Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

NO ALLA DEPORTAZIONE “VOLONTARIA” DEI PALESTINESI DA GAZA E DALLA CISGIORDANIA.

Palestinians take part in a protest against the US move to freeze funding for the UN agency for Palestinian refugees at the Rafah refugee camp in the...

L'Assemblea generale della Nazione Unite ha approvato venerdì 10 maggio una risoluzione che riconosce la Palestina, per cui da quella data la Palestina è qualificata a diventare membro
a pieno titolo dell’Onu. L’Assemblea generale raccomanda al Consiglio di Sicurezza di “riconsiderare favorevolmente la questione”. Va ricordato che la Palestina partecipa da decenni ai lavori della Nazione Unite in qualità di Osservatore.

Questo voto, in piena aggressività e guerra senza precedenti da parte dell’esercito israeliano, rappresenta un referendum mondiale al livello più alto dal punto di vista istituzionale, che ha visto un verdetto chiaro e trasparente con 143 Stati a favore del riconoscimento della Palestina, 9 contrari, tra cui gli Usa, l’Ungheria, l’Argentina e Israele.
Venticinque Stati, fra cui l’Italia, la Germania e l’Inghilterra, si sono astenuti, andando contro ogni logica e diritto internazionale. Questi Stati da anni non fanno altro che parlare di “due Stati e due popoli”, ma evidentemente si tratta di chiacchiere e null’altro. Una ipocrisia politica che con questo ‘referendum’ si è manifestata in modo chiaro e trasparente.
L’Italia guidata dalla destra appoggia in modo incondizionato il governo israeliano, non rispettando la storia che ha “il bel paese” con la causa e il popolo palestinese.
Il governo italiano, con questo comportamento antistorico, annulla e cancella una tradizione oramai consolidata di solidarietà, vicinanza e sostegno del diritto del popolo
palestinese all’autodeterminazione.

Il 10 maggio, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dato alla Palestina il diritto di operare all’interno del suo plenum, come Stato membro a pieno titolo.
Questo voto rappresenta a tutti gli effetti un referendum mondiale sulla questione palestinese, a cui ne va aggiunto un altro rappresentato dall’opinione pubblica mondiale dei giovani universitari in tutto il mondo, che si stanno mobilitando per sostenere il diritto del popolo palestinese.
Due ‘referendum’ schiaccianti che si contrappongono  allo spirito coloniale ancora vivo in molti Stati occidentali.

Il voto del 10 maggio dimostra in modo inequivocabile che purtroppo non ci siamo ancora liberati da questo concetto.
Il 15 maggio ricorre l’anniversario del Nakba e, purtroppo, dopo 76 anni, anziché affrontare la tragedia di un popolo, il mondo occidentale non solo sta a guardare di fronte alla seconda Nakba che si sta verificando a Gaza e in Cisgiordania, ma agisce diventando esso stesso complice di questa ennesima tragedia del popolo palestinese. Da tempo si parla di deportazione di massa dei palestinesi di Gaza. E siccome questa proposta ha trovato un rifiuto da tutti, sia dai popoli che dai governi di tutto il mondo, si è iniziato a parlare di ‘migrazione
volontaria’, un termine molto soft per evitare la reazione ed il rifiuto della politica verso la deportazione di massa, l’ennesima pulizia etnica.
L’annunciata costruzione di un porto mobile a Gaza da parte dell’amministrazione americana, che ufficialmente doveva essere utilizzato per fare arrivare gli aiuti umanitari ed i medicinali, di fatto serve a permettere la migrazione “volontaria” di chi non vuole morire sotto le bombe oppure per fame.

Chi accoglierà questi “deportati volontari” palestinesi? Sembra pronto un piano di distribuzione. Se queste informazioni si riveleranno fondate, sarà l’ennesimo atto di ingiustizia verso il popolo palestinese, di cui l’Occidente dovrà assumersi la responsabilità di fronte alla storia e alle future generazioni.

Commenta (0 Commenti)

RIFORME. Non bastavano premierato e autonomia differenziata. E adesso la destra al governo vuole costruire il futuro tornando al passato di Berlusconi

Illustrazione Ikon/Ap Illustrazione Ikon/Ap

Nel baratto delle riforme la destra completa la trilogia aggiungendo la giustizia a premierato e autonomia differenziata. Nel mercatino, è la quota di Forza Italia. Dovrebbe comprendere la separazione delle carriere, due organi di autogoverno, un’alta corte. Si parla di cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale. Scende in campo l’Associazione nazionale magistrati, che approva nel congresso di Palermo un documento di fermo contrasto. Ma Meloni accelera e annuncia l’arrivo in consiglio dei ministri a giorni, comunque prima del voto europeo.

In realtà, non si guarda al futuro, come sempre ama dire Meloni per le riforme, ma si torna al passato. Già il Piano di rinascita di Gelli, per evitare che la giustizia svolgesse funzioni di “eversione”, chiedeva di separare le carriere requirente e giudicante, di introdurre esami psicoattitudinali per l’accesso in carriera, di rendere il CSM responsabile verso il parlamento.

Cogliamo poi ampie affinità tra quello che la destra mette oggi in campo e la proposta di “riforma epocale” (Berlusconi-Alfano, AC 4275) recante una radicale modifica del Titolo IV, Parte II della Costituzione sulla magistratura. Presentata il 7 aprile 2011, finì per la crisi del IV Berlusconi su un binario morto. Vediamo ora un sostanziale copia e incolla.

L’AC 4275 separava rigidamente le carriere. Sdoppiava il consiglio superiore della magistratura in due organi separati, a composizione paritaria tra laici eletti dal parlamento e togati eletti previo sorteggio. Presieduti dal capo dello stato, eleggevano il vicepresidente tra i laici. Prevedeva una corte di disciplina divisa in due sezioni per giudici e pubblici ministeri, a composizione paritaria, con la componente togata eletta previo sorteggio, con presidente e vicepresidenti di sezione eletti tra i laici. Oggi, un remake. Gli elementi essenziali dell’AC 4275 rimangono, con qualche variazione terminologica.

Vanno segnalati anche altri due punti dell’AC 4275, in specie rilevanti. Il primo. Si modificava l’art. 109 vigente con la formula “Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge”. Il secondo. Si riscriveva l’art. 112 prevedendo per il pubblico ministero “l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge”. Richiami alla legge assenti nel dettato costituzionale vigente. Sono modifiche auto-esplicative, il cui senso era illustrato anche dalla formula del nuovo art. 104: “l’autonomia e l’indipendenza sono prerogative dell’ufficio requirente e non del singolo magistrato”.

Oggi è possibile, anche per le tempeste giudiziarie in atto, che sulla obbligatorietà dell’azione penale la destra proponga una riscrittura. È un punto che più di altri può segnare un radicale distacco dall’assetto costituzionale vigente, aprendo alla subordinazione della potestà punitiva dello stato alla maggioranza politica pro tempore. Di sicuro, richiede si alzino barricate nel confronto parlamentare.

Più in generale, la riforma della giustizia si iscrive tra i sintomi di un complessivo scivolamento verso forme orbaniane di autocrazia. Li segnalano non solo il merito delle riforme, ma anche ad esempio il richiamo insistito di Meloni a una legittimazione plebiscitaria nel futuro referendum costituzionale, lo stallo nella elezione di un giudice costituzionale in attesa che l’uscita di altri dia un pacchetto da spartire tra i partners di governo, la violazione di regole e prassi parlamentari a favore della maggioranza, la gestione della TV pubblica, le manganellate agli studenti, le posizioni sui migranti. Bene le opposizioni – cui si aggiunge la senatrice Segre – che alzano la voce nel dibattito sul premierato in corso in Senato.

Può darsi che l’uscita di Meloni sull’arrivo in consiglio dei ministri sia solo uno spot elettorale o un tentativo di assicurare al governo acque tranquille. Ma sulla giustizia il richiamo della foresta si mostra forte per la destra. Potrebbe cercare sostegno nei lavori dell’Assemblea costituente, come fa la relazione all’AC 4275. È possibile che citi tesi sostenute dalla sinistra. Indubbiamente quel dibattito fu segnato da opinioni diverse e contrasti anche notevoli. Ma non si può riscrivere la storia con posizioni che furono superate e non si tradussero nel dettato costituzionale. Sarebbe comunque falsa la continuità di una Costituzione della destra volta a sostituire la Costituzione antifascista nata dalla ResistenzaRi

 

Commenta (0 Commenti)

INTERVISTA SULLE PRIVATIZZAZIONI. Il segretario generale della Slc: «Svendono la gallina rinunciando all’uovo: Poste garantisce un dividendo da un miliardo l’anno. Aumenterà il deficit. Giorgetti è la controfigura sbiadita di Draghi»

Poste italiane Un ufficio di Poste Italiane - Foto LaPresse

Fabrizio Solari, segretario generale Slc Cgil, il governo Meloni, spinto dal ministro Giorgetti, ha deciso di far cassa dismettendo tutto il possibile. Privatizzare è la nuova parola d’ordine della politica economica.
Il governo Meloni in questo modo ha deciso che l’Italia rinuncia ad aver in futuro. La nuova fase geopolitica in cui si torna indietro dalla globalizzazione e la nuova religione, peraltro segnalata dalle guerre, prevede aree di interesse e filiere corte. In questo quadro, per affrontare le tre rivoluzioni – energetica, ambientale, tecnologica – servono investimenti forti e un governo che li guidi. L’Europa è in difficoltà ma l’Italia è proprio alla canna del gas. Tutti gli indici ci danno in dismissione e il sintomo più evidente del mancato futuro del nostro paese sono le centinaia di migliaia di giovani che se ne vanno. In più noi scontiamo un fatto storico: l’Italia è fatta di piccole aziende e le pochissime grandi aziende sono quelle a partecipazione statale. E sono le uniche a poter gestire queste rivoluzioni. Invece le privatizziamo come abbiamo fatto con il trasposto aereo, diventando un mercato per gli altri.

Il segretario generale della Slc Cgil Fabrizio Solari

La logica del montante ritorno dell’austerità, legato al nuovo Patto di stabilità europeo, porta Giorgetti ad avere comunque l’esigenza di far quadrare i conti.
E i conti non tornano. Qui siamo a chi si vende la gallina rinunciando all’uovo che ci fa tutte le mattine. Il piano di Giorgetti è che i proventi delle privatizzazioni vadano tutti per abbattere il debito. Ma sono 20 miliardi su 2.895 miliardi: un’inezia anche sommando qualche centinaio di euro di minori interessi. Ma il caso di Poste fa saltare tutta la logica. Per cedere 4 miliardi di azioni si sta rinunciando a un miliardo di dividendo l’anno – la trimestrale è di 500 milioni con un controvalore di oltre 300 milioni per lo stato – è una follia. Come può sembrare sensato a qualcuno me lo deve spiegare perché così si aggrava il deficit.

E quindi quale motivazione può avere un’idea tanto peregrina dal punto di vista dei conti?
A pensar male, diceva Andreotti, spesso ci si azzecca. L’unica motivazione è l’idea che si debbano accarezzare i poteri forti. È evidente che con queste privatizzazioni il governo Meloni fa un favore a i fondi di investimento internazionali. Stai dicendo ai fondi: “Compratevi l’Italia, noi ve la vendiamo”.

Sarà un caso ma quasi tutte le privatizzazioni sono nel vostro settore e tutto è iniziato con lo spezzatino operato su Tim.
Sì, a parte il fatto che Tim non fa utili, è partito tutto da lì. Come dice finalmente anche Draghi – a cui diamo il benvenuto nel club di chi ha sempre contestato la deriva mercantile del settore comunicazioni – l’Europa ha sbagliato e non ha player globali. Ma ora noi italiani non possiamo più esserci: solo Germania e Francia hanno mantenuto un’azienda di sistema ex monopolista, invece noi abbiamo fatto lo spezzatino e non siamo più della partita.

Poste ha 130mila lavoratori e perfino la Cisl è contro la privatizzazione.
 è la prima azienda italiana per occupazione e raccoglie la gran parte dei risparmi degli italiani sul territorio con l’accordo con Cdp. Ha 14 mila uffici che nelle aree interne del paese sono l’unico presidio dello stato. Se arriva la logica dei fondi di investimento, si tagliano subito gli uffici e addio all’ultimo brandello di unità di questo paese.

Eni però è il gioiello di famiglia. Si dice che De Scalzi è più potente di un ministro.
Sì, però oggi Eni è largamente in mano al mercato. Quando scendi invece al 35%, come anche in Enel, mantieni il controllo ma non puoi usare per fare politica industriale. Con la guerra in Ucraina, Macron ha rinazionalizzato Edf e ha imposto il prezzo politico dell’energia elettrica. Anche questo noi non lo potremo più fare. Non so cosa pensi De Scalzi, ma quando abbiamo chiesto all’ad di Poste Del Fante cosa pensasse della privatizzazione, lui ha risposto che chi decide è il padrone e quindi il governo.

E del Giorgetti tecnocrate cosa pensa?
È la controfigura sbiadita di Draghi ma Draghi è più libero. Risponde a quell’ambiente ma la differenza è che sia sulla Bce che sulle Tlc Draghi dice cose non scontate e che non vanno benissimo al mercato.

LEGGI ANCHE 

Le privatizzazioni dei sovranisti: Giorgetti pensa a quote Eni, Poste e Enel

Commenta (0 Commenti)

INTERVISTA. La segretaria dem: «Drammatici i dati su povertà e salari, siamo al fianco dei lavoratori». «Il salario minimo è sempre più urgente per alzare gli stipendi più fermi in Europa. E non è vero che fa diminuire l’occupazione. Per Meloni sarà difficile bocciare la legge popolare». «La mia vittoria nasce dalla spinta della base dopo gli errori del passato: la gente mi riconosce coerenza. Il confronto da Vespa? Avevo detto ovunque, ma la Rai resta megafono del governo»

Elly Schlein: «In un anno il Pd è cambiato su lavoro, migranti e diritti» Elly Schlein - Ansa

Elly Schlein risponde al telefono da Gradisca d’Isonzo, in una tappa del suo tour elettorale: «Dieci anni fa la mia campagna per le europee partì proprio da qui, con una camminata dall’allora Cie fino al sacrario militare di Redipuglia. Ci battevamo contro i centri di detenzione per i migranti, contro i nazionalismi e i muri, le stesse cose per cui lottiamo ancora: da allora l’Europa ha fatto passi avanti con gli investimenti comuni del Next Generation Eu che noi vorremmo far proseguire per sostenere un piano industriale green; sui migranti invece manca ancora la solidarietà europea, abbiamo votato contro il nuovo Patto Ue perché restringe i diritti, prevede le schedature per i bambini e non impone la redistribuzione di chi arriva». Poi la visita allo stabilimento Electrolux, salvato 10 anni fa grazie alla mobilitazione dei lavoratori dalla delocalizzazione in Polonia: «Ma ora i dipendenti sono preoccupati per il calo della produzione e per il taglio dei posti, noi saremo al loro fianco». Mentre parla arriva la notizia dei domiciliari per Ilaria Salis: «Una grande notizia, un primo passo avanti: ora speriamo possa rientrare al più presto in Italia e che il governo si adoperi per questo».

Alla fine Salis si è candidata alle europee con Sinistra e Verdi e non col Pd. Ha dei rimpianti?

Ringrazio il padre Roberto che ha sempre riconosciuto la nostra vicinanza a Ilaria, ben prima che diventasse un caso nazionale con le immagini choc delle catene: ci siamo battuti per denunciare le condizioni inumane della sua detenzione, per chiedere al governo italiano di fare di più. E continueremo a farlo.

Gli ultimi dati Istat segnalano un drastico aumento della povertà e, in particolare, dei lavoratori poveri, il crollo del potere d’acquisto dei salari. Il recupero del Pil produce nuove diseguaglianze.

Un quadro drammatico, che per me non è una novità: in Italia ci sono 5,7 milioni di poveri, cancellare il reddito di cittadinanza è stata una follia voluta da Meloni, considerando che la stessa Istat certifica che questo strumento ha tirato fuori dalla povertà 1,3 milioni di famiglie tra il 2020 e il 2022. Si poteva migliorare, rendere più accessibile e invece niente: per la destra la povertà resta una colpa, non un problema sociale.

Da tempo voi insistete per il salario minimo. Di fronte a questi numeri sarebbe sufficiente come misura?

In tre anni i prezzi sono aumentati del 17%, i salari del 4,7%, il lavoro dipendente si è impoverito come in nessun altro paese europeo: i nostri salari sono più bassi rispetto al 1990. Ci sono 5 milioni di lavoratori che aspettano con urgenza il rinnovo dei contratti, quelli pirata vanno bonificati, e poi c’è la proposta di tutte le opposizioni di un salario minimo a 9 euro l’ora per cui stiamo raccogliendo le firme per una proposta di legge popolare, che sarebbe a costo zero per le casse dello Stato. C’è in 22 paesi europei, non ha mai prodotto cali dell’occupazione e ha avuto un’incidenza positiva sulla dinamica salariale complessiva, come dimostra il caso tedesco.

La scorsa estate avete raccolto 300mila firme sulla proposta delle opposizioni per il salario a 9 euro, e la destra in Parlamento l’ha bloccata attribuendo la delega al governo in tema di salari. Ora ci riprovate con le firme. Non crede che l’esito sarà lo stesso? Se non viene adottato evidentemente è perché a qualcuno non conviene.

Non conviene ai portatori di interesse che Meloni vuole proteggere, mentre volta le spalle a 3,5 milioni di lavoratori. Ma sono convinta che questa volta per loro sarà ancora più difficile dire no a una legge popolare con migliaia di firme: il salario minimo è apprezzato dal 70% degli italiani, compresi molti loro elettori.

I dati sulla povertà spiegano bene l’astensionismo crescente. I partiti litigano ma la situazione materiale peggiora. Lei come pensa di investire questo trend?

Con proposte concrete che producano soluzioni. Il mio progetto di legge per portare al 7,5% del pil la spesa sanitaria va al cuore di uno dei principali problemi degli italiani. La fondazione Gimbe dice che 4 milioni di persone rinunciano alle cure. A Pesaro una donna mi ha fermato per dirmi che dopo la diagnosi di tumore non riusciva a fissare visite successive e ha dovuto pagare 500 euro nel privato. Il suo pensiero è andato a chi non ha quei soldi. Io capisco le ragioni di chi pensa che il voto non serva a cambiare le cose, anch’io in passato ho avuto momenti di rassegnazione. Ma la politica comunque si occupa di noi, e l’unico strumento che abbiamo è il voto.

Tra le persone che incontra vede segnali di ritorno alle urne?

Percepisco un rinnovato entusiasmo attorno alla proposta del Pd, una apertura di credito che non era scontata: siamo stati a lungo identificati con il governo.

Se i salari sono così bassi e il lavoro precario non è solo colpa di Meloni. Dal 1990 fino a oggi avete governato a lungo. C’è stata una seria autocritica?

Siamo l’unico partito che fa i congressi e cambia la sua linea. Se il centrosinistra avesse fatto tutto bene io non sarei mai stata eletta segretaria. Il mio lavoro di ricucitura parte proprio dalla critica per gli errori commessi su lavoro, immigrazione, diritti. Vado nel dettaglio: le leggi sulla precarietà, i contratti a termine, anche alcune scelte su scuola e sanità. Al congresso del 2023 abbiamo intercettato una volontà di cambiamento che c’era nella nostra base. Cosa che non può accadere nei partiti personali dove ogni di cambio di linea dipende solo dalla volontà del capo non dalla partecipazione di massa alle primarie.

Riuscirà a portare fino in fondo questo cambiamento?

Tra gli elettori c’è un riconoscimento della sincerità di questo sforzo, ma dopo tanti anni di fratture la fiducia non la ricostruisci con uno schiocco di dita. E non basta una persona. Sono però convinta che tante persone che hanno votato Meloni sperando in un cambiamento positivo ora siano deluse: col tempo la verità viene a galla, così come l’incoerenza. Qualche giorno fa allo zen di Palermo ho toccato la disperazione di famiglie che hanno perso il rdc. La signora Rosalia mi ha detto che vorrebbe che il governo vedesse la loro sofferenza: hanno perso un sostegno ma il lavoro non c’è, e la colpa non è certo loro. Se davanti alla povertà non arriva prima lo Stato, si lascia spazio al ricatto delle mafie.

L’8 e 9 giugno si vota in oltre 3mila Comuni, di cui 27 capoluoghi. A Bari e Firenze il centrosinistra si presenta diviso. E’ preoccupata?

Abbiamo lavorato ovunque per l’unità e senza veti per nessuno, da quando sono stata eletta abbiamo costruito coalizioni con M5S e sinistra in 4 regioni su 5 e in 22 capoluoghi su 27. Sono soddisfatta del lavoro fatto. Su Bari e Firenze ho fiducia, pur senza dare nulla per scontato: abbiamo delle squadre molto forti. Sui numeri delle città dove vinceremo non fisso asticelle perché porta iella.

Perché ha accettato di fare il confronto tv con Meloni sulla Rai e da Vespa? Non le pare un set molto più favorevole alla premier?

Fin dall’inizio ho detto che avrei fatto il confronto ovunque e sono stata coerente, nonostante la nostra battaglia l’occupazione militare della Rai che è diventata un megafono del governo. Ho accettato di farlo anche lì

 

Commenta (0 Commenti)

La senatrice a vita interviene in aula e boccia il ddl Casellati contro il rischio autocrazia

 Liliana Segre durante il discorso in aula - foto Ansa

Che Liliana Segre avrebbe fatto nell’Aula del Senato un intervento sul premierato all’insegna della franchezza era trapelato. Ma lo spessore morale della senatrice a vita, chiamata a Palazzo Madama dal presidente Mattarella, ha reso gli argomenti espressi ieri contro il ddl Casellati come macigni in grado di seppellire il testo, anche di fronte all’opinione pubblica se il centrodestra volesse correre verso il referendum.

Liliana Segre

Illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare e drastico declassamento a danno del presidente della Repubblica
LA CRONACA DELLA GIORNATA è iniziata ieri mattina sulle pagine del Corriere della Sera, dove il prof Angelo Panebianco ha invitato la maggioranza a modificare il ddl sul premierato elettivo accettando le migliorie ( ballottaggio, voto degli italiani all’estero, ecc) indicate da una serie di costituzionalisti e studiosi. Per rafforzare il suo ragionamento Panebianco ha attaccato «l’opposizione intransigente dei soliti noti, quelli che ’non si tocca la Costituzione nata dalla Resistenza’». Un colpo al cerchio e uno alla botte nella speranza di farsi sentire dal centrodestra.

Nel pomeriggio in Senato è ripresa la discussione generale sul ddl Casellati, fase che dovrebbe chiudersi domani mattina. E qui l’intervento della senatrice Segre, prima ancora degli argomenti, ha mostrato una lucidità politica sullo stato del dibattito: la maggioranza è chiusa nel patto Lega-Fdi su autonomia e premierato, e quindi è sorda a qualsiasi istanza estranea a tale accordo. Un punto che Panebianco non ha ancora capito. Di qui la scelta di Segre della franchezza, resa ancora più forte dal sul tono pacato.

«IL TENTATIVO DI FORZARE un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo», ha detto Segre, comporta «il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale». «Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato».

Insomma una «illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare». «Ulteriore motivo di allarme – ha insistito Segre – è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica». «E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza». «Ciò significa che il partito o la coalizione vincente – che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato – sarebbe in grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento». E poi la chiusa impietosa: «Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan ’scegliete voi il capo del governo!’ Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate».

LA PREMIER Giorgia Meloni, a fronte delle argomentazioni di Segre non ha saputo far altro che ribadire che si va avanti a testa bassa verso il referendum: «Non è un referendum sul presente, vedo sempre tirare per la giacchetta il presidente della Repubblica ma nel 2028 saremo anche verso la fine del mandato di Sergio Mattarella, è una riforma che guarda al futuro».

Commenta (0 Commenti)

La presidente della Commissione europea in campagna elettorale per un secondo mandato arriva a Roma, ma la lasciano sola. Perno di un’alleanza a Bruxelles tra i popolari e la destra, viene tenuta lontana persino dalla «sua» Forza Italia. E Meloni preferisce nascondersi

IN CERCA DEL BIS. Restare in silenzio una volta lasciato il potere è una scelta legittima e perfino ammirevole. Nondimeno l’ermetico silenzio di Angela Merkel, più ancora della sua assenza, la settimana scorsa, dal […]

Restare in silenzio una volta lasciato il potere è una scelta legittima e perfino ammirevole. Nondimeno l’ermetico silenzio di Angela Merkel, più ancora della sua assenza, la settimana scorsa, dal congresso berlinese di quello che fu il partito che guidava, ci dice molte cose. Ma soprattutto una: l’attuale Germania ha ben poco a che vedere con quella che abbiamo conosciuto durante il suo lungo cancellierato. E la Cdu, partito di maggioranza relativa, si sta prendendo la rivincita sulla politica di Angela Merkel e la sua popolarità, ampiamente sfruttata ma mai davvero digerita. Un ampio spazio a destra è oggi al centro della contesa: tentare di conquistarlo accentuando i propri tratti reazionari (e compromettendo così definitivamente il rapporto con i socialisti in Europa) o rassegnarsi a un’alleanza con almeno una parte dell’estrema destra? Un dilemma che insidia la campagna elettorale di Ursula von der Leyen per restare alla presidenza della Commissione.

Tre punti sono sufficienti a chiarire la differenza tra la Germania della Cancelliera e quella attuale. Fu Merkel ad abolire quel servizio di leva obbligatorio che ora la Cdu e in particolare la sua patriottica federazione giovanile decidono di reintrodurre, sia pure con l’ausilio di formule graduali e rassicuranti. Certo, di mezzo c’è una guerra in corso in piena Europa, ma le risposte potevano essere molto diverse dalla coscrizione e da smisurate politiche di riarmo che non rafforzerebbero l’indipendenza e il peso del Vecchio continente comunque impossibile da conseguire, sia verso est che verso ovest, sul piano della potenza militare.

Di fronte a una delle più imponenti ondate di profughi che avessero investito la Germania, Merkel aveva pronunciato il famoso

Commenta (0 Commenti)