ISRAELE. Intervista all'antropologa israeliana Maya Wind: «Iai, Rafael, Elbit sono nate negli atenei. E sul piano politico le facoltà di legge producono interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola»
Studenti nel campus della Tel Aviv University - Ap/Tsafrir Abayov
«È nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione». Così Maya Wind conclude la conversazione con il manifesto. Antropologa israeliana alla British Columbia, ha da poco pubblicato per Verso il libro Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom in cui indaga il ruolo dell’accademia nel mantenimento del sistema di oppressione del popolo palestinese.
Partiamo dal ruolo storico nella fondazione dell’industria militare israeliana.
Le università israeliane sono state una colonna portante del dominio razziale, dell’apartheid e dell’occupazione e sono state al servizio dello stato in diversi modi. Innanzitutto, il luogo stesso e il modo in cui i campus sono stati costruiti su terre confiscate, per togliere continuità al territorio palestinese, li rende una delle infrastrutture della spoliazione. Lo è anche la produzione di conoscenza funzionale al sistema militare e di intelligence: molte discipline sono state subordinate alla produzione di ricerche che forniscono da decenni modelli di governo militare dei palestinesi. Infine, c’è l’aspetto tecnologico: l’accademia israeliana ha dato vita all’industria militare israeliana. Le aziende ancora oggi leader sono nate dentro l’accademia israeliana, pensiamo a Science Corps, dipartimento di ricerca interno alle milizie Haganah, operativo nei primi tre campus israeliani, il Technion, la Hebrew University e il Weizmann Institute. Con la fondazione dello stato, accademici e scienziati israeliani hanno lavorato perché Israele non solo importasse armi e tecnologie militari ma perché le sviluppasse. È questa l’origine dell’industria militare israeliana, di Israel Aerospace Industries, Rafael, Elbit Systems, nate dentro le università, in particolare al Technion. Sono le aziende poi divenute esportatrici globali. E dalle loro origini le armi prodotte vengono testate sui palestinesi. Le università sono il laboratorio centrale dell’industria militare israeliana e i loro vertici ne parlano apertamente. Li cito nel libro quando dicono che senza l’accademia Israele non avrebbe mai raggiunto il livello attuale.
Tale collaborazione è ancora attiva e trova applicazione nell’offensiva su Gaza?
Intorno alle collaborazioni c’è grande oscurità. Quello che sappiamo è che tutte le tecnologie sviluppate in passato sono il fondamento di quelle nuove, è come un edificio che cresce. Rafael, Elbit, Iai sono interne al sistema accademico in diversi modi: borse di studio agli studenti, finanziamento di ricerche e interi laboratori, porte girevoli di ricercatori e dipendenti. Sono due sistemi inseparabili. E poi c’è un altro tipo di industria, in particolare all’Università di Tel Aviv, che si occupa di intelligenza artificiale.
Esiste anche un ruolo politico di legittimazione delle pratiche militari?
Da anni e in particolare negli ultimi sei mesi gli accademici reagiscono ai tentativi di giudicare Israele a livello internazionale. Ad esempio alla Corte internazionale di giustizia: accademici e giuristi israeliani producono interpretazioni del diritto umanitario e del diritto di guerra per proteggere Israele dall’accusa di genocidio. Da decenni fabbricano interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola e che le offensive militari contro i palestinesi non comportano crimini di guerra. Le università sono davvero soggetti centrali nel meccanismo di legittimazione e di sostegno dell’impunità israeliana. Quando il Sudafrica si è rivolto alla Cig, facoltà di legge e giuristi si sono subito mossi per produrre controargomentazioni. Tra i più attivi c’è l’ex responsabile del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito che oggi lavora alla Tel Aviv University e che ha detto, la cito: «L’arena internazionale è un campo di battaglia. Devi conoscere il tuo nemico e sapere come affrontarlo, non vogliamo fornirlo di munizioni».
Sul piano politico, abbiamo assistito non solo a una mancata condanna dell’offensiva su Gaza ma anche alla repressione interna ai campus delle voci critiche.
Fin dalle sue origini l’accademia israeliana è stata un luogo ostile e repressivo per studenti e professori palestinesi. Di certo c’è stata un’escalation, con le amministrazioni delle università che hanno sospeso studenti, li hanno cacciati dai dormitori con sole 24 ore di preavviso, chiesto indagini nei loro confronti. La caccia alla streghe è facilitata da facoltà e gruppi di studenti ebrei israeliani, come la National Student Union che sorveglia i palestinesi e li denuncia. Il caso della professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian è esemplare: è stata arrestata e interrogata la scorsa settimana. La ragione per cui è da anni perseguitata è che ha il coraggio di fare ricerca sulla violenza coloniale e la violenza di stato. La Hebrew University è diretta responsabile di quello che le sta accadendo: per anni ha deciso di non sostenerla e infine l’ha sospesa, aiutando il clima di incitamento contro di lei.
Qual è il rapporto tra accademia israeliana e palestinese?
È quello che l’intellettuale palestinese Kamal Nabulsi definisce il lato scolastico dell’occupazione. Israele ha sempre visto nell’educazione palestinese una minaccia, come ogni altra amministrazione coloniale. Per questo l’ha sempre repressa sia dentro Israele che nei Territori occupati. Le università israeliane hanno avuto un ruolo perché hanno condizionato per decenni l’iscrizione dei cittadini palestinesi alla fedeltà allo stato e hanno continuamente represso la ricerca critica palestinese e la mobilitazione interna ai campus. Senza contare il silenzio del mondo accademico israeliano di fronte alla distruzione di tutte le università di Gaza, ai continui raid e agli arresti nei campus in Cisgiordania e a Gerusalemme est e alla detenzione nelle prigioni militari israeliane di studenti e professori palestinesi.
In Italia sono in corso da mesi proteste per porre fine alle collaborazioni con gli atenei israeliani. Negli Stati uniti lo stesso. Si chiede di boicottare le istituzioni, non i singoli docenti. Cosa ne pensa?
Il mio libro intende fornire chiaramente le prove della complicità del mondo accademico israeliano nell’oppressione dei palestinesi. È un fatto che sia complice del sistema di apartheid, occupazione e colonialismo. Per questo ne sostegno il boicottaggio. Penso che per i docenti, gli studenti e le amministrazioni delle università nel mondo (in particolare in Occidente: sono gli atenei occidentali a finanziare e legittimare l’accademia israeliana) sia indispensabile assumersi la responsabilità della propria complicità della mancata libertà dei palestinesi
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E’ di ieri 22 aprile l’ennesimo caso di aggressione di 2 cani feroci ad un bambino con l’uccisione dello stesso ed il ferimento della madre e dello zio nel vano tentativo di salvare la vita del bambino. COME E’ POTUTO ACCADERE?
I canidi sono predatori e sono istintivamente portati ad aggredire qualsiasi essere vivente, soprattutto se lo vedono correre; anche i cani domestici mantengono questo istinto ed in Italia sono centinaia i casi di aggressione alcuni con esiti mortali anche verso i proprietari stessi dei cani che, nel caso poi siano in coppia o in numero ancor maggiore, aumentano la loro pericolosità perché scatta “l’effetto branco”.
Si vede in giro un numero sempre maggiore di persone con al seguito cani di grossa taglia, vocati alla guardia ed alla difesa se non creati per il combattimento, i quali una volta scattata la molla di feroce aggressività sono complicatissimi da gestire. Infatti nulla hanno potuto la madre e lo zio nel loro disperato tentativo di salvare il bambino aggredito.
NON CAPISCO PROPRIO PERCHE’ NON SI RISPETTI E NON SI FACCIA RISPETTARE L’OBBLIGO DI MUSERUOLA PER CERTI CANI!!??
Anche a Faenza corriamo gli stessi rischi:
Praticamente nessuno rispetta o fa rispettare l’obbligo di museruola per certi cani che incontriamo nei corsi cittadini.
Ho notizia dell’episodio di oltre un mese fa dove 30 studenti sono stati costretti a rinchiudersi per mezz’ora nel bar dei Salesiani perché un esaltato lasciava i propri 2 cani di grossa taglia liberi di scorrazzare e ringhiare a tutti senza museruola nel cortile fra i tavoli, senza che lo stesso prendesse atto della pericolosità della situazione.
Anche nelle nostre campagne ci sono situazioni di elevato rischio potenziale di aggressione da parte di cani di grossa taglia lasciati liberi di scorrazzare da parte di persone in passeggiata, ma soprattutto esistono situazioni di pericolo rappresentate da parte di cani da guardia e da difesa, liberi di uscire dalle case ex agricole, modificate a residenza, abitate da persone in molti casi assenti durante la giornata, che non hanno provveduto a dotare l’abitazione di adeguata recinzione, quando addirittura la recinzione sia del tutto mancante; mi riferisco a cani di razze come Maremmani, Leonberger, Pitbull, Rottweieler e chissà quanti altri probabilmente adottati in casa per sentirsi maggiormente sicuri, ma che se te li ritrovi a fianco se fai un giro a piedi o in bicicletta, possono causare gravi infortuni anche solo facendoti cadere se ti mettono le zampe sul petto.
VORREI CHE SI INTERVENISSE DA PARTE DELLE AUTORITA’ PRESTANDO ASCOLTO E MONITORANDO LA SITUAZIONE, PER PREVENIRE POSSIBILI DRAMMI.
LE MISURE SONO SEMPLICI: OBBLIGO DI MUSERUOLA; DI RECINZIONE AD ALTEZZA ADEGUATA; DI CONTROLLO ALL’APERTURA DEL CANCELLO, MA SOPRATTUTTO DI PRESA D’ATTO DELLA RESPONSABILITA’ CUI SI E’ SOGGETTI ADOTTANDO CANI CHE PER LA LORO FORZA, STAZZA, E POTENZIALE AGGRESSIVITA’ POTREBBERO TRASFORMARSI IN VERE E PROPRIE BELVE INCONTROLLABILI.
Faenza 23 Aprile 2024
Medardo Alpi
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CARCERE. «Conducevano il detenuto all’interno della stanza, ove un gruppo di sette assistenti (…) lo aggredivano; in particolare lo ammanettavano con le mani dietro alla schiena, così provocandogli la lussazione della […]
«Conducevano il detenuto all’interno della stanza, ove un gruppo di sette assistenti (…) lo aggredivano; in particolare lo ammanettavano con le mani dietro alla schiena, così provocandogli la lussazione della spalla, lo colpivano ripetutamente con uno schiaffo, un pugno, più calci di cui uno nelle parti intime che gli procurava l’annebbiamento della vista e gli sputavano addosso»; «…lo prendeva per il collo e lo sbatteva a terra facendolo cadere a faccia in giù; subito dopo i quattro assistenti lo colpivano, con calci e pugni, mentre il detenuto si trovava a terra e piangeva, fino a farlo sanguinare dalla bocca, procurandogli un ematoma viola all’occhio e uno alla testa».
Carceri, ancora un incendio al Beccaria
Al Beccaria, secondo la ricostruzione dei giudici nell’ordinanza di custodia cautelare, era normale che un ragazzo fosse picchiato, offeso, torturato. Il sistema, che pare andasse avanti da tempo, è un mix tragico di soprusi, intimidazioni, pestaggi, depistaggi, falsi. Il tutto sempre nella certezza di farla franca. Non funziona, dunque, la retorica delle mele marce. Marcio era il sistema nelle fondamenta che pensava di governare con il terrore un luogo complesso che avrebbe dovuto viceversa essere vocato all’educazione.
Suicidi in carcere, mobilitazione domani dei garanti
Va detto, però, che esiste un’altra faccia della medaglia. Esiste anche un altro Stato: che si indigna, che denuncia, che rischia e si espone per assicurare giustizia. Una filiera di qualità fatta di operatori, psicologi, ma anche del garante di Milano e di un consigliere comunale che hanno portato il caso all’attenzione dei giudici. L’altro Stato è anche quello di altri poliziotti penitenziari (quelli del Nucleo investigativo centrale) che hanno portato avanti l’inchiesta contro i loro colleghi, rompendo la coltre dello spirito di corpo, nonché dei giudici. Ovviamente ci auguriamo che, se si dovesse arrivare a processo, insieme a noi di Antigone, che chiederemo di essere ammessi come parte civile, ci sia anche il governo. E che quest’ultimo riponga nel cassetto ogni intenzione di modificare o abrogare la legge contro la tortura.
Il detenuto albanese che smentisce Nordio
Cesare Beccaria si sta rivoltando nella tomba. Produce rabbia vedere il suo nome accostato a una storia di tortura contro un gruppo di ragazzi molto giovani. Il filosofo milanese nel 1764 aveva teorizzato l’abolizione della tortura definendola «una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni». Nel suo nome ci attendiamo una parola da parte del ministro Nordio contro la tortura e contro i presunti torturatori, nonché le scuse a quei poveri ragazzi a nome dello Stato
IL PASSO FALSO. Un Pd che vorrebbe essere un po’ glam e un po’ pop ma dove, tra una radicalità che per ora sembra ferma agli slogan e trovate estemporanee, i vecchi nodi restano tutti irrisolti e semmai se ne aggiungono di nuovi e sempre più ingarbugliati
Il Pd c’est moi. Elly Schlein ha tentato anche la carta estrema, quella che non è risultata vincente nemmeno nelle mani di uno spregiudicato pokerista come Matteo Renzi: trasformare il principale partito del centrosinistra in un partito personale.
E che abbia tentato di farlo proprio mentre sfoggiava fiera la nuova tessera dem dedicata a Enrico Berlinguer – operazione immagine in risposta alla «questione morale» e già di per sé costata una mezza sommossa degli eredi della cultura cattolico democratica – dimostra quanto la segretaria sia negli ultimi tempi in preda a confusione e improvvisazione.
La diretta Instagram con cui ieri Schlein ha alla fine annunciato che il suo nome non sarà nel simbolo delle europee «perché è una scelta che divide e non rafforza la lista» – ha dovuto ammettere – , è solo una nota di colore sulla confezione di un Pd che vorrebbe essere un po’ glam e un po’ pop ma dove, tra una radicalità che per ora sembra ferma agli slogan e trovate estemporanee, i vecchi nodi restano tutti irrisolti e semmai se ne aggiungono di nuovi e sempre più ingarbugliati.
Ilaria Salis contro il sogno ungherese di Giorgia Meloni
Spingendo la deriva leaderistica anche oltre la candidatura in Europa dove sa già che non andrà, la segretaria sperava di resuscitare lo spirito delle primarie vinte fuori dal perimetro degli iscritti al partito nascondendo allo stesso tempo il cedimento nella formazione delle liste a tutte le correnti nonché le grane giudiziarie in Puglia e Piemonte e il fenomeno persistente e deleterio del trasformismo. Il Pd c’est moi, appunto, bando alle vecchie incrostazioni, il nuovo sono io e tanto basti.
La retromarcia imposta da una levata di scudi da parte dei dem avviene nel giorno di una disfatta in Basilicata. Il Pd, nonostante la rottura di Pittella che con Azione ha portato la sua cospicua dote al centrodestra, la lista dell’ex candidato dei dem Chiorazzo che pesca nello stesso bacino e l’astensione, alla fine tiene.
Ma il modo disastroso in cui si è arrivati alla candidatura last minute di Piero Marrese ha lasciato un segno pesante, con una coalizione amputata anche per aver subito la pressione del leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte che oltretutto di un Campo largo non guidato da lui (nella speranza di varcare di nuovo il portone di palazzo Chigi come inquilino del palazzo) non sa che farsene. E che dopo il flop del suo Movimento in Basilicata troverà probabilmente il modo di infierire ulteriormente, del resto alle elezioni europee competition is competition . E la partita di Bari che si svolgerà insieme a altri importanti test, dopo la cancellazione delle primarie di coalizione potrebbe rivelarsi meno facile di quanto si immagini.
Le liste Pd delle europee sono poi un mix di amministratori a fine corsa, ex parlamentari e famosi di rango, insieme a esponenti della società civile non altrettanto vip infilati nelle retrovie apparentemente solo per fare numero.
Alle elezioni di giugno, che dal momento del suo arrivo al Nazareno sono per Elly Schlein la prova alla quale un pezzo del partito la aspetta al varco, la segretaria rischia di arrivare già sfibrata. Alternando decisionismo, attendismo e rapide ritirate, rischia di far crescere nel partito la schiera dei detrattori pronti a presentarle il conto. Al voto mancano ormai poche settimane, nuovi passi falsi non sono consentiti. E ormai non dovrebbero più essere nemmeno possibili.
Commenta (0 Commenti)Spesso, quando si parla di ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania, si utilizzano dei linguaggi e dei termini non corretti, come per esempio la “guerra” tra Israele e la Palestina o la “guerra” a Gaza. Quando si parla di Israele e Palestina, bisogna prendere in considerazione che la guerra di solito si fa tra due Stati con due eserciti alla pari. Per questo motivo non è il caso della Palestina, perché non c’è una guerra solo a Gaza, bensì ci sono un’aggressione e invasione sia a Gaza che in Cisgiordania.
Dal 7 ottobre a tutt’oggi, l’aggressione comprende anche la Cisgiordania: basta pensare ai posti di blocco dei soldati o attuati dai coloni (oltre 700) o al numero degli arresti che ha superato i 6.500 palestinesi, compresi bambini. In aggiunta a tutto questo vanno sottolineati i comportamenti e l’aggressività dei coloni contro i cittadini e le cittadine palestinesi.
Il numero dei coloni che vive in Cisgiordania oggi ha superato le 726mila persone distribuite in quattro tipologie di insediamenti: quelli grandi come Ma’ali Adumim situato ad est di Gerusalemme, Ofra situato tra Gerusalemme e Nablus, Ariel in Cisgiordania e Kariat Arbà. Questi insediamenti hanno raggiunto una dimensione territoriale e demografica simili a vere ed effettive città con oltre 25mila abitati.
In aggiunta a questi insediamenti, ce ne sono altri di dimensione minore e altri ancora che sono dei nuclei di insediamenti collegati tra di loro per un totale di 448 insediamenti. Una nuova forma di insediamenti che sta prendendo forma è quella legata ai pastori israeliani che occupano un terreno e allevano gli animali e che piano piano si espandano sia dal punto di vista territoriale che demografico.
Tutti questi insediamenti oggi rappresentano quasi il 43% del territorio della Cisgiordania, dove doveva nascere lo Stato della Palestina secondo gli accordi di
Leggi tutto: Palestina, il rischio di una nuova Nakba - di Milad Jubran Basir
Commenta (0 Commenti)Il Def nasconde le vere intenzioni del governo. Ferrari, Cgil: “È un vulnus democratico. Serve un fisco giusto per un welfare pubblico e universale”
In arrivo da tutta Italia per la manifestazione organizzata da Cgil e Uil per rivendicare la difesa e il rilancio della sanità pubblica e universale, in grado di garantire il diritto alla salute, zero morti sul lavoro, una riforma fiscale equa e giusta, salari dignitosi per un lavoro dignitoso. A leggere il Documento di economia e finanza appena varato dal governo Meloni c’è davvero poco da star tranquilli. Una sorta di cornice quasi vuota, che rinvia a dopo le elezioni europee il disvelamento sia delle reali condizioni dell’economia del Paese, sia le scelte che l’esecutivo – per convinzione o per costrizione – si appresta a prendere con la prossima manovra finanziaria. Ma quello che si legge in chiaroscuro aumenta le ragioni della mobilitazione delle due confederazioni. Tagli e tagli al sociale, mancanza di politica industriale e salariale, un’idea di fisco contraria alla Costituzione e negativa per il Paese. Ne parliamo con Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil.
Il fisco è uno dei quattro punti della manifestazione del 20 aprile. Nel Def appena approvato non c’è nemmeno il taglio al cuneo fiscale rivendicato dal sindacato, varato da Draghi e poi rifinanziato da Meloni.
Questa è la prima incognita di un Def che nasconde le reali intenzioni del governo, con l'unico obiettivo di scavallare indenne le elezioni europee. Non sappiamo nulla delle scelte di politica economica che l'esecutivo intende mettere in campo. Consideriamo questo modo di elaborare il Def un vero e proprio vulnus democratico, perché i cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni di votare a ragion veduta e non essere lasciati all’oscuro sulle decisioni che li riguarderanno nell’immediato futuro. Invece la sensazione è che le pessime notizie arriveranno solo a urne chiuse. Senza quadro programmatico, il Def si riduce a una mera fotografia della realtà in essere. E tuttavia non mancano elementi di grande preoccupazione. Il primo: la previsione di Pil per il 2024 è stata ridimensionata dall’1,2% della Nadef all’1%, che però rimane una stima ottimistica rispetto alle analisi dei principali istituti, che fissano la crescita italiana tra lo 0,6 e lo 0,7%. Inoltre, di questo 1%, ben lo 0,9% dovrebbe derivare da un’attuazione tempestiva ed efficace del Pnrr. Due domande sorgono spontanee: dov'è il Pnrr, visto che il ministro Fitto lo ha congelato e “sequestrato” ormai da mesi? Ammesso e non concesso che il 90% della crescita dell'Italia deriverà dal Pnrr, a cosa serve la politica economica e sociale del governo? La verità è che per la prossima manovra di bilancio – tra le misure temporanee che scadono il prossimo 31 dicembre, che richiedono 19 miliardi; la procedura di infrazione per deficit eccessivo che certamente scatterà subito dopo le elezioni europee a carico dell'Italia; il nuovo patto di stabilità che imporrà una stretta alla finanza pubblica – mancano all'appello, a essere ottimisti, almeno 25 miliardi di euro, solo per confermare l’esistente e non cambiare nulla. Ad esempio, che fine faranno i 100 euro netti al mese nella busta paga di 17 milioni di lavoratrici e lavoratori, che derivano dalla decontribuzione e dall'intervento sull'Irpef?
E tutto il resto?
Cosa si intende fare di fronte a una sanità pubblica, già definanziata, che sta implodendo? E per sostenere l’istruzione? E il rinnovo del Ccnl per tre milioni di lavoratrici e lavoratori pubblici, su cui sono state stanziate risorse assolutamente insufficienti nell’ultima legge di bilancio? E sulla previdenza, non si fa nulla per superare la legge Monti-Fornero? Sulle politiche industriali e gli investimenti pubblici extra Pnrr? Continuiamo ad assistere passivamente al processo avanzato di deindustralizzazione che è in corso da tempo? Su tutto questo nel Def non c’è uno straccio di risposta.
Come si lega tutto questo con la riforma fiscale del governo?
Il governo – attraverso la flat tax, il concordato o condono preventivo, non facendo nulla per combattere l'evasione fiscale, anzi premiando settori economici che, a detta dello stesso Mef, hanno una propensione all'evasione del 70% – non fa altro che scaricare interamente sui redditi fissi di lavoratori e pensionati tutte le contraddizioni dell'attuale fase economica. Oltretutto, questo Def fa emergere un ulteriore elemento critico, che riassume tutti gli altri e rappresenta la cifra di fondo dell’azione dell’esecutivo: è scritto nero su bianco che il contributo dei profitti alla crescita inflattiva, che già nel 2022 era del 60%, nel 2023 è ulteriormente aumentato al 70%. Tradotto: il governo sta programmando e assecondando il brutale impoverimento di milioni di lavoratori e pensionati, che ormai sono costretti a utilizzare quote crescenti di risparmio per far fronte alle spese essenziali non comprimibili.
Aumenta l’inflazione a causa dei profitti, ma non si tassano gli extra-profitti…
Non solo non si tassano gli extra-profitti, soprattutto non si interviene nei confronti di un sistema delle imprese che, oltre a scaricare sistematicamente a valle l'aumento dei costi di produzione, oltre a comprimere il costo del lavoro non rinnovando tempestivamente i Ccnl, continua a incrementare i margini, per giunta riducendo pure gli investimenti. Tutto questo, profondamente ingiusto, non fa altro che deprimere ancora di più una domanda interna che, nell'attuale contesto internazionale, rappresenta una leva decisiva per rilanciare la crescita del Paese. La questione che noi poniamo è molto semplice e diretta: di fronte a questa situazione, l'esecutivo intende proseguire con i tagli alla spesa pubblica, in particolare a sanità, scuola, sociale, come ha fatto fin qui e come sembrano confermare le dichiarazioni della presidente Meloni e del ministro Giorgetti? Oppure intende andare a prendere i soldi dove sono, e cioè da extra-profitti, rendite, grandi patrimoni ed evasione, come chiediamo noi? Questo è il nodo politico di fondo.
C’è un’altra questione che il governo sembra non considerare. Se la situazione macroeconomica mondiale è quella descritta dal Def, l'unica possibilità di tenuta del Paese è nel mercato interno. Se i salari continuano a diminuire invece di crescere il mercato interno rimane asfittico.
Affrontare la questione salariale non è soltanto un’esigenza di giustizia sociale, ma un interesse generale del Paese. Aumentare i salari farebbe bene all’intera economia nazionale.
C'è una responsabilità del governo, ma c'è anche una responsabilità delle imprese che rifiutano o ritardano il rinnovo dei contratti.
Con la nostra mobilitazione, infatti, vogliamo contrastare non solo le politiche del governo, ma rivendichiamo anche un cambiamento da parte del sistema delle imprese. Noi diciamo una cosa molto chiara: i contratti vanno rinnovati tempestivamente e adeguatamente. Le imprese non possono pensare di scaricare solo sulla politica e sul fisco la questione salariale, che è innanzitutto e soprattutto una loro responsabilità.
Guardiamo per un momento oltre l'immediato. Un Paese che ha un sistema fiscale, una dinamica salariale come quelli descritti, un’incapacità del sistema delle imprese di pensare a investimenti, un governo incapace di fare politiche industriali, che destino ha?
Ha un destino di declino. Il cuore della strategia del governo è esattamente questo: “Non disturbare chi vuole fare”, come ama ripetere la presidente del Consiglio. Oltretutto, puntando sulla parte più arretrata e meno innovativa del nostro sistema produttivo, come se da lì potesse arrivare la spinta per rilanciare le prospettive dell'Italia. Così il Paese va a sbattere e diventa sempre più marginale anche nella dimensione internazionale, a partire da quella europea. Altro che autonomia differenziata, dovremmo rivendicare politiche industriali ed energetiche comuni a livello di Unione europea, per affrontare le sfide epocali che abbiamo di fronte.
Il 20 aprile in piazza, e poi?
Andiamo in piazza con la Uil su sanità, salute e sicurezza, fisco e salari. Il 25 aprile e il Primo Maggio per difendere e ribadire i valori fondamentali della nostra Costituzione nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro. Il 25 maggio saremo a Napoli con la Via Maestra contro il premierato e l’autonomia differenziata, ma soprattutto per un’idea alternativa di Paese e di società: una Repubblica democratica in cui il lavoro torni a essere strumento di trasformazione, di emancipazione e di progresso; in cui il welfare è pubblico e universale; in cui il fisco è equo e progressivo.
I quattro quesiti referendari e poi la legge di iniziativa popolare stanno dentro questo quadro e in che termini?
Assolutamente sì, stanno dentro questo quadro a partire dalla centralità del lavoro. I quesiti referendari che abbiamo depositato in Cassazione, per i quali cominceremo la raccolta di firme il prossimo 25 aprile, partono da un'idea di fondo: sono una grande battaglia di libertà del lavoro e di contrasto a qualsiasi condizione di ricatto, di subalternità e di sfruttamento. O si mette al centro il lavoro come fondamento ultimo della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, oppure quella prospettiva di declino di cui parlavo non riusciremo a evitarla
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