VERSO LE ELEZIONI EUROPEE. La sociologa e filosofa francese Dominique Méda: «La crescita del Pil non significa progresso, bisogna cambiare il paradigma». «Le guerre militari e commerciali accelerano il cambiamento climatico e mobilitano enormi risorse che dovrebbero essere destinate a investimenti ecologici». «Abbiamo bisogno di un’Europa più democratica, con un Parlamento che abbia più potere, smetta di cedere il passo alla Commissione e si rifiuti di accettare accordi meschini tra gli Stati»
«Abbiamo bisogno di un’Europa più democratica, con un Parlamento che abbia più potere, smetta di cedere il passo alla Commissione e si rifiuti di accettare accordi meschini tra gli Stati. Non abbiamo nulla da guadagnare da un ritorno ai mercanteggiamenti tra Stati nazionali, o da accordi fatti in segreto come è accaduto con le ultime direttive sociali». Queste sono le parole di Dominique Méda, sociologa e filosofa francese, autrice di importanti opere sul cambiamento ecologico e la riforma del lavoro come Il manifesto del lavoro. Democratizzare. Demercificare. Disinquinare (Castelvecchi). L’abbiamo incontrata a Firenze, dove attualmente è visiting researcher presso l’Istituto Ciampi della Scuola Normale.
Per Mario Draghi è necessario un cambio di paradigma. L’Europa dovrebbe finanziare una transizione «eco-digitale», la sicurezza militare e la sicurezza economica e sociale. Cosa ne pensa?
Sono totalmente d’accordo con l’analisi sulla necessità di un cambio di paradigma. Ma credo che il paradigma di cui abbiamo bisogno sia più radicale. Da parte mia, utilizzo la nozione di riconversione ecologica, che significa che dobbiamo, da un lato, subire una forma di conversione, un cambiamento radicale nelle nostre rappresentazioni, e dall’altro, organizzare la ristrutturazione delle nostre economie. Credo che la lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità debba diventare una priorità assoluta. Non sono sicura che Mario Draghi sia sulla stessa lunghezza d’onda.
Come mai?
Richiederebbe una pianificazione europea e nazionale, una riduzione radicale del consumo di materiali, la rinuncia alla crescita del Pil, la protezione dei prodotti nazionali ed europei attraverso una forma di protezionismo e una revisione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, la priorità data al settore pubblico rispetto a quello privato, una distribuzione organizzata delle materie prime.
Mi sembrano politiche opposte a quelle neoliberiste che ispirano l’Unione Europea.
Sì, ma l’idea di una biforcazione ecologica ha attraversato la storia delle istituzioni europee. Nel 1972, dopo aver letto il rapporto “I limiti dello sviluppo”, il vicepresidente della Commissione europea, Sicco Mansholt propose al presidente della Commissione, Franco Maria Malfatti, di lanciare un programma globale di cambiamento ecologico. Consiglio vivamente la lettura di questo programma. Purtroppo, negli ultimi cinquant’anni le istituzioni e le élite hanno perso la memoria di queste lotte.
Oggi i principali leader europei insistono sulla necessità di finanziare l’industria militare. Non le sembra che l’Europa si stia trasformando in un modello ancora più ingiusto?
Sì, è così. Da un lato, ci sono molte minacce da parte di imperi esterni, e purtroppo dobbiamo essere pronti ad affrontarle. D’altro lato, la tentazione dell’Europa di chiudersi in se stessa è in totale contraddizione con ciò che dovremmo fare: organizzare una cooperazione globale per dedicare tutte le nostre forze alla lotta contro l’immensa minaccia ecologica che ha iniziato a rendere il mondo inabitabile. Oltre a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da questo grave problema, le attuali guerre militari e commerciali stanno aumentando il cambiamento climatico e mobilitano enormi risorse umane e finanziarie che dovrebbero essere destinate agli investimenti ambientali.
Si dice che una transizione ecologica nella produzione comporterebbe la perdita di posti di lavoro…
È una possibilità, ma non l’unica. Io sostengo l’idea che, se si riesce a farla bene, la biforcazione ecologica potrebbe essere un’opportunità straordinaria per creare posti di lavoro e cambiare il lavoro. La maggior parte degli studi di cui disponiamo dimostra che la conversione ecologica potrebbe creare molti posti di lavoro perché i settori da chiudere o da ridurre sono a minore intensità di lavoro rispetto a quelli da sviluppare (infrastrutture di trasporto, isolamento degli edifici, agricoltura biologica, energie rinnovabili, ecc.) Inoltre, avremo bisogno di più lavoro umano perché dovremo fare meno affidamento sulle macchine che generano emissioni di CO2 e consumano energia. Ma questa conversione è complicata.
Perché?
La ristrutturazione industriale degli anni ’70, ’80 e ’90 è stata un fallimento in Europa. I lavoratori dei settori in via di riconversione sono stati licenziati o costretti al prepensionamento. Se non sappiamo come anticipare, organizzare e sostenere le ristrutturazioni future, ci sarà una forte resistenza al cambiamento. Ma se riusciamo a organizzare questi cambiamenti con le parti sociali e i lavoratori – democratizzando la governance delle imprese e dell’economia – allora, oltre a creare posti di lavoro, saremo in grado di cambiare il lavoro rendendolo meno intensivo e restituendogli un senso.
Lei sostiene un “modello di post-crescita”. Che cosa significa?
Ho iniziato a lavorare su questo tema alla fine degli anni ’90 e ho pubblicato Qu’est-ce que la richesse? una critica all’equazione tra ricchezza e progresso di una società e crescita del PIL. Il PIL non tiene conto delle attività essenziali per la riproduzione e il buon funzionamento della società; non è influenzato dalle disuguaglianze nella produzione, nel consumo o nel reddito; non tiene in alcun modo conto del degrado del nostro patrimonio naturale o della coesione sociale. Dobbiamo adottare altri obiettivi: soddisfare i bisogni essenziali di tutti rispettando i limiti planetari, e quindi altri indicatori.
Quali?
Se mi permette di usare questa immagine, si tratterebbe di racchiudere il PIL – la produzione – in altri due indicatori: l’impronta di carbonio, per rimanere nei limiti fisici planetari, e l’indice di salute sociale, sviluppato dalla mia collega Florence Jany-Catrice. Questo indice tiene conto del benessere sociale che non sempre è legato a un aumento del Pil.
Molti parlano di “crescita verde”. Non ha l’impressione che questo concetto ci impedisca di capire che è il capitalismo a impedire la biforcazione?
Sono assolutamente d’accordo. È solo un trucco che ci fa pensare che la crescita sporca e cattiva possa essere trasformata in crescita pulita con un colpo di bacchetta magica. Certo, sono stati fatti dei progressi in termini di disaccoppiamento: ora produciamo punti di PIL con meno CO2, ma per farlo correttamente avremmo bisogno di un disaccoppiamento radicale che, per il momento, sembra possibile solo con l’aiuto di tecnologie dirompenti che non sono disponibili o i cui effetti potrebbero essere peggiori del male. L’unica strada percorribile è quella della riduzione dei consumi materiali e della sobrietà.
Il suo approccio femminista mette in evidenza il ruolo spesso trascurato ma essenziale del lavoro delle donne. Che ruolo possono avere nella trasformazione che lei prevede?
Una delle prime ricercatrici a evidenziare la responsabilità dello sconvolgimento delle rappresentazioni e dei valori avvenuto nel XVII e XVIII secolo è stata una donna: Carolyn Merchant.In un libro straordinariamente importante, The Death of Nature (La morte della natura), pubblicato nel 1980, l’autrice mostra in che misura la rivoluzione scientifica che ha accompagnato la Modernità abbia determinato la traiettoria dell’Antropocene. In particolare, sottolinea il modo in cui Francis Bacon ha promosso lo sfruttamento della natura e l’estorsione dei suoi segreti, anche attraverso la violenza. Anch’io ho raccontato questo ai miei studenti senza aver letto Merchant.
Forse perché le donne sono più sensibili a questa forma di dominio?
Lo sono, ma non perché siano intrinsecamente diverse, ma perché sono state e continuano a essere dominate e valorizzate negativamente. Le donne sono in una posizione migliore per chiedere l’attuazione di un cambiamento di paradigma: da quello attuale dello sfruttamento, della conquista e dell’estorsione a quello della cura. Questo ci permette di ripensare il lavoro non più come attività finalizzata allo sviluppo e allo sfruttamento, ma come attività che permette la sussistenza rispettando la terra che ci permette di ottenerla. Si tratta di una linea di pensiero molto interessante che diversi ricercatori stanno esplorando. Ed è una buona cosa