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La politica di Bibi Netanyahu è davvero fondata solo sull’idea del grande Israele, parola la cui etimologia non è chiara, espressa nel Genesi, secondo cui la Terra ad esso promessa sia da identificare con ciò che Geova promise ai discendenti di Isacco figlio di Abramo?  Mi dispiace per i culturalisti che ancora oggi si attardano a vedere ovunque guerre di religione, di civiltà, di valori (tra i quali il cinico Blinken), ma gran parte delle cause stanno altrove e ad esse fa in parte riferimento  il sempre aggiornato Giacomo Gabellini. Ho già accennato al fatto che il cosiddetto Occidente collettivo ha avuto bisogno dalla fine dell’Impero ottomano di mantenere divisi gli arabi, di collocare uno Stato gendarme in Medio Oriente per ragioni strategiche ed economiche e soprattutto per contrastare la formazione di un Movimento panarabo aconfessionale a sfondo socialista, cui accordò la sua fiducia inizialmente anche l’Unione Sovietica. Per riassumere, la guerra dei sei giorni del 1967, che segnò la messa in crisi di vari regimi arabo-socialisti, e la Rivoluzione islamista in Iran del 1979 questo movimento, che aveva un carattere antimperialista e nazionalista, benché sia Nasser che Gheddafi si richiamassero ad un socialismo generico, fu sconfitto e sostituito dall’islamismo nelle sue varie forme.

A parere di Scott Ritter, ex ispettore delle Nazioni Unite, che considera Israele, violatore di 62 risoluzioni dell’Organismo internazionale, un nemico degli USA e il vero terrorista in questo gioco al massacro, in realtà le azioni militari contro Gaza non si dispiegano secondo un piano pensato dal corrotto Netanyahu, che vuole mettersi al riparo da gravi incriminazioni con riforme istituzionali.

Tuttavia, ora sono a disposizione nuove informazioni, che gettano luce su un progetto molto più preciso dietro l’invasione assai difficile da completare di Gaza, che si fonderebbe addirittura sulla riproposizione del cosiddetto canale di Ben Gurion, progettato segretamente dagli USA nel 1963 per collegare, passando attraverso Gaza appunto, il Mediterraneo orientale al golfo di Aqaba in antagonismo con il canale di Suez.  Il canale si svilupperebbe  dal porto di Eilat in Israele, attraverserebbe il Golfo di Aqabasuperando il confine giordano e dispiegandosi attraverso la Valle dell’Arabah prima di entrare nel Mar Morto e volgersi a nord verso la Striscia di Gaza. Questa notizia circola su vari media, ma il suo scopritore sarebbe il giornalista indipendente, Richard Medhurst ed è stata ripresa dall’economista spagnolo Lorenzo Ramírez, oltre che da Pepe Escobar. Il progetto era nato come risposta alla nazionalizzazione del Canale di Suez fatta da Nasser nel 1956 ed avrebbe avuto lo scopo di rafforzare il controllo marittimo e militare esercitato dagli USA e da Israele nel Medio Oriente.

Già nel 1993 il documento era stato declassificato, solo un mese fa Richard Medhurst lo ha saggiamente diffuso. Il nuovo canale, lungo circa 260 km., costruito facendo esplodere centinaia di bombe nel sottosuolo, consentirebbe ad Israele di controllare il Mar rosso, attenterebbe all’importanza geostrategica dell’Egitto, alleato della Russia, che perderebbe almeno la metà dei suoi introiti, e forse avvantaggerebbe l’Arabia saudita, armata sino ai denti dagli USA. Inoltre, cosa rilevantissima, metterebbe a rischio la costruzione della Via della seta, immaginata dalla Cina, le cui propaggini dovrebbero estendersi in quelle regioni. Questa grandiosa ipotesi è ovviamente in stridente contraddizione con il cosiddetto Corridoio del Medio Oriente (India-Middle East-Europe Economic Corridor) tirata fuori dal cappello da Biden per allontanare molti paesi dal progetto cinese e finora scarsamente finanziata; corridoio, che coinvolgerebbe anche l’India e persino il nostro disgraziato paese allontanatosi dai precedenti accordi con la Cina. Tuttavia, quest’ultima – non dimentichiamocelo – attraverso il Shangai International Port Group nel 2021 ha investito un miliardo e 700 milioni dollari nel porto israeliano di Haifa situato nel Mediterraneo, suscitando notevoli preoccupazioni negli USA. 

Naturalmente l’ambizioso progetto del canale Ben Gurion, sulla cui fattibilità ci sono ancora molti dubbi, trova il suo principale ostacolo nella presenza dei palestinesi, dei quali ci si può disfare tranquillamente massacrandoli, – come sta avvenendo anche in questo momento –, costruendo il nuovo canale sui loro cadaveri disfatti oppure facendoli forzosamente emigrare. Anche l’Egitto e la Giordania, che finora a parole, anche se di fuoco, si sono schierati con i palestinesi, ma che hanno buone relazioni con Israele, non vedrebbero di buon occhio la realizzazione di questo progetto, perché i palestinesi scampati allo sterminio si riverserebbero nelle loro terre, accrescendo i problemi economici e sociali di questi paesi. Su questo aspetto, così scrive Gabellini: “pur di vincere l’irriducibile opposizione del Cairo, le autorità israeliane si sarebbero addirittura prodigate per organizzare un ambizioso piano volto a cancellare i debiti internazionali dell’Egitto attraverso la Banca Mondiale e l’Unione Europea. Ma a dispetto della critica situazione finanziaria in cui versa il Paese, l’Egitto si è opposto con forza”. Gabellini menziona la evidentemente non tanto strampalata ipotesi fatta da Ram Ben-Barak, ex vicedirettore del Mossad e parlamentare alla Knesset, che non ha avuto la vergogna di proporre di “ridistribuire” 2,5 milioni di palestinesi in un centinaio di paesi. I recenti viaggi di Antony Blinken, non tanto ben accolto, in Medio Oriente non hanno avuto come scopo – come ci propala anche il Sole24 ore - ottenere da Israele pause militari (ora ottenute ma a che pro? Per ammazzarli qualche giorno dopo?); si è certo preoccupato di impedire l’estensione del conflitto nella regione mediorientale, ma anche di convincere Egitto e Giordania ad accettare l’ipotesi del nuovo canale, naturalmente in cambio di qualche mancia sostanziosa, come per esempio l’importazione del grano ucraino da cui dipende il primo.

Il leader israeliano è giunto persino ad ipotizzare la creazione di un corridoio di pace e di prosperità che condurrebbe i palestinesi nel Sinai o in alcuni paesi mediterranei quali Spagna e Grecia, ed ha promesso di trasformare il suo paese nel maggiore esportatore di gas all’Europa, che ha masochisticamente rinunciato a quello russo, con gli effetti che conosciamo. Non ha detto, tuttavia, che in gran parte questo gas appartiene agli abitanti di Gaza, la quale sarebbe per di più trasformata in una zona per il turismo di lusso con grandi alberghi e magnifiche infrastrutture. Le risorse di gas scoperte si dislocano dalle coste israeliane (i giacimenti di Tamar e Leviathan) a quelle egiziane, quelle palestinesi sono state di fatto sequestrate nel corso della catastrofica operazione “Piombo fuso”, avvenuta nel periodo dicembre 2008 gennaio 2009.

Se il quadro qui tracciato è realistico, c’è da chiedersi ancora una volta: le due grandi superpotenze, USA e Cina, i cui presidenti si sono recentemente incontrati a San Francisco, troveranno il modo di di continuare a non confrontarsi direttamente,  impedendo per ora a tutti noi di sprofondare in un abisso senza fondo?

* Alessandra Ciattini ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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CRISI CLIMATICA. Siamo sul crinale di un cambiamento d’epoca che modificherà - e ha già iniziato a modificare - rapporti di forza tra Paesi, aggregati industriali, settori economici

Combustibili fossili, si gioca a carte scoperte Un'azione di Extinction Rebellion a Monaco - Ap

Lo “scoop” della Bbc e del Centre for climate reporting, che ha rivelato l’intenzione della presidenza degli Emirati Arabi di usare la Cop28, dà il senso del conflitto perenne tra il fronte fossile e chi spera in un vero negoziato per contrastare la crisi climatica.

Papa Francesco, nella recente Laudate Deum, ha sottolineato come, accanto agli investimenti in rinnovabili, ci sono progetti di espansione petrolifera e del gas proprio negli Emirati. Mentre lo scorso giugno il Guardian ha denunciato lo scandalo dell’azienda petrolifera di stato degli Emirati chenon solo ha potuto leggere le e-mail da e verso l’ufficio del vertice sul clima della Cop28, ma è stata anche consultata su come rispondere alle domande dei media. Almeno possiamo dire che si gioca, più di prima, a carte scoperte.

Persino l’International Energy Agency nell’ultimo rapporto dice che le aziende petrolifere che vogliano rispettare gli obiettivi climatici devono anzitutto fermare l’espansione della produzione di petrolio e gas. Non esattamente come i piani industriali di Eni che espanderà la produzione e le conseguenti emissioni di gas serra, mentre minaccia cause di diffamazione contro chi attacca questa politica anticlimatica come Greenpeace e ReCommon.

Se sul tavolo negoziale a Dubai c’è la proposta di triplicare le rinnovabili, cosa positiva, l’obiettivo di fissare una strategia di uscita dalle fossili è fortemente contrastato da chi vende petrolio, gas e carbone. Ma questo è un obiettivo indispensabile per una via d’uscita dalla crisi climatica.

I colloqui negli Emirati Arabi Uniti chiudono un anno in cui gli scienziati del clima di tutto il mondo hanno stabilito in modo inequivocabile la necessità di tagli alle emissioni drastici e immediati per limitare il riscaldamento a 1,5 ºC e i modi per arrivarci. Ma la “resistenza fossile” – che ha sempre operato – ora sta facendo di tutto, e alla luce del sole, per rallentare il processo di transizione che, pur tra mille ostacoli, procede ma troppo lentamente.

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Siamo sul crinale di un cambiamento d’epoca che modificherà – e ha già iniziato a modificare – rapporti di forza tra Paesi, aggregati industriali, settori economici. In questa fase di passaggio il settore del petrolio e del gas – dominato dai paesi produttori che detengono gran parte delle risorse, e dalle oil majors che detengono capacità tecnologica e una fetta di mercato – è in grande difficoltà: solo una fetta minima delle rinnovabili è controllata dai grandi attori petroliferi.

E questo perché il settore delle rinnovabili è caratterizzato da un modello economico agli antipodi: milioni di impianti piccoli e medi, migliaia di impianti a scala industriale costruiti e gestiti da moltissime aziende di ogni tipo. La Cina è in vantaggio perché ha iniziato a industrializzare in modo massivo per prima. Ed è questo un aspetto che viene usato contro la transizione, ma non si capisce perché, invece, per tanti altri settori come l’elettronica e la telefonia, questo argomento non venga usato. Per fortuna sulla questione climatica il dialogo Usa-Cina è ancora attivo.

Oltre a triplicare le rinnovabili, ci vuole un impegno a porre fine all’espansione di nuovi combustibili fossili da subito e una strategia di progressiva eliminazione. Questa dev’essere rapida, equa e completa con una tabella di marcia e chiari meccanismi di responsabilità, finanziamenti da attuare attraverso i piani nazionali.

L’altro aspetto rilevantissimo riguarda la definizione di un pacchetto finanziario credibile che sia commisurato alle esigenze del mondo reale, e che includa il lancio operativo di un nuovo Fondo per le perdite e i danni: chi ha maggiori responsabilità storiche per le emissioni di gas serra deve pagare le distruzioni e i danni che ha causato con la crisi climatica. Vedremo che ruolo giocherà il governo italiano, finora tutto sbilanciato col “Piano Mattei” sul versante fossile.

*direttore Greenpeace Italia

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ISRAELE/PALESTINA. L’appello di 4mila tra intellettuali, giornalisti, artisti, diplomatici e associazioni italiane

Los Angeles, manifestazione per la pace a Gaza Ap/Damian Dovarganes Los Angeles, manifestazione per la pace a Gaza - Ap/Damian Dovarganes

La fragile tregua ottenuta per Gaza è il frutto di una lunga mediazione internazionale, ma servono un cessate il fuoco permanente e una vera soluzione politica per una prospettiva concreta di pace e giustizia.

Il 7 ottobre Hamas ha ucciso e rapito civili inermi nelle loro case, per strada, a un festival sottraendoli alle loro famiglie. È stato un attacco che ha colpito prevalentemente civili ebrei israeliani, tra cui bambini, anziani, attivisti storici per la pace e contro l’occupazione ma anche lavoratori migranti, palestinesi con passaporto israeliano o residenti in Israele. Sono seguite settimane di bombardamenti indiscriminati da parte del governo israeliano contro la popolazione di Gaza, con scuole ed ospedali divenuti cimiteri. Più di un milione di palestinesi è stato costretto a lasciare le proprie case per dirigersi nel sud di Gaza, che non è più un luogo sicuro.

Non ci sono corridoi umanitari adeguati, acqua, cibo, energia. In Cisgiordania è cresciuta esponenzialmente la violenza da parte di coloni armati contro la popolazione civile palestinese.

Davanti a questi orrori, l’opinione pubblica internazionale in Europa si è polarizzata, con il ritorno di gravissimi episodi di antisemitismo e islamofobia, riportandoci alla retorica dello scontro di civiltà che ha fatto danni enormi negli ultimi decenni.

La lotta contro l’antisemitismo non può essere né una mossa ipocrita per cancellare il retaggio del fascismo, né un’arma in più per reprimere il dissenso e alimentare xenofobia e pregiudizio antiarabo. Deve invece essere parte integrante della lotta contro ogni forma di razzismo.
Questa logica binaria – da una parte o dall’altra – è la trappola a cui è necessario sottrarsi in questo momento. Non si può cancellare l’orrore del 7 ottobre, ma si può fermare la strage a Gaza. Un crimine di guerra non ne cancella un altro: alimenta solo l’ingiustizia che prepara il terreno ad altra violenza.

Rivendichiamo il diritto e il dovere di guardare la guerra sempre dal punto di vista delle vittime, perché sono loro l’unica certezza di ogni conflitto.

La protezione dei civili, senza distinzione di nazionalità, residenza o religione, e degli ospedali, deve essere il primo obiettivo di un’azione diplomatica della comunità internazionale e delle forze della società civile.

Chiediamo la fine definitiva del massacro a Gaza, l’avvio di corridoi umanitari adeguati e la liberazione di tutti gli ostaggi. In Israele oltre mille palestinesi sono trattenuti in detenzione amministrativa, tra cui centinaia di minori, di cui chiediamo il rilascio. È necessaria una soluzione politica a partire dalla fine del regime di apartheid e delle politiche di colonizzazione e di occupazione militare israeliane. Non potrà mai esserci sicurezza – per i palestinesi, per gli israeliani, per nessuno di noi, – senza eguaglianza, diritti e libertà.

* * * Promotori: Emergency, Laboratorio ebraico antirazzista – LeA, Mediterranea e Assopace Palestina;
Sottoscritto da tante altre associazioni, tra cui Amnesty International Italia, Arci, Libera, Gruppo Abele, AOI, Un Ponte per, Beati i costruttori di pace, Lunaria, Associazione SenzaConfine, Articolo 21… e per ora sono circa 4.000 quelli che hanno sottoscritto, tra questi 400 personalità del mondo accademico, del mondo dello spettacolo, giornalisti e diplomatici, tra cui:
don Luigi Ciotti, Miguel Benasayag, Goffredo Fofi, Marco Damilano, Michele Serra, Pier Francesco Favino, Alessandro Bergonzoni, Carlo Ginzburg, Fiorella Mannoia, don Albino Bizzotto, Lisa Clark, Toni Servillo, Ferzan Ozpetek, Luca Zingaretti, Elio Germano, Ascanio Celestini, Greta Scarano, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Vittoria Puccini, Giorgio Diritti, Mario Martone, Alba Rohrwacher, Alice Rohrwacher, Saverio Costanzo, Caterina Guzzanti, Paola Cortellesi, Edoardo Winspeare, Enzo Traverso, Carlo Rovelli, Tommaso Di Francesco, Alessandro Gilioli, Francesca Fornario, Stefano Nazzi, Alberto Negri, Nico Piro, Andrea Capocci, Alessandro Calascibetta, Ali Rashid, Alessandro Robecchi, Giulia Blasi, Donald Sassoon, Loredana Lipperini, Annamaria Testa, Raffaele Alberto Ventura, Luciana Castellina, Nicola Lagioia, Sandro Veronesi, Christian Raimo, Maurizio Braucci, Teresa Ciabatti, Mario Ricciardi, Giorgia Serughetti, Marco Revelli, Alessandro Portelli e tantissimi altri….
* Per l’elenco completo dei firmatari, individuali e collettivi, e per sottoscrivere al seguente sito: https://cessateilfuoco.org/

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SMACCO ITALIA. L’Expo va all’Arabia saudita del principe Mohammed bin Salman, il mandante, secondo la Cia dell’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi, l’amico (e pagatore) del senatore Renzi – che ne ha esaltato […]

La trappola dell’«amico» bin-Salman

 

L’Expo va all’Arabia saudita del principe Mohammed bin Salman, il mandante, secondo la Cia dell’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi, l’amico (e pagatore) del senatore Renzi – che ne ha esaltato il «rinascimento» -, invitato ironicamente l’altro giorno in Parlamento dalla presidente del consiglio Meloni a chiedere al regnante saudita il petrolio con lo sconto. Ma qui c’è poco da fare gli spiritosi e i giullari: all’Assemblea generale del Bureau international des expositions, a Parigi, Riad ieri ha portato a casa due terzi dei consensi pari a 119 voti su 182 Paesi votanti. Con 29 voti Busan, città della Sud Corea, si è classificata seconda, Roma è terza con 17 voti. Uno schiaffone sonoro perché neppure molti Paesi europei hanno votato per noi.

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Eppure qualche avvisaglia c’era. A fine settembre l’Arabia saudita si era impadronita (pagando profumatamente) della Casina Valadier per dare vita a un sontuoso festival culturale proprio nel cuore della capitale: non era sfuggito che questa manifestazione precedeva di poco il voto per l’Expo 2030. I sauditi hanno lavorato benissimo con la diplomazia e i dollari per avere anche questa manifestazione che si aggiunge ai Mondiali di Calcio del 2034. E come tutti sanno Riad si è comprata con denaro pubblico (le pingui casse del regno wahabita) le star del calcio e anche l’ex l’allenatore della nostra nazionale Mancini, visto sfilare a Riad con le sciabola saudita in pugno. Altro che la Spada dell’Islam esibita in Libia da Mussolini: quella rimane custodita come un cimelio, adesso conta ben altro che la retorica del Ventennio.

Ma in questo amaro frangente i soldi sauditi che ci portano grandi commesse (citofonare Leonardo), ci fanno arricciare il naso. L’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente del Comitato promotore, ha accolto con parole senza precedenti lo smacco di Parigi parlando di «deriva mercantile» e «metodo transazionale, non transnazionale». Per poi sbottare: «Fino all’ultimo, né a noi né ai coreani risultavano numeri di questa portata, quindi anche sull’ultimo miglio qualcosa deve essere successo».

«Non critico – ha continuato -, non accuso, non ho prove, ma la deriva mercantile riguarda i governi, e anche gli individui talvolta. È pericoloso: oggi l’Expo, prima i mondiali di calcio, poi chissà le Olimpiadi… non vorrei che si arrivasse alla compravendita dei seggi in consiglio di sicurezza dell’Onu, perché se questa è la deriva io credo che l’Italia non ci debba stare». Nobili parole quelle di Massolo, ex segretario generale della Farnesina, ex capo del Dis, dell’Ispi, presidente di Fincantieri e Atlantia. Ma proprio Fincantieri e Leonardo, revocato l’embargo a Riyad sulle armi, fanno affari d’oro in Arabia saudita. In questi casi non disprezziamo troppo i soldi sauditi e gli 800 miliardi di dollari del suo fondo sovrano.
Il problema è che il mondo è cambiato e fingiamo di non saperlo. La guerra a Gaza impedisce a Riyad di unirsi nel Patto di Abramo alle altre monarchie del Golfo in affari con Israele. Ma, come rivelato al G-20 c’è il «Corridoio India-Medio Oriente-Europa», concorrenziale alla Via della Seta cinese e al canale di Suez, per una rete ferroviaria che porterà merci dall’Asia passando per Emirati, Arabia Saudita e Giordania, fino ai porti in Israele e in Europa. Noi siamo in vendita…

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HAMAS/ISRAELE. Biden e i leader di tutto il mondo plaudono - tranne l’Onu che grida: «Non basta» -, ma per chi non l’avesse capito, piuttosto che agli albori della fine della guerra questa continua, anzi deve continuare

 Gaza - Ap

Finalmente, era l’ora dello scambio. Una boccata di speranza per le famiglie dei rapiti israeliani e una boccata di ossigeno per milioni di palestinesi tra le macerie dei bombardamenti israeliani, a Gaza e in Cisgiordania. Secondo gli annunci ufficiali, dovrebbero essere rilasciate a partire da oggi circa 50 donne e bambini sequestrati da Hamas in cambio di 150 donne e minori palestinesi dalle carceri israeliane.

E ci dovrebbe essere un cessate il fuoco per 4 giorni. Usiamo il condizionale perché le parole del ministro degli esteri israeliano Eli Cohen di ieri aprono una voragine interpretativa: Israele non si è impegnato ad un ‘«cessate il fuoco’», bensì ad ‘«una pausa di 4 giorni…Il significato del ‘cessate il fuoco’ – ha dichiarato – è che dopo il fuoco non c’è una sua ripresa. Noi parliamo invece di una pausa, in cui scopo è la liberazione di ostaggi. Sono due concetti del tutto diversi. La differenza è enorme’».

Insomma, Biden e i leader di tutto il mondo plaudono – tranne l’Onu che grida: «Non basta» -, ma per chi non l’avesse capito, piuttosto che agli albori della fine della guerra questa continua, anzi deve continuare. Con che modalità, è chiaro in modo atroce a tutti. E come spesso accade per i conflitti armati, il commento più chiaro è arrivato dalle parole di papa Francesco che ieri ricevendo sia la delegazione israeliana di familiari degli ostaggi che quella dei palestinesi, ha detto chiaro e tondo: «Loro soffrono tanto e ho sentito come soffrono ambedue. Le guerre fanno questo ma qui siamo andati oltre alle guerre. Questa non è guerra, questo è terrorismo».

Il terrorismo di Hamas è stato l’eccidio di 1.400 persone, per la gran parte civili comprese donne e bambini in un giorno, il 7 ottobre, su cui tutti concordano, ma c’è anche il terrorismo del governo israeliano durato 46 giorni contro milioni di palestinesi a Gaza e quello dell’esercito israeliano e dei coloni in Cisgiordania, che nella sola Striscia ha fatto più 14mila morti, di cui circa 5mila bambini. Era questa la risposta «adeguata per il diritto d’Israele a difendersi»? No, perché la conta delle vittime non è ancora finita, la guerra continuerà dopo lo scambio.

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Provate a mettervi dal punto di vista delle decine di palestinesi uccisi già ieri, nei campi profughi a Gaza e nei Territori occupati, a poche ore dall’annunciato scambio, o di quelli che

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La Palestina, come il resto del mondo arabo, è stata sotto il dominio ottomano dal 1516 fino al 1914, quattrocento anni.

1917 – Dichiarazione Balfour: il 2 novembre, il governo britannico promette a Lord Rotschild la creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. All’epoca solo il 4% della popolazione è di religione ebraica, mentre il 20% è costituito da cristiani e il 76% da musulmani.

1919 – Il Congresso Nazionale Palestinese respinge la dichiarazione di Balfour e chiede l’indipendenza della Palestina.

1922 – La Società delle Nazioni affida alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina. L’amministrazione britannica incoraggia l’immigrazione ebraica.

1947 – Il 29 novembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per mezzo della risoluzione 181, approva il Piano di partizione della Palestina tra uno Stato per gli arabi palestinesi e uno per gli ebrei, ed assegna a questi ultimi il 56% della Palestina, mentre all’epoca rappresentano il 33% della popolazione e detengono solo il 6% delle terre.

1948 – I britannici rinunciano al Mandato lasciando il problema in mano alle Nazioni Unite.

1948-1949 – Il 14 maggio 1948 Israele proclama la propria indipendenza: per i palestinesi è la Nakba (Catastrofe), che costringe 800mila palestinesi all’esodo mentre 531 villaggi vengono rasi al suolo. L’11 dicembre, l’Onu adotta la Risoluzione 194 con cui chiede a Israele di consentire il ritorno dei rifugiati.

1967 – Tra il 5 e il 10 giugno, durante la guerra dei Sei Giorni contro gli arabi, Israele occupa il resto della Palestina storica, cioè la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est. Il 22 novembre, la Risoluzione 242 delle Nazioni Unite esige il ritiro di Israele dai Territori Occupati.

1982 – Il 6 giugno Israele lancia contro il Libano la cosiddetta “Operazione Pace in Galilea”. Tra il 16 e il 18 settembre, milizie libanesi protette dall’esercito invasore israeliano entrano nei campi profughi di Sabra e Shatila e massacrano oltre tremila palestinesi, per lo più vecchi, donne e bambini.

1987 – L’8 dicembre nei Territori occupati esplode la Prima Intifada, sollevazione popolare nonviolenta, per chiedere l’autodeterminazione e l’indipendenza del popolo palestinese.

1988 – Il 15 novembre, durante la sessione del Consiglio Nazionale Palestinese dell’Olp riunito ad Algeri, Yasser Arafat proclama lo Stato indipendente di Palestina sui confini del 4 giugno 1967.

1993-1995 – Gli Stati Uniti promuovono tra i rappresentanti della Palestina e quelli di Israele una serie di incontri, noti come Accordi di Oslo, che si interpretano come il primo passo verso la creazione di uno Stato palestinese. Durante il cosiddetto “processo di pace”, Israele raddoppia il numero degli insediamenti illegali nei territori palestinesi.

2000 - La visita provocatoria di Ariel Sharon (allora capo dell’opposizione parlamentare in Israele) sulla Spianata della Moschea di Gerusalemme provoca l’inizio della Seconda Intifada.

2000 - L’iniziativa di pace della Lega Araba offre a Israele il riconoscimento e la pace in cambio del ritiro dai Territori occupati nel 1967 e di una soluzione al problema dei rifugiati palestinesi. Israele ignora la proposta, invade tutte le città palestinesi e comincia la costruzione del muro dell’apartheid (2002).

2003-2004 – Il presidente Yasser Arafat è in stato d’assedio all’interno della Muqata di Ramallah. Il 9 luglio la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja dichiara che “la costruzione del muro e il regime che lo accompagna sono contrari al diritto internazionale”. L’11 novembre 2004 l’intenzione di eliminare Yasser Arafat culmina con la sua morte.

2008-2009 – Israele compie una brutale aggressione contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza, assassinando 1.500 palestinesi e ferendone 5.500. Migliaia di abitazioni, centri commerciali, scuole e luoghi di culto vengono distrutti.

2010 - Le forze di occupazione israeliana continuano con la confisca di terre e proprietà dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est per la costruzione degli insediamenti di coloni israeliani. La politica di Israele a Gerusalemme si basa sulla pulizia etnica, culturale e religiosa dei palestinesi.

2012 – Il 14 novembre, Israele lancia un’altra offensiva militare aerea contro la Striscia di Gaza che dura una settimana. La cosiddetta “operazione Pilastro di Difesa” causa la morte di 167 palestinesi. Il 29 novembre l’Assemblea Generale dell’Onu, con il voto favorevole di 138 Paesi compresa l’Italia, approva la Risoluzione A/ RES/67/19 che riconosce la Palestina come Stato Osservatore delle Nazione Unite.

2014 – L’8 luglio Israele scatena un’altra devastante aggressione contro Gaza che dura fino al 26 agosto. La cosiddetta “Operazione Margine di Protezione” uccide 2.104 palestinesi, tra cui 495 bambini e 253 donne.

2015 – Il 30 settembre, 119 paesi, compresa l’Italia, votano a favore dell’innalzamento della bandiera palestinese sul Palazzo dell’Onu.

2016 – Il 18 ottobre l’Unesco approva una risoluzione intitolata “Palestina occupata” che riguarda la città vecchia di Gerusalemme. La risoluzione, al fine di tutelare il patrimonio culturale palestinese, riconosce il “Monte del Tempio” con il solo nome arabo Haram al Sharif (Spianata delle Moschee), definisce Israele una “potenza occupante” e critica il modo in cui gestisce l’accesso ai luoghi sacri; chiede ad Israele di rispettare lo status quo della città di Gerusalemme in vigore prima del settembre del 2000 (la Spianata delle Moschee sotto il controllo del ministero giordano degli Affari islamici e dei luoghi sacri). Il 23 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approva, con l’astensione degli Stati Uniti, la risoluzione 2334 che condanna gli insediamenti israeliani.

2017 – Il 14 gennaio il presidente Abu Mazen inaugura l’Ambasciata dello Stato di Palestina presso la Santa Sede. Il 27 maggio, dopo 40 giorni di digiuno, termina uno dei più imponenti scioperi della fame mai portati avanti dai detenuti nelle carceri israeliane, cui partecipano 1.800 prigionieri palestinesi. Il 6 dicembre il presidente Usa Trump proclama Gerusalemme capitale di Israele. Con la sola eccezione degli Usa e il voto favorevole dell’Italia, il Consiglio di Sicurezza il 18 dicembre respinge la decisione di Trump, con la risoluzione ripresa e approvata dall’Assemblea Generale delle Nazione Unite il 21 dicembre dello stesso anno.

2018 – Il 30 marzo la popolazione palestinese di Gaza intraprende la “Grande Marcia del Ritorno”, subendo una tremenda repressione da parte dell’esercito israeliano che causa più di 200 morti e migliaia di feriti. Il 18 luglio la Knesset (il Parlamento israeliano) approva una legge che qualifica Israele come “Stato – nazione del popolo ebraico”. Il 31 agosto gli Usa decidono di uscire dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi, fondata nel 1949, l’8 settembre di annullare lo stanziamento annuale per i sei ospedali palestinesi di Gerusalemme Est, e il 10 settembre di chiudere la sede dell’Olp a Washington.

2020 – Il governo israeliano, con il sostegno del presidente degli Usa Trump, annuncia la sua intenzione di annettere parte della Cisgiordania, annuncio mai realizzato finora grazie alla reazione del popolo palestinese e alle proteste di tanti Paesi. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha reagito duramente all’annuncio del governo israeliano di essere pronto ad annettere parte della Cisgiordania, dichiarando “finiti” tutti gli accordi con Israele e Stati Uniti.

2023: L’attacco militare omicida di Hamas e la guerra scatenata da Israele contro Gaza hanno causato finora oltre 50mila vittime tra morti, feriti e dispersi da entrambe le parti.

Tre gli scenari possibili per il prossimo futuro

- Deportazione della popolazione di Gaza fuori dalla Striscia, ripresa della colonizzazione della Cisgiordania con nuovi insediamenti. Questo scenario porterebbe israeliani e palestinesi a vivere in un contesto di guerra permanente, con i rischi di instabilità militare e politica in tutto il Medio Oriente.

- Recuperare in modo immediato l’equazione “due Stati per due popoli” attraverso la convocazione di una Conferenza Internazionale di Pace, sotto l’ombrello della Nazione Unite, che sancisca la fine dell’occupazione militare di Israele e la nascita dello Stato palestinese, in base al diritto e alla legalità internazionale.

- Formare uno Stato federale tra due Stati alla pari (Palestina e Israele) che garantisca i diritti a tutti i suoi concittadini, israeliani e palestinesi, in modo eguale senza nessun privilegio né discriminazione. In un progetto di questa portata sarebbero auspicabili due cose: in primis l’integrazione della Giordania in questa federazione, e in secondo luogo l’ammissione del nuovo Stato federale nell’Unione europea, per un progetto di ricostruzione socio economica e politica del nuovo Stato.

Quale di queste strade sarà perseguita dipende, in questo momento, dalla comunità internazionale e dalla sua volontà e capacità di intervenire nel conflitto armato per ricondurlo alla diplomazia, assicurando una soluzione politica giusta che restituisca speranza a questi popoli martoriati.

* Giornalista italo palestinese, presidente Federconsumatori, segretario generale Sunia, Assemblea generale Cgil Forlì-Cesena

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