QUALE SOLUZIONE. Senza l’avvio di un processo reale di decolonizzazione e se l’autodeterminazione non sarà piena, i palestinesi si ritroveranno con uno Stato sulla carta e un’apartheid paradossalmente legittimata dal resto del mondo
Una manifestazione per la Palestina - Ansa
Ieri, all’annuncio norvegese di riconoscimento dello Stato di Palestina, in molti non hanno potuto fare a meno di notare che a rompere il ghiaccio sia stata Oslo, la città in cui nell’agosto 1993 si conclusero gli accordi politici tra Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e Stato di Israele.
MENO di un mese dopo, furono pubblicamente sanciti dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin a Camp David. L’Intifada era agli sgoccioli, gli accordi di Oslo ne certificarono la fine. Pochissimi all’epoca ne intuirono la trappola, a prevalere fu la gioia per l’inizio di un percorso che si immaginava irreversibile.
C’è chi lesse in quella stretta di mano una vittoria dell’Intifada, ma dell’Intifada fu la tomba. Perché da Oslo non uscì quello che i palestinesi sognavano – e sognano: non tanto uno Stato, quanto la libertà. Il diritto ad autodeterminarsi.
È in questa chiave che andrebbe letta la decisione di Norvegia, Irlanda e Spagna (a cui dovrebbero seguire Slovenia e Malta) di riconoscere lo Stato di Palestina. Con l’ingresso di Oslo, Dublino e Madrid i paesi che hanno fatto altrettanto sono 143. Due terzi del pianeta, eppure uno Stato di Palestina non esiste: non esiste perché manca un elemento indispensabile, l’autodeterminazione.
Che la libertà di scegliere per sé passi per la fondazione di uno Stato è convinzione predominante nei sistemi liberali ma non risolutiva. Che la forma dello Stato-nazione sia la via d’uscita dal colonialismo lo è ancora di meno, tanto più in una regione che ha assunto quel modello a suon di mandati coloniali, con paesi nati tirando linee dritte dove prima i confini non c’erano. Lo Stato-nazione – forgiato su élite politiche imposte da fuori e identità uniche tagliate con l’accetta – è stato per il Medio Oriente un disastro.
I PALESTINESI dovrebbero poter decidere per sé, superando l’idea – predominante a Washington e Bruxelles – che un’eventuale entità possa nascere solo da un negoziato tra le parti, che la sua legittimità discenderebbe da Israele. Non una liberazione, ma una concessione.
Le leadership israeliane che si sono susseguite nei decenni l’hanno narrata così, tanto da porre costantemente diktat utili a rinviare a un tempo indefinito (Netanyahu una decina di anni fa le chiamò «postille»): negoziamo pure, ma alcuni punti non saranno mai sul tavolo.
Non lo sarà Gerusalemme, considerata capitale unica e indivisibile dalle leggi fondamentali israeliane. Non lo saranno i confini dell’eventuale Stato il cui controllo resterebbe a Israele. Non lo saranno le colonie, impossibile smantellarle. Non lo sarà il diritto al ritorno di sette milioni di rifugiati (il 66% dell’intero popolo palestinese).
Di che Stato si parla? Quale Stato si sta riconoscendo? L’esistenza legittima di uno Stato si riconosce quando un’entità esistente e già sovrana è realtà. Non è questo il caso: i territori del 1967 (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) sono occupati.
IL RICONOSCIMENTO altrui diventa dunque la mossa politica con cui si spera di fare pressione su Israele, sugli Stati uniti e sul loro diritto di veto che, di nuovo a metà aprile, ha bloccato la mozione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva di fare della Palestina un membro a tutti gli effetti. Dalla necessità di superare un simile blocco, nasce la spinta di cancellerie e partiti che, anche in Italia, insistono da mesi su una soluzione a due Stati mentre a Gaza si uccidono cento persone al giorno, in Cisgiordania si confiscano altre terre e dentro Israele i palestinesi restano cittadini di serie B.
Di fronte a quello che la Corte internazionale di giustizia ha definito «genocidio plausibile» e quello che Amnesty e Human Rights Watch hanno chiamato «regime di apartheid» sarebbero più urgenti altre misure: sanzioni internazionali, embargo militare, rottura dei rapporti diplomatici. E l’avvio di un processo reale di decolonizzazione: se l’autodeterminazione non sarà piena, i palestinesi si ritroveranno con uno Stato sulla carta e un’apartheid paradossalmente legittimata dal resto del mondo