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La Cop28 è ufficialmente chiusa ma l’accordo di compromesso sui combustibili fossili e i fondi per la transizione e l’adattamento nel Sud globale ancora non c’è. Sul più bello, mentre si tratta a oltranza, il ministro dell’ambiente per caso Pichetto Fratin lascia la conferenza sul clima

UNA BRUTTA ARIA. Sorpresi? Il circo è (quasi) finito. Si attendono miracoli in dirittura d’arrivo e chissà se domani tireremo un bel rantolo di sollievo. I commentatori favoleggiano mille e una notte di […]

Cop28 in cerca di una eco-pezza  per salvare la faccia La protesta degli attivisti a Dubai - Ansa

Sorpresi? Il circo è (quasi) finito. Si attendono miracoli in dirittura d’arrivo e chissà se domani tireremo un bel rantolo di sollievo. I commentatori favoleggiano mille e una notte di trattative febbrili per inserire la parolina magica e salvare almeno la faccia (phase out), noticina a margine di un documento finale che suonerà come una pasticciata dichiarazione di intenti. L’ennesima. Se questo è l’esito della Cop28, la fuoriuscita dai fossili resta una chimera. È un fatto, non è disfattismo catastrofista: il mondo, mentre la pubblicistica «green» promette un futuro rinnovabile, non ha mai consumato tanta energia fossile come nel 2023. E siamo a otto anni dagli accordi di Parigi.

Del resto la storia recente dei trattati internazionali sul clima è piuttosto desolante e qui ce la stiamo raccontando a Dubai, dove le petromonarchie giocano in casa. Davvero c’è qualcuno in buona fede che ha creduto fosse possibile qualcosa di diverso?

Siamo andati a casa di Dracula a chiedere di tamponare l’emorragia provocata da un sistema autodistruttivo e tossico che senza tanti giri di parole dovremmo tornare a chiamare “capitalismo”, e adesso ce ne torniamo a casa scornati soppesando le tonnellate di Co2 che ci separano dal punto di non ritorno e spacciando per buone le briciole di risarcimento riservate ai paesi in via di sviluppo per compensare la

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IL DECLINO E LA POLITICA. La marcia della pace ad Assisi di domenica scorsa, per il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi, è l’occasione più recente in cui migliaia di persone hanno manifestato in Italia. Negli ultimi due mesi, con una partecipazione popolare oltre ogni previsione, le piazze italiane si sono riempite per cinque grandi proteste

(Il corteo NUDM davanti al Colosseo, foto Getty Images Il corteo NUDM davanti al Colosseo - foto Getty Images

La marcia della pace ad Assisi di domenica scorsa, per il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi, è l’occasione più recente in cui migliaia di persone hanno manifestato in Italia. Negli ultimi due mesi, con una partecipazione popolare oltre ogni previsione, le piazze italiane si sono riempite per cinque grandi proteste.

Ricordiamole: il 7 ottobre «La via maestra» della difesa della Costituzione è stata lanciata da Cgil e 200 associazioni, chiedendo democrazia, pace e tutela dei diritti. A partire dal 28 ottobre la questione della Palestina e della difficile pace con Israele è arrivata in molte piazze. Il 17 novembre c’è stata la giornata principale dello sciopero generale di Cgil e Uil contro la legge di bilancio del governo e la svalutazione del lavoro. Il 25 novembre, nella giornata contro la violenza sulle donne, c’è stata una straordinaria partecipazione, a Roma e in tutta Italia, con l’affermazione della libertà delle donne e il rifiuto del patriarcato. A queste, si è aggiunta anche una piazza «politica», con la manifestazione del Pd l’11 novembre a Roma, per costruire l’opposizione al governo.

Si è trattato di segnali di grande vitalità della società italiana, con manifestazioni molto diverse, che tuttavia condividono un comune disagio, radicato nelle condizioni economiche e sociali di un Paese che vive da anni un declino economico, l’aumento delle disuguaglianze, la discriminazione delle donne.
Siamo un paese che si va impoverendo. Dal 2000 a oggi il Pil pro capite è diminuito del 2% in media. La qualità del lavoro è peggiorata gravemente: due terzi dei nuovi contratti di lavoro sono a tempo determinato o part-time. I salari sono particolarmente bassi a confronto con gli altri paesi europei; nell’industria e nei servizi privati l’80% dei 15 milioni di salariati guadagnava nel 2020 meno di 28 mila euro lordi l’anno.

Con l’inflazione degli ultimi due anni, molti lavoratori dipendenti hanno subito perdite dei redditi reali fino al 15%, visti i ritardi nei rinnovi contrattuali e l’inadeguata indicizzazione dei salari. Le perdite sono state maggiori per chi lavora in modo precario e nei servizi privati. Ma i salari reali cadono da ben prima: tra il 2008 e il 2022 sono diminuiti del 10% mentre in Germania crescevano del 12%. Il risultato è che ora il 12% dei lavoratori italiani è a rischio di povertà, come documentiamo nel volume L’inflazione in Italia, pubblicato di recente da Carocci.

Le disuguaglianze sono sempre più gravi. L’1% più ricco della popolazione adulta possiede oggi un quarto della ricchezza totale, mentre aveva il 17% nel 1995; il 50% più povero ha ora il 3% della ricchezza, contro l’11% nel 1995. Gli effetti dell’inflazione hanno aggravato le disparità di reddito; l’aumento dei prezzi ha riguardato soprattutto energia e generi alimentari, i beni che hanno un peso maggiore nella spesa delle famiglie più povere.

Le disparità nella situazione economica e sociale delle donne sono state documentate da uno studio della Banca d’Italia dello scorso giugno. Il 43% delle donne è oggi fuori dal mercato del lavoro, con una modesta riduzione nell’ultimo decennio; nel Mezzogiorno si arriva al 58%. Nei salari, i divari tra uomini e donne sono del 10% e le disparità sono ancora più forti ai vertici della piramide dei redditi. Nonostante risultati scolastici migliori degli uomini, le donne hanno carriere professionali lente e discontinue. Chi diventa madre è fortemente penalizzata sul mercato del lavoro: ha una probabilità quasi doppia di non avere più un lavoro nei due anni successivi. Gli asili sono disponibili solo per un bambino su quattro, nel Mezzogiorno meno del 15% dei bambini da zero a due anni ha accesso all’asilo.

È questa la radiografia economica di chi ha manifestato in questi mesi in Italia. L’estensione degli scioperi ha le sue radici nel degrado del lavoro e nella perdita di salario.

Nella rivolta delle donne conta l’esperienza vissuta di discriminazione. Ma le due dinamiche si sovrappongono, con le donne che sono le più penalizzate in termini di lavoro e salario.

Declino, disuguaglianze e discriminazione – gli elementi chiave del circolo vizioso che ha caratterizzato il Paese negli ultimi decenni – sono anche i “motori” delle manifestazioni di questi mesi. Investono in modo differenziato classi sociali, uomini e donne, giovani e vecchi, territori diversi, ma rimandano all’esigenza comune di un cambio di rotta. E di un’alleanza sociale per realizzarlo

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La cantante israeliana si rivolge alla comunità internazionale: “Credo in Israele accanto alla Palestina. Solo così possiamo avere speranza per il futuro”

GUARDA IL VIDEO DI NOA

“Credo in Israele accanto alla Palestina. Dal fiume al mare: due popoli liberi. Dal fiume al mare: pace per te e per me”. Sono parole profonde, commoventi, quelle pronunciate dalla cantante israeliana Noa, da anni impegnata sul fronte dei diritti umani, in occasione della “Marcia della pace e della fraternità” che si tiene domenica 10 dicembre ad Assisi.

“Dal 7 ottobre viviamo un incubo”, spiega l’artista: “I terroristi di Hamas, con il loro culto della morte, si sono infiltrati in Israele e hanno cominciato a stuprare, torturare, bruciare, massacrare, uccidere. Hanno compiuto brutali crimini contro l’umanità, hanno rapito 250 civili innocenti nei tunnel a Gaza, hanno lanciato bombe su civili innocenti, compresa la mia casa e la mia famiglia, che è stata tante volte nei rifugi”.

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INTERNAZIONALE

Cessate il fuoco!

Il 10 dicembre ad Assisi la Marcia della pace e della fraternità con l’adesione della Rete italiana pace e disarmo

Cessate il fuoco!

Israele è sotto attacco, dice Noa, lotta per la sua esistenza. “Ma mi sento sotto attacco – prosegue – anche dal mio governo. Come milioni di israeliani mi sento tradita da questo governo radicale, di coloni estremisti, di terroristi ebrei, di messianici pazzi, che ci faranno finire tutti all’inferno, sotto la guida di un uomo corrotto e orribile che si chiama Netanyahu”.

Ma la cantante israeliana si sente tradita anche dalla comunità internazionale. “Abbiamo sentito chiamare Hamas combattenti per la libertà, abbiamo visto strappare i manifesti con le foto dei bambini rapiti”, aggiunge: “Me Too, le donne delle Nazioni Unite, hanno fatto commenti spregevoli sullo stupro delle donne israeliane. Abbiamo sentito le università americane fare dichiarazioni che hanno dell’incredibile. Tutto questo nulla ha a che fare con il sostegno alla causa palestinese”.

Noa, dunque, implora una soluzione diplomatica. “Come ha chiesto Biden, e apprezzo in questo senso la posizione degli Stati Uniti”, conclude l’artista: “Abbiamo bisogno dell’Europa, dei paesi arabi moderati, della Nato, abbiamo bisogno di chiunque possa venire a stabilizzare questa regione e iniziare immediatamente i negoziati per una soluzione di due Stati, Israele e Palestina, uno accanto all’altro. Solo così possiamo avere speranza per il futuro dei nostri figli”.

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PALESTINA/ISRAELE. Sembra la trama di un romanzo distopico: una popolazione disumanizzata dal potere centrale, sottoposta alla fame, alla sete, al paralizzante terrore di morire e alla punizione collettiva per il solo fatto di essere ancora viva. Il gioco non prevede vittoria: la lotta per la sopravvivenza non è di sé, per sé, ma è la sopravvivenza politica altrui, di Netanyahu, del colonialismo di insediamento, di un Occidente che assiste al massacro da spettatore morboso

 Palestinesi in fuga da Khan Younis, nel sud di Gaza - Ap/Fatima Shbairap

Volantini con citazioni del Corano cadono sulla Striscia di Gaza dagli stessi aerei che sganciano un volume di bombe mai sperimentato in un’offensiva moderna. Il comando generale dell’esercito invita a consultare i siti delle istituzioni israeliane per informazioni più accurate.

Mappe della Striscia suddivisa in minuscoli quadratini, frecce rosse e aree con colori diversi (quelle off limits, quelle forse sì, quelle forse no) indirizzano verso le zone considerabili rifugi sicuri. Spoiler: non lo sono, nessuno lo è.

DA DUE MESI Tel Aviv ha aggiornato la sua burocrazia militare al livello «crudeltà», inaccessibile, incomprensibile e vana. A 2,2 milioni di palestinesi – 1,9 sfollati – dice con cadenza quasi giornaliera dove dovrebbero fuggire in un territorio martoriato, privato ormai di infrastrutture civili e strade percorribili, alla ricerca di sopravvivenza.

Alla ricerca di cibo e acqua, così scarsi che la competizione per assicurarsene un goccio è già iniziata. Spostatevi a Deir al-Balah, spostatevi a Rafah, a Khan Younis, di nuovo a Rafah. Chi riesce a giungere a destinazione non trova «premi», né rifugio, né acqua, né cibo.

Sembra la trama di un romanzo distopico o di una serie tv. Gaza come Hunger Games: una popolazione disumanizzata dal potere centrale, sottoposta alla fame, alla sete, al paralizzante terrore di morire e alla punizione collettiva per il solo fatto di essere ancora viva. Il gioco non prevede vittoria: la disperata lotta per la sopravvivenza non è di sé, per sé, ma è per la sopravvivenza politica altrui, del governo Netanyahu, di un colonialismo di insediamento senza soluzione di continuità, di un Occidente fuori dalla storia che assiste al massacro da spettatore morboso.

STATI UNITI ed Europa ripetono ossessivamente quel mantra della «sicurezza» che è illogico quanto le mappe incomprensibili che – non si sa come, visto i limiti alla rete internet – i palestinesi dovrebbero studiarsi sul sito del ministero della Difesa per spostarsi nella prossima casella. Nell’attesa agghiacciante della morte, nell’illusione di sfuggirle ma con la consapevolezza che è lì, a ogni angolo, per chiunque, sotto forma di bomba, di malattia, di sete, di fame. Perché il gioco è così: chissà chi vive, chissà chi muore.

Dopotutto l’autrice di Hunger Games, Suzanne Collins, ha detto di aver immaginato quella storia dopo aver seguito in tv l’invasione Usa dell’Iraq. La realtà non supera mai la fantasia

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Palestinesi in fuga da una parte all’altra della Striscia verso un rifugio che non c’è. Il cibo è introvabile: il 90% della popolazione mangia meno di una volta al giorno. Dopo il veto Usa alla mozione voluta da Guterres, Israele insiste: non abbiamo limiti di tempo, durerà mesi

GIOCO AL MASSACRO. Un fermo immagine del video che mostra decine di palestinesi catturati a nord di Gaza

Un fermo immagine del video che mostra decine di palestinesi catturati a nord di Gaza Un fermo immagine del video che mostra decine di palestinesi catturati a nord di Gaza

Il massacro, come uno show, deve continuare. È quello che dichiara di volere l’Amministrazione Biden che venerdì sera ha posto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il veto ad una risoluzione disperata che chiedeva l’immediato cessate il fuoco a Gaza, proposta eccezionalmente dal segretario generale dell’Onu Guterres che ha fatto ricorso all’articolo 99, quello che denuncia «la minaccia al mantenimento della pace e alla sicurezza internazionale». Il voto dice lo smacco dell’isolamento subito stavolta dagli Stati uniti: sui 15 votanti del Consiglio di sicurezza, oltre la Russia e la Cina anche la Francia ha votato a favore e la Gran Bretagna si è astenuta. Netanyahu, che poggia le sue fortune e la leadership nel gabinetto di guerra che momentaneamente lo ha salvato dalle sue responsabilità per l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ringrazia: finché potrà dimostrare con le stragi in corso, di avere vinto a Gaza.

Così la sua salvezza politica e il suo ruolo di potere saranno definitivi e poco importa della sorte degli ostaggi, come ha detto. Intanto attacca Guterres, lo minaccia e lo indica quasi come un affiliato ad Hamas. Ma la «colpa» di Guterres è solo quella avere detto la verità: «La popolazione di Gaza sta guardando l’abisso, la comunità internazionale deve porre fine al loro calvario» aggiungendo «la brutalità perpetrata da Hamas non potrà mai giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese».

UNA VOCE ACCORATA la sua, il cui pregio oltre ad interpretare la drammaticità degli eventi senza doppi standard, richiama a ruolo l’autorità dell’Onu in questo buio planetario. Una autorità che il governo israeliano ha

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COMMENTI. La decisione del governo Meloni di fare uscire l’Italia dalla cosiddetta «nuova via della seta cinese» rappresenta un errore strategico, che non favorisce l’economia nazionale e non aiuta ad allentare […]

Via della seta addio, prima gli interessi Usa

 

La decisione del governo Meloni di fare uscire l’Italia dalla cosiddetta «nuova via della seta cinese» rappresenta un errore strategico, che non favorisce l’economia nazionale e non aiuta ad allentare le tensioni sullo scacchiere mondiale.

La nuova via della seta è un progetto ormai decennale con cui il governo cinese sta investendo risorse nell’ampliamento delle reti infrastrutturali di trasporto e di connessione verso l’Africa, il Medio oriente e l’Europa, fino alle coste atlantiche della Spagna. L’Italia ha finora partecipato a vari snodi del progetto, riguardanti tra l’altro i porti del mediterraneo e i relativi collegamenti di terra. Dal prossimo anno questi programmi di investimento dovranno essere interrotti o almeno ridimensionati.

Lo strappo del governo italiano è stato caldeggiato per mesi dall’amministrazione statunitense, che ora saluta la decisione con entusiasmo. L’obiettivo di bloccare la via della seta cinese è un tassello della svolta storica che ha portato gli americani ad abbandonare il vecchio liberismo per inaugurare una nuova politica di protezionismo aggressivo, definita friend shoring: vale a dire, ora intendono fare affari solo con gli «amici» occidentali e i loro sodali, mentre puntano a elevare barriere commerciali e finanziarie sempre più alte e selettive contro la Cina, la Russia e gli altri paesi non allineati.

In questa strategia americana rientra pure la costruzione dell’Imeec, il corridoio tra India ed Europa che passa per il Medio oriente, e che gli Stati uniti promuovono come espressa alternativa alla via cinese.

Dal punto di vista americano, questo nuovo ordine protezionista ha precise basi economiche. Si tratta infatti di un tentativo estremo per fronteggiare un ormai sistematico eccesso di importazioni, che ha portato al record storico di 18 mila miliardi di dollari di debito americano verso l’estero, soprattutto verso la Cina. In sostanza, gli Stati uniti faticano a reggere una competizione capitalistica a cui essi stessi avevano dato una spinta decisiva negli anni passati, quando ancora propugnavano la dottrina del libero scambio su scala mondiale.

In questo complicato rovesciamento dialettico, l’Unione europea e l’Italia si trovano in una situazione peculiare: anch’esse con un moderato debito verso il gigante cinese ma complessivamente in posizione di credito verso il resto del mondo. Per loro, quindi, aderire al protezionismo statunitense non avrebbe molto senso, eppure stanno ripiegando passivamente verso di esso. La decisione di ieri, da parte del governo Meloni, è l’ennesima conferma di una manifesta subalternità strategica agli interessi americani.

Purtroppo, la tendenza ad assecondare in modo acritico il protezionismo aggressivo degli Stati uniti non solo non ha solide basi economiche, ma più in generale non aiuta la pace. Come abbiamo sostenuto nell’appello «Le condizioni economiche per la pace» (pubblicato il 17 febbraio sul Financial Times e il 12 marzo su Le Monde), l’idea statunitense di risolvere i problemi di indebitamento dividendo il mondo in due grandi blocchi commerciali, di «amici» e «nemici», rappresenta una delle cause scatenanti delle attuali tensioni militari nel mondo. Basti citare un esempio, tra tanti. Le violenze di Hamas in Israele e il massacro israeliano di Gaza sono stati subito interpretati dal governo cinese come una prova che il corridoio Imeec alternativo alla via della seta è un progetto troppo dipendente dall’ormai fragile egemonia americana in Medio oriente, e quindi instabile e senza sbocco.

I venti di guerra, dunque, vengono intesi come feroci verifiche sulla tenuta o meno del nuovo ordine protezionista. Nella storia del capitalismo un tale funesto inviluppo è già avvenuto. Sta accadendo di nuovo, ma chi ci governa sembra far finta che la cosa non gli riguardi

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