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Jobs act? Una porcheria ma non solo per i motivi del referendum Cgil. Così impatta sulla sanità

La Cgil ha deciso di raccogliere le firme per abrogare il Jobs act. Ma cosa è il Jobs act? E perché esso dovrebbe essere abrogato?

Il Jobs act è la riproposizione di quella dottrina definita “liberismo economico” riproposta, mutatis mutandis a tre secoli circa di distanza nel nostro tempo, dalle componenti moderate della sinistra che davanti alle difficoltà e alle complessità del nostro tempo hanno abbracciato le ragioni del mercato dell’impresa e del profitto rinunciando al sogno di giustizia per mezzo dei diritti.

Il Jobs act, dai più, è considerato una riforma liberista del lavoro perché al valore sovrano del reddito di impresa viene subordinato praticamente tutto, compreso le più elementari ma anche più fondamentali, conquiste dei lavoratori diritti costituzionali compresi. Ma esso è uno dei siluri più dirompenti lanciati per mere ragioni di mercato quindi per mere ragioni speculative contro il welfare state e in particolare contro l’art 32 della Costituzione e contro il servizio sanitario nazionale pubblico (SSN). Quindi a favore comunque di una minoranza contro la stragrande maggioranza delle persone che vivono nel nostro paese.

 

Il Job act, infatti, sul piano sanitario è una evoluzione e una estensione della controriforma Bindi del ’99 che già nel suo molto neoliberista art. 9 prevedeva la possibilità di fare il welfare aziendale per via contrattuale. Non Renzi quindi, ma la Bindi – quella che probabilmente per espiare i suoi peccati oggi dopo aver distrutto l’art. 32 presiede una associazione a sua difesa – ha ideato il welfare aziendale.

È stata quella riforma che ha previsto:
– l’istituzione dei “fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale” (punto 7), cogestiti dall’impresa e dal sindacato;
– un “regolamento” (punto 8) per disciplinare la cogestione dei fondi definendo i loro organi di amministrazione e di controllo e i loro compensi;
– le forme e le modalità di contribuzione a carico dell’impresa e dei lavoratori e i soggetti destinatari dell’assistenza sanitaria;
– il trattamento le prestazioni e le garanzie riservate al singolo sottoscrittore e al suo nucleo familiare.

 

Il Jobs act, come è noto, si basa su un presupposto politico preciso che è il seguente: siccome l’impresa economica determina la ricchezza del paese, allora non si può avere crescita economica senza accrescere il reddito di impresa. Quindi, lo scopo del Jobs act è accrescere il reddito di impresa. Il problema non è lo scopo – che si può persino condividere – ma è come questo scopo viene raggiunto e a che prezzo e chi paga il conto.

La strada scelta dal Jobs act è l’uso del fisco, altrimenti detto “welfare fiscale”, per mettere fuori gioco la sanità pubblica, quindi privatizzarla mettendola a mercato e, in questa nuova veste, usarla come se fosse salario. Da una parte si tratta di ottenere dal sindacato significative riduzioni delle retribuzioni dei lavoratori e dall’altra di compensare queste riduzioni offrendo prestazioni sanitarie tutte defiscalizzate, sia per l’impresa che per il dipendente, cioè tutte libere da oneri fiscali.

L’operazione è chiara: l’impresa riduce i salari dei suoi dipendenti in questo modo essa aumenta i propri profitti ma i costi di tale riduzione cioè i costi delle mutue sono interamente scaricati sulla collettività. La collettività però in ragione di ciò perde i diritti fondamentali quelli che valgono per tutti i cittadini senza nessuna distinzione e perde il servizio sanitario pubblico. Cioè il conto viene pagato dai cittadini e da una intera società.

 

Non è vero quindi, come pensano tutti, che il welfare fiscale è un sostegno al reddito dei lavoratori ma in realtà esso è prima di tutto è un sostegno al reddito di impresa. Esso molto banalmente è il ritorno delle mutue del secolo scorso per mezzo dei grandi contratti di lavoro cioè è il ritorno a una tutela sanitaria anziché garantita dallo Stato e dai diritti garantita solo a una parte della nostra società cioè solo a chi ha un lavoro contro il resto della società dall’impresa in cogestione col sindacato.

Ma la fregatura non è solo fiscale e sociale ma soprattutto sanitaria. I lavoratori che sottoscrivono i fondi integrativi si illudono di aver una assistenza sanitaria di primo ordine. Ma non è così.

L’assistenza in questione per tante ragioni descritte in letteratura non ha la stessa qualità e affidabilità di quella garantita dal servizio pubblico. Oggi ad esempio, a parità di malattie, i tassi di mortalità registrati nei sistemi privati sono più alti di quelli registrati nei servizi pubblici. Del resto sappiamo tutti che curare le malattie secondo diritto nel servizio pubblico è un conto curarle nel privato quindi in conformità a nomenclatori, tariffe, standard è un altro paio di maniche. Il profitto da qualche parte deve pur venire fuori.

 

In sintesi il Jobs act è una vera “porcheria” neoliberista, partorita e ideata da neoliberisti di sinistra che di sinistra non hanno niente

Ma perché questa “porcheria” che compromette diritti importanti e conquiste storiche importanti tanto perniciosa e ingiusta non è al centro della battaglia referendaria promossa dalla Cgil? La Cgil nei suoi quesiti referendari si è limitata ad affrontare solo poche e marginali questioni giuslavoristiche legate alla precarietà e alla flessibilità ma nulla di più. Il referendum della Cgil non dice una parola sulla cogestione dei fondi integrativi tra impresa e sindacato, sul welfare aziendale, sulla fine dell’art 32 e sulla fine

Ma non è meglio pagare ai lavoratori il salario pieno come si deve e dare loro come a tutti una sanità pubblica universale e gratuita. Cioè secondo diritto?

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PREMIERATO. A Palazzo Madama si è chiusa ieri la discussione generale sul ddl Casellati, ma sia la ministra che il relatore Balboni hanno liquidato le obiezioni

 

Governo e maggioranza vanno avanti a testa bassa con il premierato elettivo, anche se il testo così come è «rischia seri problemi di costituzionalità», come ha osservato Marcello Pera in Aula. A Palazzo Madama si è chiusa ieri la discussione generale sul ddl Casellati, ma sia la ministra che il relatore Balboni hanno liquidato le obiezioni, non solo delle opposizioni ma della comunità dei costituzionalisti, con parole sprezzanti. Pera ha iniziato elogiando il premierato e criticando il Pd che non ne ammette la bontà, salvo poi smontare il ddl nel merito.

Innanzi tutto, ha osservato «mancano i contrappesi». E poi, «il testo dice che il presidente del consiglio è eletto direttamente dal popolo, ma non specifica bene come. Molte cose sono rimandate a una legge elettorale – ha aggiunto Pera – ma con molta franchezza vi dico che non tutto si può fare mediante una legge elettorale, senza una previsione costituzionale che le dia un sostegno. Cosa accade con il voto estero? Cosa accade in caso di discrasia tra il voto della Camera e quello del Senato? Cosa accade se i poli invece di due sono tre? Cosa si fa con il premio di maggioranza: a quale soglia lo fermiamo?».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Al mercatino delle riforme si aggiunge la giustizia

Gli stessi quesiti sollevati ieri da giuristi come Stefano Ceccanti e Peppino Calderisi. Inutile anche una apertura da parte del responsabile riforme del Pd, Alessandro Alfieri: «Fermate lo scambio fra autonomia differenziata e premierato e noi ci sediamo al tavolo un secondo dopo sul modello che ha garantito stabilità ed efficacia del governo in maniera senza eguali a livello continentale, quello tedesco».

Le parole di Balboni e Casellati nella loro replica sono state deludenti sul piano dei contenuti. Sono stati ripetuti argomenti demagogici come quello che la riforma «riconcilia la Costituzione con la sovranità popolare» e non si è fatto cenno alle obiezioni di Pera. A risaltare sono stati il tono irridente di Balboni («tanto deciderà il popolo con il referendum») e i termini con cui Casellati ha liquidato le obiezioni al testo: «litanie». Domani l’Aula inizierà il voto dei circa 3.000 emendamenti Pd, Avs e M5S faranno ostruzionismo. Non Iv, ma il mite capogruppo Borghi non ha potuto che liquidare le replica di Casellati: «Campagna elettorale»

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AIUTIAMOCI A CASA LORO. Prendono forma dati economici, obiettivi e finalità dei progetti del governo Meloni per l'Africa. Tanto petrolio (e caffè) per il Sistema Italia

 Giorgia Meloni con il presidente tunisino Kais Saied - Ap

Finalmente il fantasmagorico piano Mattei ha preso forma, con dati economici, obiettivi e finalità. Sul piano strettamente economico questo grandioso piano a favore del popolo africano preleva 4,2 miliardi in quattro anni dal Fondo per il Clima e 2,5 miliardi in quattro anni dal Dpt. Cooperazione allo Sviluppo. Si tratta di una media di 1,7 miliardi l’anno che rappresentano meno del 3% di quello che gli immigrati africani nei paesi occidentali mandano alle loro famiglie. Solo dall’Italia le rimesse dei migranti africani si stimano in cinque miliardi l’anno. Secondo l’ultimo rapporto Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) dal 2001 a oggi le rimesse internazionali dei migranti sono passate da 128 a 831 miliardi (sic!), cifra impressionante, ignorata da questo cosiddetto piano per l’Africa che punta tutto sugli investimenti pubblici e privati dell’Italia che dovrebbero rivoluzionare il modo di intendere la cooperazione con il Continente africano.

E veniamo alla filosofia di questo piano. Due sono gli obiettivi che hanno determinato le scelte dei paesi prioritari: Egitto, Tunisia, Etiopia, Kenya, Mozambico, Costa d’Avorio, Algeria, Marocco, Repubblica del Congo. Primo obiettivo: petrolio e gas per renderci indipendenti dalla Russia. Sono particolarmente interessati a questa operazione di estrazione delle risorse petrolifere l’Egitto, l’Algeria, il Mozambico, la Repubblica del Congo, e in misura minore la Tunisia. Secondo obiettivo esplicitato chiaramente: valorizzare la filiera del Sistema Italia, a partire dai paesi produttori di caffè: Etiopia, Costa d’Avorio, Kenya. Vengono scelti come partner (ma c’è stato un bando pubblico?) le seguenti imprese: Illy, Lavazza e Borbone. Si tratta, in sostanza, di dare una mano pubblica di sostegno a queste imprese che oggi risentono delle difficoltà di approvvigionamento, a causa del mutamento climatico che ha colpito alcuni importanti paesi produttori dell’America Latina, e di una continua e forte oscillazione dei prezzi. Se l’accordo con questi paesi africani esportatori di chicchi di caffè assumesse il metodo del fair trade internazionale, che stabilisce con i produttori di caffé contratti di medio periodo a prezzi nettamente superiori a quelli che le quotazioni di Borsa danno, allora sarebbe corretto inserire questa attività in un piano Mattei, dal nome del partigiano, grande manager pubblico e protagonista di una lotta alle multinazionali del petrolio che gli è costata la vita. Per Enrico Mattei bisognava rompere questo monopolio e trovare un accordo con i paesi africani produttori con vantaggi reciproci.

Niente di tutto questo, del metodo con cui Mattei voleva creare nuovi rapporti di scambio con i paesi africani, emerge da questo piano Meloni, al di là degli slogan «vogliamo negoziare alla pari», «non vogliamo rapinare le risorse dell’Africa come si è fatto finora».

C’è ancora una nota particolarmente interessante in questo piano: la riduzione della frammentazione delle risorse finanziarie. Ovvero, saranno presi in considerazione solo progetti da 200-300 milioni di euro come minimo. Quindi, nessuna possibilità di partecipare per le Ong di cooperazione internazionale, né per i Comuni che in questi anni, anche facendo salti mortali su bilanci risicati, hanno portato avanti progetti dal basso che vanno incontro alle esigenze delle popolazioni locali. D’altra parte, sono completamente ignorati i paesi della fascia del Sahel, quelli che soffrono di più la fame, la sete e l’emigrazione, ma non sono interessanti per il business e quindi usciranno fuori dai programmi governativi di cooperazione.

E sappiamo bene quali benefici comporta l’estrazione del petrolio in questi paesi. Basta chiederlo ai rappresentanti della diaspora africana in Italia: le royalties del petrolio/gas finiscono nelle mani di funzionari e governanti corrotti mentre la popolazione locale si prende l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dei terreni.

Alla fine andando alla Fiera di Roma in questi giorni si poteva visitare il Codeway-Business for Cooperation, la Fiera dedicata al settore privato nel mondo della cooperazione internazionale. Basta – scrivono gli organizzatori – con una narrazione pauperistica e rassegnata, l’Africa è oggi la terra per eccellenza delle opportunità di business, come sostiene la presidente del Consiglio. Non c’è altro da aggiungere: la regina è nuda

 

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IRAN. Con la morte del presidente Ebrahim Raisi (e del suo ministro degli Esteri Amirabdolahian) si apre in Iran una doppia successione. La prima, a breve, è quella per la presidenza […]

Memoriale davanti all'ambasciata iraniana a Bucarest dopo la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian APE/ROBERT GHEMENT Memoriale davanti all'ambasciata iraniana a Bucarest dopo la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian - Ap

Con la morte del presidente Ebrahim Raisi (e del suo ministro degli Esteri Amirabdolahian) si apre in Iran una doppia successione.

La prima, a breve, è quella per la presidenza dove il suo vice Mohammed Mokhber dovrà guidare il Paese a nuove elezioni entro cinquanta giorni.

La seconda riguarda quella alla Guida Suprema Ali Khamenei, anziano e di salute malferma, di cui Raisi veniva indicato come un probabile successore (insieme allo stesso figlio di Khamenei Mojtaba).

Il tutto avviene in un Paese dove si manifesta un sempre maggiore scollamento tra il regime e la popolazione e in un contesto regionale e internazionale incendiario in cui, con la guerra di Gaza, l’Iran e Israele il mese scorso si sono confrontati per la prima volta nella storia sul piano militare.

La scomparsa di Raisi ha già delle conseguenze immediate interne insieme ad altre che potrebbero incidere sulla repubblica islamica sciita e su tutta la regione. In primo luogo la transizione alla presidenza – che in Iran è di fatto la direzione governo mentre la massima istanza è la Guida Suprema Alì Khamenei – viene assunta dal vice di Raisi, Mohammed Mokhber, personaggio non di primissimo piano ma gerarca di alto livello in quanto capo della Setad, la fondazione della Guida Suprema che costituisce il più grande conglomerato economico del Paese.

Ma Raisi non era soltanto il presidente con una lunga carriera come capo della magistratura: era il leader ultraconservatore che avevano voluto Khamenei e i Pasdaran, le guardie della Rivoluzione, per conquistare la presidenza nel 2021 e succedere al più moderato Hassan Rohani che aveva firmato gli accordi sul nucleare con l’amministrazione Obama nel 2015, contestati per altro dall’ala più radicale del regime.

La sua ascesa è stata dovuta al più rilevante cambiamento del regime iraniano degli ultimi decenni: la sempre maggiore influenza dell’ala militare dei Pasdaran che ha condizionato anche l’establishment religioso.

Le Guardie della Rivoluzione – fondamentali durante rivoluzione e nella guerra contro il dittatore iracheno Saddam Hussein negli anni Ottanta – avevano già conquistato la presidenza con Ahmadinejad ma dopo la fase di Rohani volevano riaffermare la loro preminenza nel Paese sia sul fronte della sicurezza che su quello economico. Le linee di politica estera e interna un tempo venivano elaborate nel dibattito, a volte assai aspro, all’interno delle sfere religiose di Qom, una sorta di Vaticano dello sciismo, oggi l’ala militare, già in primo piano con il generale Qassem Soleimani – eliminato dagli americani il 3 gennaio del 2020 a Baghdad – è diventata sempre più decisiva. E per un motivo evidente: dopo l’11 settembre 2001, la guerra afghana e l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, i militari sono andati sempre più in prima linea su un fronte mediorientale diventato ribollente con l’ascesa in Mesopotamia di Al Qaeda e dell’Isis, due formazioni sunnite terroristiche ostili ai musulmani sciiti e all’Iran. Con le primavere arabe, la rivolta contro il siriano Assad nel 2011 e lo scontro tra Hezbollah libanesi e Israele, i Pasdaran hanno di fatto guidato non solo le truppe ma anche determinato la politica estera e le alleanze Teheran.

Raisi, pur con il turbante nero dei Seyed, segno distintivo dei discendenti di Maometto, era il risultato di questa evoluzione. Non è un caso che ieri ci sia stato il cordoglio di Hamas e degli Hezbollah, oltre a quello russo e cinese, perché Raisi come presidente e possibile successore di Khamenei rappresentava

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20 maggio 1970 - 20 maggio 2024

 Pochi eventi nella storia repubblicana italiana hanno assunto una valenza tanto emblematica e straordinaria da assurgere, nell’interpretazione degli analisti, ad autentico spartiacque fra un prima e un dopo, come il biennio operaio 1969-70. La centralità del conflitto, culminato nell’ “autunno caldo”, offrirà una testimonianza per molti versi unica, per intensità e durata, in virtù di un protagonismo delle masse come solo di rado si verifica nella storia di una nazione. Al punto da indurre vari osservatori a instaurare un parallelo fra quel biennio e pochi non meno cruciali altri, come quello del 1943-45 e finanche del 1920-21. Lo Statuto dei lavoratori ne sarà, il 20 maggio 1970, l’approdo normativo più celebre e rappresentativo.

Fin dal suo III Congresso del 1952, a Napoli, la Cgil chiedeva una “Carta dei diritti dei lavoratori”, volta a riconoscere l’esercizio dei diritti civili e politici, anche nei luoghi di lavoro. L’obiettivo, si sarebbe detto più avanti, era quello di “fare entrare la Costituzione in fabbrica”.
Il suo iter non fu semplice, e non soltanto a causa della prematura morte del ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, nell’estate del ’69, quando il Ddl era ancora in discussione.
Obiezioni e resistenze provenivano da un variegato fronte di organizzazioni e interessi. Sorvolando su quelle, scontate, del mondo datoriale e liberal-conservatore, ricordiamo
come il Pci si opponesse a causa dell’esclusione degli organismi politici dai luoghi di lavoro; la Cisl per via della sua programmatica ritrosia verso la legge, già manifestata
nel ’66, in tema di licenziamenti individuali; la sinistra extraparlamentare per il timore di imbrigliare e cristallizzare rapporti di forza che, allora, dovevano apparire come inesauribilmente progressivi.

Alla fine lo Statuto venne approvato (legge n. 300) e si trattò, come ha scritto Gian Primo Cella, dell’ “atto di ‘ammissione’ (se non di ‘promozione’) delle relazioni industriali più significativo messo in atto nei sistemi liberal-democratici”. Articoli come il 18 e il 28 doteranno i lavoratori e il sindacato italiano di alcune fra le misure più intensamente garantiste del

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NO ALLA DEPORTAZIONE “VOLONTARIA” DEI PALESTINESI DA GAZA E DALLA CISGIORDANIA.

Palestinians take part in a protest against the US move to freeze funding for the UN agency for Palestinian refugees at the Rafah refugee camp in the...

L'Assemblea generale della Nazione Unite ha approvato venerdì 10 maggio una risoluzione che riconosce la Palestina, per cui da quella data la Palestina è qualificata a diventare membro
a pieno titolo dell’Onu. L’Assemblea generale raccomanda al Consiglio di Sicurezza di “riconsiderare favorevolmente la questione”. Va ricordato che la Palestina partecipa da decenni ai lavori della Nazione Unite in qualità di Osservatore.

Questo voto, in piena aggressività e guerra senza precedenti da parte dell’esercito israeliano, rappresenta un referendum mondiale al livello più alto dal punto di vista istituzionale, che ha visto un verdetto chiaro e trasparente con 143 Stati a favore del riconoscimento della Palestina, 9 contrari, tra cui gli Usa, l’Ungheria, l’Argentina e Israele.
Venticinque Stati, fra cui l’Italia, la Germania e l’Inghilterra, si sono astenuti, andando contro ogni logica e diritto internazionale. Questi Stati da anni non fanno altro che parlare di “due Stati e due popoli”, ma evidentemente si tratta di chiacchiere e null’altro. Una ipocrisia politica che con questo ‘referendum’ si è manifestata in modo chiaro e trasparente.
L’Italia guidata dalla destra appoggia in modo incondizionato il governo israeliano, non rispettando la storia che ha “il bel paese” con la causa e il popolo palestinese.
Il governo italiano, con questo comportamento antistorico, annulla e cancella una tradizione oramai consolidata di solidarietà, vicinanza e sostegno del diritto del popolo
palestinese all’autodeterminazione.

Il 10 maggio, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dato alla Palestina il diritto di operare all’interno del suo plenum, come Stato membro a pieno titolo.
Questo voto rappresenta a tutti gli effetti un referendum mondiale sulla questione palestinese, a cui ne va aggiunto un altro rappresentato dall’opinione pubblica mondiale dei giovani universitari in tutto il mondo, che si stanno mobilitando per sostenere il diritto del popolo palestinese.
Due ‘referendum’ schiaccianti che si contrappongono  allo spirito coloniale ancora vivo in molti Stati occidentali.

Il voto del 10 maggio dimostra in modo inequivocabile che purtroppo non ci siamo ancora liberati da questo concetto.
Il 15 maggio ricorre l’anniversario del Nakba e, purtroppo, dopo 76 anni, anziché affrontare la tragedia di un popolo, il mondo occidentale non solo sta a guardare di fronte alla seconda Nakba che si sta verificando a Gaza e in Cisgiordania, ma agisce diventando esso stesso complice di questa ennesima tragedia del popolo palestinese. Da tempo si parla di deportazione di massa dei palestinesi di Gaza. E siccome questa proposta ha trovato un rifiuto da tutti, sia dai popoli che dai governi di tutto il mondo, si è iniziato a parlare di ‘migrazione
volontaria’, un termine molto soft per evitare la reazione ed il rifiuto della politica verso la deportazione di massa, l’ennesima pulizia etnica.
L’annunciata costruzione di un porto mobile a Gaza da parte dell’amministrazione americana, che ufficialmente doveva essere utilizzato per fare arrivare gli aiuti umanitari ed i medicinali, di fatto serve a permettere la migrazione “volontaria” di chi non vuole morire sotto le bombe oppure per fame.

Chi accoglierà questi “deportati volontari” palestinesi? Sembra pronto un piano di distribuzione. Se queste informazioni si riveleranno fondate, sarà l’ennesimo atto di ingiustizia verso il popolo palestinese, di cui l’Occidente dovrà assumersi la responsabilità di fronte alla storia e alle future generazioni.

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