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STALLO SULLE MACERIE. Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi

Gaza, foto Mustafa Hassouna /Anadolu via World Press Photo 2024 Gaza - foto Mustafa Hassouna /Anadolu via World Press Photo 2024

Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi, i 1200 morti israeliani del 7 ottobre, i 35 mila palestinesi, di cui il 70 per cento donne e bambini, ostaggi ebrei compresi di cui nessuno sa davvero quanti siano ancora vivi. È una domanda che si fanno tutti, anche i più indifferenti perché si intuisce che da qui, come dal fronte dell’Ucraina, verrà fuori il nostro futuro e il modo in cui saremo percepiti come una civiltà occidentale credibile al Sud del mondo.

La situazione in queste ore appare in uno stallo angosciante e sempre più catastrofico per i palestinesi.

Dal punto di vista umanitario e della pura sopravvivenza. Si continua a morire, con e senza bombe: per eliminare i palestinesi e ridurli a fantasmi in mezzo alle macerie di Gaza bastano la fame e le malattie, oltre all’acciaio delle pallottole. È un degrado materiale e morale che punta direttamente alla loro capacità di resistenza, all’idea stessa che possano esistere come popolo e come nazione. Per questo lo chiamano genocidio.

Non è una definizione tecnica o giuridica – quella è sotto esame delle istituzioni internazionali – è la realtà dei fatti, è un giudizio politico che scuote, o dovrebbe scuotere, le coscienze. Si negozia e si combatte in attesa di un’offensiva militare israeliana o di un cessate il fuoco, come se questa nuova strage strisciante, condotta in sospensione, fosse lo stato naturale delle cose. Ma la sensazione è che a nessuno dei protagonisti sul campo, da Netanyahu a Hamas, importi più di tanto delle vittime. Loro si stanno giocando una partita diversa, quella della sopravvivenza politica. Per primo Bibi Netanyahu che, come ripetiamo da mesi, vede nella guerra l’unica via per restare al potere.

Ma è esattamente così? Lo è in gran parte, eppure forse la situazione è più complicata, la scelta meno secca di quel che sembra: o la guerra o l’uscita di scena. In realtà Netanyahu – preso tra due fuochi, la destra estremista e le pressioni di Biden, come scriveva ieri Michele Giorgio – punta a gestire la guerra ma anche un eventuale cessate il fuoco che visti i precedenti degli ultimi decenni non è mai definitivo.

Lo stato di guerra nei territori palestinesi del resto è perpetuo: ogni giorno, da mezzo secolo, i governi israeliani conducono azioni belliche, si impadroniscono della terra degli arabi, erigono muri, vietano strade, eliminano i diritti più elementari, soffocano la libertà di movimento e di pensiero: questo è uno stato colonialista che ha attuato una condizione insostenibile di apartheid. Il fine ultimo è cacciare i palestinesi, non fare la pace con loro e vivere in due stati. Per questo quello in corso è un negoziato macabro e precario rispetto ai fini di questo governo e di cosa è diventato il sionismo in mano ai partiti più radicali ed estremisti.

In realtà il premier israeliano è da vent’anni al potere, una sorta di raìs arabo, in questo caso ebraico, confermato da raffiche di elezioni, che manovra le leve del potere con la corruzione e manipola da decenni l’opinione pubblica interna e internazionale, antisemitismo compreso come bene ha sottolineato il senatore americano Bernie Sanders, democratico ed ebreo. Ha un obiettivo a breve termine e non così tanto lontano: superare le elezioni americane di novembre dove se vincesse Trump per lui le cose si metterebbero certamente meglio che con l’attuale amministrazione americana che ha trattato come una sorta di zerbino.

Trump è quello che ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello Stato ebraico contro ogni risoluzione Onu, la sovranità israeliana sul Golan siriano occupato dal 1967, è il mediatore degli Accordi di Abramo con le monarchie arabe dove seppellire un eventuale Stato palestinese. Biden ha ereditato questo “pacchetto” accettando una visione del mondo così miope e fallimentare che pochi giorni prima del 7 ottobre il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan dichiarava che «la regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni».

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Ed è così che Biden e i suoi sono caduti nella trappola di Gaza, facendosi continuamente ricattare, con un’amministrazione in piena campagna elettorale e in calo di consensi al punto da elargire a Israele miliardi di dollari in aiuti militari, per arrivare poi all’attuale blocco sulle consegne di bombe a Tel Aviv che appare soltanto un tentativo goffo di salvare la faccia.

Dall’altra parte c’è Hamas che ovviamente non scomparirà con l’incenerimento di Gaza. Il movimento islamico è stato abile a rilanciare la palla del negoziato in campo israeliano anche se adesso gli Usa hanno chiesto al Qatar, dove tengono una base militare, di eliminare la sua presenza. Ma farlo vorrebbe dire inimicarsi i Fratelli Musulmani che il Qatar ha sempre protetto. Significa entrare in attrito con l’Iran e i suoi alleati che puntano ancora su Hamas che pure ai tempi della guerra civile siriana si era schierato contro Assad.

Il cosiddetto “asse della resistenza”, come lo chiamano Teheran e le milizie sciite Hezbollah, è temuto da Israele ma ancora di più dagli Stati arabi, inerti davanti al massacro di Gaza. Come l’Europa neppure loro hanno messo l’ombra di una sanzione a Israele. E anche loro devono garantirsi la sopravvivenza. Allora come finirà? Non finirà, neppure questa volta, con questo negoziato macabro e precario

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IL PORTO DELLE NEBBIE. Dal 2015 la propaganda ha parlato di Toti come “l’uomo del fare”. Anni di fuochi d’artificio, profumi di basilico diffusi nei vicoli, focacce più lunghe del mondo. Anni di sanità svenduta ai privati, di una viabilità grottesca, di infrastrutture assenti e quartieri abbandonati

 

Appena un mese fa, l’11 aprile, l’emittente televisiva regionale più seguita in Liguria, Primocanale, dedicava ampio spazio a una diretta in stile vagamente nordcoreano da Villa Zerbino, dove si svolgeva la grande cena di finanziamento annuale per Giovanni Toti. Presenti seicento persone tra parlamentari, imprenditori, sindaci liguri; un biglietto d’ingresso da 450 euro, grandi lodi al menu, entusiasmo per i numeri che, secondo lo staff della presidenza della Regione, «stanno cambiando la faccia delle principali città e dei porti». Lo stesso presidente parlava di una nuova Liguria, opposta a quella vecchia «del pessimismo, dell’invidia e dell’odio sociale».

Oggi, l’ospite d’onore di quella cena si trova agli arresti domiciliari, e alcuni degli invitati nonché l’editore stesso di Primocanale sono finiti nella stessa maxi inchiesta.
È difficilissimo commentare queste gravi accuse senza pensare ai lunghi anni di una propaganda che dal 2015 ha parlato di Toti come «l’uomo del fare». Anni di fuochi d’artificio, tappeti rossi, luci di Natale, profumi di basilico diffusi nei vicoli, focacce più lunghe del mondo, scivoli gonfiabili. Anni in cui solo poche voci inascoltate hanno parlato di una sanità distrutta e svenduta ai privati, di una viabilità grottesca, di infrastrutture assenti e quartieri abbandonati.

Anni in cui il cosiddetto «Modello Genova», nelle veline diligentemente ripetute, diventava un appello al rilancio delle grandi opere in tutta Italia, mentre passavano sottobanco sponsorizzazioni inopportune, concessioni, autorizzazioni pubbliche, rapporti opachi con la stampa.
Un modello che spendeva con disinvoltura seicentoventicinquemila euro per il Capodanno genovese con Al Bano, Orietta Berti e Fausto Leali, spacciato come un motivo di lustro per la città, o che per esaltare l’elettorato campanilista bruciava mezzo milione di euro per portare un mortaio di pesto gonfiabile lungo il Tamigi.

Le gravi accuse che hanno portato il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova a misure coercitive e interdittive dovranno ovviamente passare per i tre gradi di giudizio, ma sono fin d’ora caratterizzate da una modalità piuttosto inconsueta nel Nord Italia. Non sono precedute da avvisi di garanzia e arrivano di colpo, come una bomba, facendo pensare a una situazione molto più grave di quanto non possa apparire a prima vista. Un’inchiesta che coinvolge i vertici non solo politici, perché di fatto offre un ipotetico quadro molto più ampio, nel quale si intrecciano rapporti affaristici e illeciti con imprenditori, stampa e mafie molto potenti nel territorio.

Possiamo già prevedere che, anche se le accuse verranno confermate, la reazione politica confonderà e rimescolerà le acque come suo solito, spingendo metà elettorato a sminuire fatti e dettagli, ribaltando le questioni e buttando la palla in tribuna. Del resto in Italia l’elettorato sembra già da tempo educato alla risposta preconfezionata: lo mostrano i social in queste ore, dove tra i cittadini che hanno eletto l’ultimo governo regionale ligure fioccano solo due tipi di commenti, le solite due difese d’ufficio: «siamo garantisti e vedremo cosa c’è di vero» da una parte, e «la magistratura agisce politicamente», dall’altra.

Resta però il fatto che, davvero, sarà una strana impresa ritrovarci nei prossimi mesi, dopo questa tempesta, a contare i resti di una regione che abbiamo visto riempirsi di supermercati, cemento e spiagge private, giorno dopo giorno, proclama dopo proclama, diventando sempre più a misura di turista invece che di cittadino.
E sarà interessante riprendere in mano con il senno di poi alcune dichiarazioni di Giovanni Toti, come per esempio quella del 7 aprile 2020, in piena pandemia, quando il presidente dichiarava: «Via codice degli appalti, via gare europee, via controlli paesaggistici, via certificati Antimafia, via tutto. Almeno per due anni».

E dovremo dircelo e ricordarcelo, di quell’appello caduto nel vuoto da parte del Siap, il Sindacato italiano appartenenti alle forze di polizia, per istituire con urgenza una Commissione Antimafia in Liguria. Era ancora il 2020, l’anno in cui si tenevano anche le regionali che avrebbero dato il secondo mandato a Giovanni Toti, e il dirigente nazionale del sindacato Roberto Traverso usava parole durissime contro il silenzio su questo argomento in una regione «dove le mafie non sono più solo infiltrate ma bensì fanno parte integralmente del tessuto sociale». La sua conclusione era lapidaria, precisa: «Chi non vede la mafia in Liguria non può meritare di governarla».

*autori della serie di romanzi ambientati a Genova con protagonista il vicequestore Paolo Nigra

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ISRAELE/PALESTINA. Intervista alla relatrice speciale dell'Onu per i Territori palestinesi occupati: «Da decenni i palestinesi sono sottoposti a sfollamento forzato, uso eccessivo della forza, detenzioni arbitrarie e guerre preventive. È questo il contesto che ha in sé il gene dormiente del genocidio»
L'esodo dei palestinesi verso il nord di Gaza su Rashid street (foto: Ap/Mohammed Talatene) L'esodo dei palestinesi verso il nord di Gaza su Rashid street - Ap/Mohammed Talatene

«Vorrei che non si considerasse l’attacco a Rafah come un dato di fatto: si può e si deve fermare. Serve un cessate il fuoco immediato per il rilascio degli ostaggi israeliani e di tutti i palestinesi arrestati da Israele negli ultimi mesi. E servono sanzioni: senza sanzioni Israele non cambierà».

Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, commenta l’inizio dell’offensiva via terra contro la città-rifugio palestinese. Il 25 marzo Albanese ha pubblicato un nuovo rapporto, Anatomia di un genocidio, in cui spiega con fonti, dati e testimonianze perché ci troviamo di fronte a un plausibile genocidio.

Francesca Albanese Francesca Albanese

Come legge l’offensiva su Rafah, ormai partita?

Va fermata. L’Egitto sta già preparando piani di emergenza per accogliere i rifugiati, invece di impegnare tutto il suo capitale politico per bloccare l’attacco. Ogni operatore umanitario in questo momento dovrebbe viaggiare tra le capitali del mondo per fermare l’offensiva.

Ci sono spiragli per un sì israeliano all’accordo di tregua?

Israele non intende accettarlo perché ha paura di fermarsi e vedere che cosa ha fatto: nel momento in cui si poserà la polvere si vedrà quello che Israele ha fatto a Gaza e si vedrà che i 25 relatori speciali dell’Onu che da mesi denunciano il genocidio avevano ragione. È importante che a Gaza entrino operatori umanitari ed esperti forensi, che vadano allo Shifa e al Nasser Hospital dove ci sono le fosse comuni, che vadano nelle prigioni dove aumentano i casi di morte dei detenuti per torture.

Nel rapporto scrive: «Nessun palestinese a Gaza è al sicuro per definizione». È già qua il concetto di genocidio?

Sì e no. Sono tante le situazioni in cui gruppi di individui si trovano senza la protezione che il diritto internazionale garantisce loro. Non è quella mancata protezione in sé che rende un popolo esposto al rischio di genocidio. Scatta quando quella mancanza di diritti è protratta, legata a un contesto e a un disegno politico. È da ben prima del 7 ottobre che i palestinesi sono esposti a istanze di sfollamento forzato e a un uso eccessivo della forza, a detenzioni arbitrarie e a guerre preventive. È questo il contesto che per molti è difficile capire ma che ha in sé il gene dormiente del genocidio.

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Il rapporto lega le pratiche genocidarie alla natura stessa del colonialismo d’insediamento, richiamando all’esperienza dei nativi americani negli Usa, degli indigeni in Australia e degli Herero in Namibia: «l’esistenza stessa di un popolo indigeno pone una minaccia esistenziale alla società colonizzatrice». Può spiegare?

In Occidente si fa fatica a capire che cos’è il colonialismo di insediamento e a legarlo alla realtà politica israeliana perché gli occidentali sono affetti da amnesia coloniale e perché vedono Israele come prodotto politico della tragedia dell’Olocausto. Lo è ma non del tutto: il progetto di colonizzazione della Palestina da parte degli ebrei europei perseguitati per secoli in Europa, per i quali chiaramente la Palestina ha un significato storico religioso, inizia alla fine del XIX secolo. È su quel progetto coloniale che si è innestata la soluzione politica che l’Occidente ha sostenuto dopo quella pagina immonda della nostra storia che è l’Olocausto. La pulizia etnica del popolo palestinese rientra nella definizione di genocidio coniata da Lemkin: il colonialismo è di per sé genocidiario perché mira all’eliminazione dell’altro.

La pulizia etnica è un crimine diverso dal genocidio. Secondo il diritto internazionale, però, anche sfollamento forzato e deportazione possono rappresentare genocidio se l’obiettivo è distruggere un gruppo protetto.

La finalità di Israele non è ammazzare tutti i palestinesi, è cacciarli. Il 7 ottobre rappresenta l’opportunità di sdoganare ed espandere il piano avanzato a mezza bocca da esponenti di varie aree politiche: non più solo la segregazione dei palestinesi, ma la loro cacciata. La pulizia etnica può essere dunque il contesto in cui si compiono i genocidi.

Secondo la Convenzione sul Genocidio il primo elemento che fa parlare di un simile crimine è l’uccisione di membri del gruppo protetto. A Gaza il 70% delle vittime sono donne e bambini, il 30% uomini adulti che Israele assimila di default alla categoria «combattente attivo».

È la criminalizzazione ab origine dell’uomo. Israele non contesta i dati Onu su quanti uomini siano stati uccisi ma dice che erano tutti combattenti. È un’aberrazione. Quello che Israele fa è prenderli di mira tutti dicendo di voler così eliminare Hamas: è questo il germe della logica genocidaria.

Il secondo elemento sono i danni fisici e mentali al gruppo. In particolare, spiega come i traumi subiti avranno un effetto duraturo sui bambini. Qual è il futuro di Gaza?

Dal valico di Rafah ho visto uscire esseri umani che erano ormai solo corpi che camminavano. Era come se fossero vuoti. In Egitto riconosci subito chi arriva da Gaza: sono piccoli, piegati su se stessi, neri di un’energia nera. I palestinesi sono così forti che si risveglieranno ma ci devono essere le condizioni perché succeda e la condizione è la fine dell’apartheid israeliana. Prenderà tanto tempo e moriranno tante altre persone a Gaza e in Cisgiordania perché questo non è un mondo pronto a prevenire i crimini.

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Nel rapporto dedica un capitolo all’uso che Israele fa del lessico del diritto internazionale per giustificare l’uso della violenza letale: scudi umani, danni collaterali, zone sicure…concetti diretti a cancellare la distinzione tra civili e combattenti. A Gaza, scrive, ogni persona e ogni luogo sono considerati possibili target perché prossimi a soggetti considerati combattenti o perché vicini a luoghi considerati possibili centri militari: il «contagio virale», lo definisce, giustifica la distruzione senza accorgimenti?

Sin dai primi giorni i palestinesi hanno capito che questa non era una guerra come le altre, è questo che mi hanno detto: Israele stavolta ha subito preso di mira target chiaramente non militari. Ha colpito da subito i luoghi dell’identità palestinese: chiese, moschee, centri culturali, università. Israele ha allargato lo spettro per determinare chi dovesse eliminare. Tra loro poliziotti, medici, dipendenti dei ministeri perché considerati da Israele tutti affiliati ad Hamas. Hanno colpito gli intellettuali, come Refaat Alareer, vere e proprie punizioni collettive. Gli stessi figli di Haniyeh non sono stati uccisi perché combattenti ma in quanto figli del leader di Hamas. Non si può legittimare questa logica. E poi c’è il crimine più evidente: creare condizioni di vita che conducono alla distruzione di un popolo, ovvero il bombardamento degli ospedali, la privazione di cibo e medicinali.

In Occidente si è parlato poco dell’assedio dello Shifa: centinaia di uccisi, esecuzioni, morti per fame. A ciò si aggiunge la consapevolezza di provocare vittime: un ospedale che non può curare è una tomba.

In Egitto ho visitato tre ospedali: la maggior parte dei palestinesi ricoverati non erano feriti di guerra ma malati cronici. Tumori, leucemie, malattie respiratorie, diabete. E poi amputati a causa delle cancrene e bambini malnutriti. Ho incontrato un bambino che si è ammalato di pancreatite per aver mangiato cibo per animali e aver bevuto acqua sporca: a Gaza non avevano più medicine. Il sistema sanitario a Gaza è distrutto. Questa è la verità

 
 
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SCAFFALE. «I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi» di Valentina Pazé, pubblicato da Ega

Non solo astensione: la crisi della partecipazione collettiva Ikon images /Ap

«Tra rappresentanza e democrazia è in corso un divorzio»: è netto il giudizio espresso da Valentina Pazé nel suo ultimo libro, I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi (Ega, Edizioni Gruppo Abele pp. 144, euro 14), un’incalzante riflessione sulla crisi della partecipazione collettiva: probabilmente, il male principale della politica contemporanea.
Democratico – argomenta l’autrice – è il sistema in cui tutti coloro che sono tenuti a obbedire alle leggi (in quanto sudditi) hanno il diritto di contribuire, direttamente o indirettamente, alla loro elaborazione (in quanto cittadini). È questa la ragione per cui i non rappresentati, a cui è intitolato il libro, mettono in crisi il paradigma democratico.

MA, CHI SONO i non rappresentati? L’autrice distingue tre categorie: coloro cui è negato il diritto di voto (gli esclusi di diritto); coloro che sono privati di rappresentanti dal sistema elettorale (gli esclusi di fatto); coloro che si astengono (gli autoesclusi).
Esclusi di diritto sono gli stranieri. Ma perché sono esclusi? «Ciò su cui mi sembra interessante riflettere – scrive Pazé – è l’assenza di qualsivoglia motivazione a sostegno di questo tipo di esclusione». Se in passato le esclusioni di diritto dei poveri e delle donne erano motivate da incapacità (stato di minorità), dipendenza (dai datori di lavoro o dai mariti), disinteresse (dal momento che si riteneva che cuore della decisione politica fosse la proprietà), già in Aristotele l’esclusione degli stranieri rimane immotivata: esattamente com’è oggi.
Gli esclusi di fatto sono tali per effetto della forma di governo e della legge elettorale. A produrre esclusione sono il presidenzialismo e il maggioritario; generano invece inclusione i sistemi parlamentari a rappresentanza proporzionale. Più in generale, a incidere sulla torsione escludente dei sistemi costituzionali è la polemica contro i partiti, che in Italia si è espressa, e si esprime, in due filoni: l’antipartitismo, che dall’Uomo qualunque arriva al Movimento 5 Stelle; e la democrazia d’investitura, che dalla «grande riforma» di Amato e Craxi arriva all’odierno premierato.

INFINE, GLI AUTOESCLUSI, vale a dire gli astenuti, in relazione ai quali la questione è se siano tali davvero per loro scelta. L’astensione è un fenomeno alimentato da sentimenti politici diversissimi: alcuni si astengono per apatia, altri, all’opposto, per protesta. È un fatto, tuttavia, che la gran parte dei non votanti siano persone socialmente svantaggiate. A colpire – afferma Pazé – è soprattutto «il fatto, per molti versi sorprendente e paradossale, che coloro che oggi sembrano non volere essere rappresentati corrispondono, ormai da qualche decennio, a coloro a cui un tempo la partecipazione era negata» di diritto. Per i titolari del potere, è tutt’altro che un problema.

LE TESI DI STUART MILL sul voto plurimo, la polemica di Schumpeter contro il «cittadino medio», il rapporto alla Trilateral Commission sull’«eccesso di democrazia» si sposano perfettamente con la visione degli odierni fautori della tecnocrazia neoliberista, per i quali è compito dei «migliori» proteggere il popolo dai suoi stessi errori.
Per combattere questa deriva sarebbe necessario ricostruire forme di aggregazione politica capaci di produrre inclusione sociale, così come un tempo la producevano i partiti, ma ad agire da ostacolo – spiega Pazé – è il «singolarismo radicale», versione estrema dell’individualismo che, reclamando immediatezza contro il compromesso e l’intermediazione, risulta naturalmente esposto alle sirene della democrazia diretta, del sorteggio, della democrazia partecipativa e simili. Il risultato è il proliferare di rivendicazioni microidentitarie, incentrate sul sé, mentre oggetto di rifiuto è la dimensione politica incentrata sul collettivo.
Ricostruire la dimensione sovraindividuale è la sfida: il punto è tornare a comprendere che la politica non può limitarsi a registrare le istanze provenienti dalle singole componenti della società (cosa che, pure, oggi sarebbe già molto), ma deve ricominciare a elaborare identità sovraindividuali in cui le persone possano trovare coscienza che i problemi che le riguardano hanno natura collettiva e sono, dunque, bisognosi di soluzioni collettive

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UNO DOPO L'ALTRO. Se tutto questo è inaccettabile, e se la strage è quotidiana, e infinita, un altro modo per non restare a guardare dovrà pur esistere. Un tempo si chiamava contropotere

Morti del lavoro: un controllo dal basso contro lo «stato di guerra» A una manifestazione contro le stragi sul lavoro - LaPresse

Ancora prima che un’improvvisa illuminazione apra le menti di questo governo, ci sarà un modo per arrestare dal basso, con i lavoratori, il sistema del lavoro fondato su appalti, subappalti a cascata e precarietà che ha ucciso 191 persone fino ad oggi e ha provocato le tre stragi di Casteldaccia a Palermo (5 morti), Esselunga a Firenze (5 morti), Suviana nel Bolognese (7 morti).

Non abbiamo molti elementi per credere che lo si possa fare con quello strumento aberrante, sul piano etico e anche su quello dell’economia comportamentale, che considera i morti sul lavoro come «crediti» su una patente.

Uno strumento che valuta la vita in termini di punteggio dopo che un incidente si è verificato. Stiamo parlando della misura simbolo della «patente a crediti» che il governo Meloni intende istituire tra cinque mesi, cioè dal prossimo primo ottobre. La misura è contenuta nel «pacchetto sicurezza» dei decreti Pnrr e Coesione. In queste ore si attende l’emanazione di un decreto attuativo. La ministra del lavoro Marina Calderone ha promesso che arriverà in tempi «strettissimi».

Che arrivi prima di subito, o dopo, uno strano senso della predestinazione continuerà a impadronirsi di noi. Il sistema mieterà altre vittime. Speriamo vivamente di no. Ma la speranza, in questo capitalismo, è vana.

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Ieri, dopo l’ultima tragedia nel palermitano, i sindacati dei lavoratori delle costruzioni hanno posto un’alternativa radicale: «O cambiano le cose, oppure proseguiremo la mobilitazione ad oltranza». Per forza di cose, con tre morti in media al giorno, questa mobilitazione c’è già. Come anche gli scioperi.

Si potrebbe rilanciare.

Perché non strutturare la mobilitazione e pensare anche a gruppi di autodifesa operaia? A turno, e secondo le disponibilità, insieme ai sindacati, potrebbero iniziare a fare contro-informazione, tenere i contatti con una forza lavoro dispersa sul territorio, nell’impresa diffusa, e invisibile dei subappalti. Sensibilizzare l’opinione pubblica. Potrebbero intervenire sui fronti di questa «guerra»: nei cantieri, per strada, nei tombini, in cielo tra le gru, a mezz’aria sulle impalcature, sottoterra nelle fogne.

Se funzionasse, ciò permetterebbe di trovare uno strumento di pressione in più a sostegno dell’instancabile richiesta dei sindacati di incontrare un governo impreparato – ma quale non lo è – e ottenere qualcosa in più di un altro tavolo tecnico dove l’esecutivo espone decisioni già prese.

Lo sappiamo: i rapporti di forza sono sfavorevoli, la legislazione è precaria, la formazione non basta, le norme che esistono non sono applicate, l’ispettorato del lavoro fatica. Tutto sembra dovere andare come va, mandando al macello chi lavora per vivere.

Ma se tutto questo è inaccettabile, e se la strage è quotidiana, e infinita, un altro modo per non restare a guardare dovrà pur esistere. Un tempo si chiamava contropotere

 

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CAMPUS LARGO. In gioco non c’è solo la libertà accademica, ma la stessa idea che una società libera si distingue da un regime autoritario per la tolleranza che mostra per i dissidenti. Se la faccia del liberalismo occidentale è coperta dal casco di un poliziotto, diventa molto difficile distinguerla da quella degli «aspiranti fascisti»

sgomberi polizia usa 

La forza non è un surrogato della verità. In diverse università degli Stati uniti è in corso una repressione violenta delle proteste studentesche. E ciò avviene con la copertura di esponenti del partito democratico che, dalla Casa bianca in giù, usano il pretesto dell’antisemitismo per legittimare l’uso della forza, nonostante sia ben chiaro, a chiunque avesse voglia di accertare come stanno le cose, che tra i gli studenti che dimostrano contro la politica del governo Netanyahu ci sono anche molti ebrei, come testimoniano diversi organi di stampa, a partire dal quotidiano Haaretz.

Si fatica a comprendere quale sia il calcolo politico che ha spinto Joe Biden a dare di fatto «luce verde» a una repressione così massiccia e indiscriminata, a pochi mesi da un’elezione in cui i sondaggi lo vedono in calo dei consensi proprio tra gli elettori più giovani e tra quelli che appartengono alle minoranze che sono più sensibili alla questione palestinese (non solo i cittadini di origine araba, ma anche coloro che appartengono a altre minoranze, per le quali espressioni come «apartheid» o «colonialismo» non sono soltanto temi di interesse accademico).

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BIDEN sembra disposto a perdere le elezioni pur di non far mancare il proprio sostegno al governo più screditato della storia di Israele e nonostante una vittoria di Trump sarebbe probabilmente un disastro per tutti, sia negli Stati uniti sia nel resto del mondo.

Non può essere solo l’età, che pure ha un peso, a giustificare una politica così ottusa (Bernie Sanders, per fare un esempio, non è certo un ragazzino, eppure sulla questione di Gaza ha una linea molto più equilibrata: inflessibile contro i rigurgiti di antisemitismo, che ci sono, in qualche caso anche tra gli studenti, ma ferma nella difesa dei diritti dei palestinesi e prima di tutto nella richiesta di iniziative più efficaci per arrivare rapidamente al cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas).

Nei prossimi mesi ci saranno domande spiacevoli a cui dovremo sforzarci di trovare una risposta. Domande che hanno a che fare anche, lo dico con dolore, con l’insensibilità dei liberali nei confronti delle ragioni di chi ha subito, e in qualche caso ancora subisce, il dominio coloniale europeo nel Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche nelle Americhe.

La forza non è un surrogato della ragione. Eppure, nell’attacco alle università che vede alleati i repubblicani e una parte dell’establishment democratico si trasmette proprio questo messaggio, con conseguenze che potrebbero essere devastanti per gli orientamenti politici di una generazione.

Nei luoghi che dovrebbero essere il polmone che consente all’opinione pubblica democratica di avere l’ossigeno che le serve per rimanere in buona salute si tenta di soffocare il dissenso invece di riportarlo all’interno di una sana dialettica e di un possibile compromesso (che qualche università si sia per ora sottratta al riflesso condizionato della repressione, lascia aperto uno spiraglio alla speranza, ma temo che sia troppo poco e troppo tardi per evitare il danno).

In gioco non c’è solo la libertà accademica, che i cultori dell’università corporate ritengono meno importante della tutela del diritto di proprietà, ma la stessa idea che una società libera si distingua da un regime autoritario per la tolleranza che mostra per i dissidenti, anche quando esercitano forme di disobbedienza civile che comportano la violazione della legge.

LE PAGINE di John Rawls e Hannah Arendt stanno ritornando di stringente attualità e denunciano il vuoto di legittimazione morale che c’è al cuore del neoliberalismo contemporaneo, che ha sostituito l’imperativo del profitto all’eguale rispetto per ciascuno.

Gli eventi di questi giorni negli Usa ci riguardano. Le destre, sempre più forti e arroganti in Europa, guardano con compiacimento a quel che accade oltre oceano. Se la faccia del liberalismo occidentale è coperta dal casco di un poliziotto in tenuta antisommossa, diventa molto difficile distinguerla da quella degli «aspiranti fascisti» (come li chiama Federico Finchelstein) che tra qualche mese potrebbero avere un peso ancora maggiore anche qui da noi.

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