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Partono gli ordini di evacuazione, decine di migliaia di palestinesi in fuga dal sud della Striscia, ma Israele colpisce ormai ovunque, anche se il leader di Hamas non è più lì. Il dipartimento di Stato: le armi Usa “potrebbero” aver violato il diritto umanitario

STATO DI PALESTINA. Usa e Occidente vogliono i palestinesi non come soggetti aventi diritti, ma come ombre elemosinanti ridotte ad una subalternità che cancelli le aspirazioni umane e politiche

Una protesta pro Palestina in California Una protesta pro Palestina in California - Ap

Il voto a schiacciante maggioranza dell’Assemblea dell’Onu che riconosce il pieno titolo dello Stato di Palestina ad essere ammesso alle Nazioni unite è atto formale e simbolico, decide il Consiglio di sicurezza. Ma esistono momenti nella storia non solo dei popoli, anche individuali e di classe, in cui eventi “simbolici” acquistano una valenza ben superiore al loro effettivo contenuto.

È questo il caso della risoluzione approvata venerdì sera. Che 143 paesi, con una rilevanza del Sud del mondo e con una Europa a dir poco divisa – Francia, Spagna e Germania hanno approvato – abbiano votato a favore mentre 25 si sono astenuti e 9 hanno votato contro, non è cosa da poco mentre è in discussione l’intera esistenza del popolo palestinese.

Non si capirebbe altrimenti la rabbiosa reazione del rappresentante israeliano che accusando l’Assemblea «di avere aperto la porta ai nuovi nazisti» e «di avere fatto a pezzi la Carta dell’Onu», ha platealmente strappato nella macchina trinciacarta la Carta medesima – come se i governi israeliani non l’avessero fatta a pezzi da tempo, misconoscendo tutte le Risoluzioni dell’Onu che dal 1967 impongono ad Israele di ritirarsi dall’occupazione militare dei Territori palestinesi.

Così come non è inutile scoprire che tra gli astenuti c’è l’Ucraina che combatte contro l’aggressione russa e vuole armi per i territori occupati (del Donbass) ma si volta dall’altra parte rispetto a territori occupati palestinesi; e c’è l’Italia, ai margini della storia, a chiacchiere meloniane impegnata sul Sud del mondo con il suo neocoloniale Piano Mattei, per poi scoprire che vota all’opposto del Sud del Mondo e sui diritti della Palestina tace e acconsente; ecco poi tra i contrari le “perle democratiche” di Argentina, Ungheria e della neoatlantica Repubblica ceca.

E gli Stati uniti, che solo ad aprile hanno posto il veto su questo tema al Consiglio di sicurezza, con motivazioni balbettanti che rasentano il comico se non fossero tragiche: «L’adozione di questa risoluzione non porterà cambiamenti tangibili ai palestinesi, non metterà fine ai combattimenti a Gaza né fornirà cibo, medicinali e riparo ai civili. È qui che si concentrano

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AUTONOMIA DIFFERENZIATA . Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di […]

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista»

 Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita. Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo? Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano. A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale. Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori. Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.
Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità

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RIFORME. L’Ufficio studi di palazzo Madama evidenzia le incongruenze e le ambiguità del ddl Casellati, osservate anche dai costituzionaliasti. La discussione generale sul testo riprende martedì. La maggioranza leggerà i rilievi?

 La ministra Casellati - foto di Maurizio Brambatti/Ansa

L’ufficio studi del Senato non ha fatto sconti al ddl Casellati sul premierato elettivo. Con un linguaggio più paludato del consueto – la pressione sui dipendenti di Palazzo Madama è forte – il dossier preparato per l’approdo in Aula del testo, ne evidenzia tutti i “bachi” e i “buchi” a partire dal fatto che vengono taciuti una serie di elementi necessari, rimandandoli alla legge elettorale. La discussione generale sul testo riprenderà martedì alle 16 e l’auspicio è che anche nella maggioranza vengano letti questi rilievi.

I dossier del Servizio studi ordinariamente segnalavano gli elementi su cui intervenire con una esortazione («si valuti l’opportunità di…») che nel caso del premierato viene evitata; tuttavia altre espressioni («rimane da approfondire» o «appare da approfondire») pur attenuate, sono altrettanto indicative, mentre il ripetuto «pare» segnala che il testo è ambiguo, che può essere interpretato in vari modi.

LA PRIMA INCONGRUENZA riguarda l’elemento centrale del ddl, racchiuso nel comma: «Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». «Pare – osserva il dossier – così esser fatto proprio un modello di ‘governo di legislatura’». E però il ddl Casellati prevede la possibilità di un secondo premier che subentra a quello eletto, e anche «apposite fattispecie di scioglimento ‘necessitato’ delle Camere», Camere che quindi durerebbero meno dei cinque anni del mandato del premier eletto. Insomma è quello che hanno detto tutti i costituzionalisti ascoltati in audizione: la durata della legislatura, nei regimi parlamentari, è quella del parlamento. Per un mandato elettivo diretto può essere indicata la durata, come avviene negli Usa o in Francia per il presidente, ma non quando questo dipende dalla fiducia del parlamento la cui legislatura può durare meno. Errore da matita blu.

L’ALTRO ELEMENTO che i funzionari di Palazzo Madama chiedono esplicitamente di «approfondire» è apparentemente più tecnico, ma nasconde un “baco” che può creare un cortocircuito istituzionale: «Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale abbia presentato la sua candidatura», afferma il ddl per fugare il fantasma di presidenti del consiglio tecnici. Ma allora «la legge elettorale dovrà prevedere forme di collegamento fra la candidatura a Presidente del Consiglio e la candidatura a parlamentare, tali da garantire che l’elezione a Presidente del Consiglio comporti comunque anche l’elezione alla Camera per la quale il Presidente eletto abbia presentato la sua candidatura a parlamentare». Detta altrimenti: una legge elettorale che garantisca l’elezione di un candidato, seppur aspirante anche alla carica di premier è un tantino incostituzionale. Non solo: rimane «da approfondire, si direbbe, la questione della cosiddetta verifica dei poteri da parte della Camera di appartenenza ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione, non inciso dal progetto di riforma». Infatti la Camera di appartenenza – nella apposita Giunta per le elezioni – deve controllare che tutti gli eletti abbiano i requisiti per la loro eleggibilità, o viceversa che non risultino ex post ineleggibili. Se il candidato premier viene eletto c’è anche la garanzia che non incappi nelle verifiche previste dall’articolo 66 della Costituzione?

IL DOSSIER OSSERVA POI anodinamente, senza espresso invito ad «approfondire» una serie di “buchi” del ddl rimasti nella penna della ministra Casellati e dei suoi sherpa e «demandati alla futura legge elettorale», come ripetutamente viene osservato. «La legge – viene annotato – dovrà dunque definire se la votazione per l’elezione del Presidente del Consiglio avvenga su una scheda a sé o avvalendosi delle schede per l’elezione di Camera e Senato, e quale strumentazione sia volta a regolare o contenere le possibilità di un voto ‘disgiunto’, ad esempio nell’ipotesi in cui l’elettore voti in modo del tutto diverso tra Camera dei deputati e Senato della Repubblica». Ma impedire all’elettore la libertà di scelta dei propri rappresentanti, imponendogli di scegliere all’interno della stessa coalizione senatore e deputato, è illegittimo. Lo ha detto la Corte costituzionale nella sentenza 1 del 2014.

ALTRI PUNTI CHE L’UFFICIO studi osserva siano stati impropriamente rinviati alla legge elettorale riguardano il ballottaggio (mentre al contrario viene costituzionalizzato il premio di maggioranza), le soglie minime (sia per il candidato premier che per le due Camere). Inoltre c’è la grave omissione nel chiarire il peso del voto degli italiani all’estero («parrebbe da approfondire il tema del concorso del voto all’estero al premio di maggioranza, tale da incidere sull’attribuzione di seggi di ‘altri’ rispetto a quelli costituzionalmente assegnati alla circoscrizione Estero»), elemento sottolineato lunedì scorso anche dai costituzionalisti di Magna Carta, LibertàEguale, Io cambio e Riformismo e Libertà

 

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Preparati dallo scandalo generale per la contestazione a Roccella, tornano i manganelli. Due ragazze in ospedale con ferite pesanti, erano lontane dall’evento sulla natalità contro il quale protestavano. Le botte di Roma come quelle di Pisa, ma ora tutti le giustificano

MANGANELLI DI STATO. Schlein e Conte gridano al regime se uno scrittore viene censurato in Rai, ma tacciono dopo l'ennesima repressione contro gli studenti che manifestano per il diritto di scegliere sui proprio corpi. Un silenzio assordante, quello delle opposizioni. Come se l'allarme democratico dovesse scattare se a essere colpito è un volto noto. E invece le antenne devono restare ben dritte quando le vittime sono i più deboli.

 Quando l’opposizione non si indigna La polizia contro gli studenti venerdì a Roma - Lapresse

Un silenzio assordante delle opposizioni accompagna l’ennesima ingiustificabile repressione contro un gruppo di studenti delle superiori che manifestavano contro gli “Stati generali della natalità”. Eppure anche ieri a Roma, come a Pisa a febbraio, le immagini della violenza delle forze dell’ordine ai danni di un centinaio di giovanissimi disarmati sono terribili. In una di queste si vede una ragazzina con il sangue che esce da una ferita sulla testa, la maglietta bianca completamente coperta di rosso e una barella dell’ambulanza che le si avvicina.

Perché è stata colpita in modo così violento? Il ministro degli Interni Piantedosi non aveva detto di condividere il monito lanciato a febbraio dal presidente Mattarella, dopo i fatti di Pisa? «L’autorevolezza delle Forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento», disse il capo dello Stato. Era meno di tre mesi fa. Da allora ci sono stati altri episodi di manganelli ingiustificati. Quali sono state in questi mesi le direttive impartite dal Viminale alle questure? Si è recepito il messaggio del Colle? Pare proprio di no. E qui entrano in gioco le opposizioni, ormai concentrate nella campagna delle europee.

Schlein è molto concentrata sulla campagna elettorale e, soprattutto, sul duello tv con Meloni, Conte su come non finire nel cono d’ombra della polarizzazione tra le due leader. Colpisce però la distanza tra le reazioni indignate dopo la censura Rai ad Antonio Scurati, alla viglia del 25 aprile, e il silenzio di ieri. Come se le opposizioni (tranne alcune rare eccezioni, come il dem Paolo Ciani, Massimiliano Smeriglio di Avs e qualche esponente romano di Pd e 5S che ieri si sono fatti sentire) scoprissero il regime incipiente solo quando a essere colpito è un volto noto, che sia lo scrittore o la conduttrice che ha denunciato la censura.

Se invece l’ipotetico regime se la prende con dei ragazzi delle superiori allora è meno regime, quasi ordinaria amministrazione. E del resto, giovedì, il coro di

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GIOVANNA MARINI. I due artisti morti lo stesso giorno inondano le bacheca dei social. Pur nella distanza, entrambi devono molto all'etnomusicologo Alan Lomax e amavano le frequenze medio-alte

Intensità, comunità, responsabilità. Il lutto intrecciato di Giovanna Marini e Steve Albini Giovanna Marini

Quante canzoni, quante immagini di Giovanna Marini e Steve Albini postate in queste ore sui social. La meravigliosa narratrice dei Treni di Reggio Calabria, e una delle figure più intense dell’etica punk anni ’90, chitarrista e produttore (lui preferiva il meno ingombrante tecnico) a dividersi l’attenzione secondo il rituale consueto del lutto in Rete. Un flusso sincero, generoso, moderatamente generazionale (lei 87 anni, lui 61). Dice molto di chi resta, cioè noi che li piangiamo. Vagheggia un tempo lontano in cui le cose promettevano meglio, la musica non era soltanto industria, e neppure la levigata macchina di oggi in tempi di streaming. C’era posto per l’umanità, la politica, la rabbia. Non è vero, non del tutto, come sappiamo, ma fa bene pensare ogni tanto a una via d’uscita.

Chissà cosa ne avrebbe pensato lei – la ricercatrice emula di Lomax e Carpitella – che aveva studiato la funzione del pianto rituale secondo le indicazioni di Ernesto De Martino, e lo aveva fatto entrare nel cuore del suo cantare: certe grida di testa dentro frasi acrobatiche, alla maniera dei madrigali antichi, mettevano assieme l’accettazione e la rabbia per ciò che si perde («e leva le gambe tue da questo regno/ persi le forze mie persi l’ingegno», Lamento per la morte di Pasolini) con un’intensità che mirava al cuore.

«TROVO l’heavy metal (…) comico – spiegava nel frattempo Steve Albini da un altro mondo – e l’hardcore punk infantile (…) Voglio fare qualcosa che sia intenso da sentire, piuttosto che avere solo gli indicatori codificati dell’intensità». Intensità. È il segno dell’umanità, qualcosa che abbia la forza di rompere la ripetizione e la morta noia del linguaggio quotidiano. Teniamocelo stretto.

Del tutto ovvio che soltanto il caso li mette accanto. A lei di rock piaceva Frank Zappa. E Giovanna Daffini, Phil Ochs, il folk revival che aveva conosciuto di persona nella borghese Boston dei primi anni ’60, la capacità delle parole in musica di illuminare la strada, soffiare nel vento, diffondere storie. Steve Albini al contrario era uno della nidiata dei Ramones, midwest, nerd sfigato, fanzinaro cattivissimo. Le parole avesse potuto le avrebbe fatte a pezzi: delle canzoni della sua band Big Black, piene di testi provocatori e scorretti ha ultimamente voluto chiedere scusa («facevo parte di quei privilegiati che non soffrivano davvero l’odio che era racchiuso in quelle parole»), un gesto non comune per tanti della sua generazione.

Ma se volessimo accettare il gioco si potrebbe aggiungere che entrambi amavano frequentare il medesimo spettro sonoro, le frequenze medio-alte della voce e delle chitarre, le vibrazioni non levigate dell’insubordinazione fonica, il qui e ora nelle esecuzioni dal vivo e durante il lavoro in studio. Nella lettera con la quale accetta di registrare lui a Chicago In Utero dei Nirvana (1993) Albini scrive: «Non ho un vangelo fisso di suoni standard o tecniche di registrazione (…) Mi piace lasciare spazio per gli incidenti o il caos». È uno dei documenti più importanti politico/estetici di quegli anni, spiega che non prenderà royalties sul disco perché «i compensi appartengono alla band» e aggiunge: «vorrei essere trattato come un idraulico».

Coi Big Black, Albini aveva frequentato il mondo dell’hardcore anni ’80 nell’America reganiana, girando in furgone, dormendo sui divani, vivendo la vita delle minuscole comunità di ragazzi venute su in ogni dove. Italia quanto sei lunga, ribadiva il magnifico diario di viaggio di Giovanna Marini, dieci o venti prima. Quando gli chiedevano se avesse un’ispirazione nel suo lavoro di produttore Albini diceva Alan Lomax, l’etnomusicologo. Anche Giovanna Marini doveva moltissimo a Lomax. Con Carpitella aveva percorso in furgone l’Italia salvando la nostra musica popolare prima della catastrofe e del festival di Sanremo (c’era già), spingendo giovani musicisti e ricercatori a fare altrettanto.

LA MUSICA popolare non è un genere. Neppure è un suono particolare, se non quello della presenza che Albini amava sentire con decine di vecchi microfoni sparsi nel suo studio. La musica popolare è soprattutto responsabilità nei confronti della propria comunità e delle sue storie. «Il treno che pareva un balcone/ ha ripreso la sua processione» cantava Giovanna Marini che su quei vagoni ci aveva passato davvero la notte. L’ultimo album degli Shellac di Steve Albini, già previsto in uscita il 17 maggio, si chiamerà To all trains, verso tutti i treni. Le coincidenze

 

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COMMENTI. Malgrado si rinfaccino le accuse, Pd e M5S soffrono lo stesso problema di non essere partiti capaci di promuovere l’integrazione sociale. Così consegnandosi fatalmente ai capibastone

 foto Ikon images/Ap

Quando Giuseppe Conte parla di «cacicchi e capibastone», con riferimento al partito Democratico, denuncia problemi gravi e reali. Egli dimentica però che il suo partito offre storicamente ricette diverse ma con una caratteristica comune: sono parte del problema. E il problema è che non esistono più i partiti, o meglio, i partiti «di integrazione sociale», quelli che sono punto di riferimento di comunità locali, quelli che organizzano, articolano, rappresentano e mediano interessi, quelli che fanno crescere classe dirigente.

I capibastone pullulano in contesti segnati da due condizioni non alternative: territori ad alta disuguaglianza, e “partiti” che sono brand, e i cui esponenti rappresentano quindi cordate di cittadini anziché interessi più o meno organizzati. Ciò accade tanto nel Pd quanto nel Movimento 5 Stelle, con la differenza – evidentemente non secondaria – che nel Pd queste cordate di cittadini sono composte da elettori e guidate da notabili-quadri, mentre nel M5S sono composte da iscritti.

Il Pd ha dunque un problema di esposizione strutturale a fenomeni di voto di scambio (nel senso politologico; a volte anche in senso giuridico) e alla crescita e consolidamento di potentati locali che rendono il partito pressoché irriformabile. Il M5S ha invece un problema strutturale di irrilevanza territoriale. Questo in particolare accade perché, a differenza del Pd, è un partito personale (quindi con una militanza iper-conformista per cultura politica ed incentivi materiali), non plurale (quindi privo di strutture per elaborare i conflitti interni su basi politiche anziché personaliste) e che finisce per confondere ogni forma di costruzione territoriale del consenso con forme di «caciccato».

I “territori” poi sono da sempre visti dai vertici pentastellati come possibili centri concorrenti di potere o di critica, preferendo dunque ricorrere, ai fini del reclutamento di classe dirigente, a notabili di diversa estrazione, comunque alieni ad ogni idea di cura e rappresentanza di interessi, territoriale e non.

Il Pd è un partito strutturalmente più attento alle tornate elettorali locali, sia per motivi ideologici e identitari derivanti dalla tossica idea del partito perno del centrosinistra (speculare a quella berlusconiana), sia per i motivi organizzativi di cui sopra. Il M5S invece è un partito esclusivamente orientato a quelle tornate elettorali (nazionali ed europee) che inequivocabilmente misurano il consenso popolare del leader. Ogni altra elezione è pressoché sempre sacrificabile a meno che non abbia riverberi chiari a livello nazionale.

E però, nell’Italia degli ottomila comuni, il personale e le competenze politiche si sviluppano per la grandissima parte nelle istituzioni democratiche locali. A livello organizzativo, i partiti di destra non godono certamente di salute migliore rispetto a quelli di opposizione, ma certo godono di un atteggiamento decisamente più spregiudicato in termini di reclutamento notabilare, nonché di un contesto strutturale favorevole: si rammentino le fratture fra città/centri e campagne/periferie, ove la grandissima parte delle municipalità italiane sono situate. Stante le divergenze strategiche fra partito Democratico e Movimento 5 Stelle, viviamo in una situazione che rischia di regalare un’intera coorte di personale politico alle destre.

A sinistra non resta oggi dunque che ripiegare sulla strada del «civismo». Un termine che pure significa tutto e niente. Vi sono compresi certo nuovi e vecchi potentati e/o avventure personalistiche, ma anche esperimenti di integrazione sociale in cui tacitamente si rinuncia ad ogni riferimento politico nazionale, sia perché elettoralmente controproducente sia perché foriero di divisioni identitarie. Si ha dunque la costruzione di progetti interessanti, competitivi e capaci di socializzare politicamente un numero crescente di cittadini, a prezzo a volte di contribuire a riprodurre attitudini antipolitiche/a-ideologiche e di rinunciare ad incidere su orizzonti più ampi. Si tratta tuttavia di esperienze che quantomeno, a differenza dei partiti politici nazionali d’area, non favoriscono le destre, contendendone il controllo concreto del paese reale

 

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