di scomodare la Fenomenologia di Mike Bongiorno per dire quanto la cosiddetta élite culturale sia indietro nella comprensione dei meccanismi della comunicazione di massa. Non capisce che più si introducono elementi di rottura, più la comunicazione è efficace.

I più vecchi telespettatori forse ricorderanno le polemiche infuocate, le stroncature inappellabili di un celebre programma, Fantastico8, di un marziano come Adriano Celentano, con quelle inaudite pause che rompevano il ritmo veloce con cui fino a quel momento si svolgevano gli spettacoli televisivi. Il teleutente si agitava sulla sedia, cambiava canale, poi tornava indietro pervaso da una salutare inquietudine, da un virtuoso fastidio provocato da quella anomalia nell’ingranaggio del fino ad allora rassicurante, narcotico procedere del discorso.

Purtroppo, nemmeno a casa nostra, nella sinistra vecchia e nuova senza differenze, la comprensione dei fenomeni culturali di massa ha trovato, se non raramente, interpreti adeguati. E specialmente di televisione non ha mai capito molto, al punto di aver avuto il Pci impegnato contro i mulini a vento della televisione a colori. Diversamente, del resto, non avremmo avuto vent’anni di egemonia berlusconiana

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Oltre 7.200 morti accertati, la vita di 23 milioni di persone sconvolta, città rase al suolo su entrambi i lati del confine che divide la Turchia dalla Siria. Il terremoto non fa distinzioni, la macchina degli aiuti sì: solo il mondo arabo si mobilita per i siriani

I soccorsi occidentali vanno in Turchia, pochissimi in Siria che è sotto le sanzioni europee e americane. In Occidente le ambasciate siriane sono chiuse e Biden non cita Damasco sul sisma

Sisma in Siria e Turchia, spaccata in due la geopolitica della solidarietà Operazioni di ricerca tra le macerie di un edificio crollato a seguito del sisma che ha colpito la Siria - Ap

In questa tragedia immane la geopolitica della solidarietà si è spaccata in due. Tutti i soccorsi occidentali che si stanno approntando vanno in Turchia, pochissimi, raggiungono la Siria. In Occidente le ambasciate siriane sono chiuse, nulle le relazioni diplomatiche mentre le sanzioni europee e americane sono pervasive, il presidente degli Stati uniti Joe Biden non cita nemmeno la Siria nel suo discorso sul terremoto: neppure questa tragedia smuove la livorosa politica occidentale. Solo minoranze, laiche, cristiane, musulmane, qui rivolgono un pensiero a quel Paese ed è Sant’Egidio, non la politica, a chiedere la sospensione dell’embargo a Damasco.

La Siria vive almeno tre contemporanee tragedie: la guerra civile, che continua – come permane la presenza militare straniera – quella del terremoto e l’abbandono occidentale, colmato solo parzialmente dagli aiuti di russi, iraniani, iracheni, che sostengono al potere Bashar Assad.

A TUTTO QUESTO si aggiunge la chiusura delle frontiere dal lato siriano controllato dalla Turchia, che ospita circa tre milioni di profughi siriani, e ha appena proclamato lo stato

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