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Potere assoluto Trump e la cerchia di miliardari che ha deciso di investire su di lui, esponenti della classe che ha la maggiore (se non la piena) responsabilità dei disastri nei quali siamo immersi - dalla crisi economica a quella climatica alle guerre - riescono a presentarsi come la via di uscita dal pantano

La vittoria del divorzio dalla realtà Ap

«You’re the media now», difficile trovare un commento più rivelatore della vittoria di Donald Trump. Lo ha scritto Elon Musk, il prescelto, il «super genius», ma anche il proprietario di X, la piattaforma ex twitter dove ha immediatamente postato il suo commento. Ma dove «il media» non è certo l’utente comune al quale si rivolgeva. Perché in effetti il media è proprio lui, Musk.

Lo è fino in fondo, visto che smaccatamente dichiara di fare della sua piattaforma un uso politico in favore dell’agenda trumpiana, palesi o nascoste dietro gli algoritmi che siano le sue mosse. Dunque un padrone che dice al popolo: il padrone sei tu. Riuscendo a essere convincente, così come convincente, e vincente, è stato Trump nel proporsi come un paladino della classe media.

Il racconto che contraddice la realtà è un elemento centrale di questo successo. Trump e la cerchia di miliardari che ha deciso di investire su di lui, esponenti della classe che ha la maggiore (se non la piena) responsabilità dei disastri nei quali siamo immersi – dalla crisi economica a quella climatica alle guerre – riescono a presentarsi come la via di uscita dal pantano. Ci riescono non in nome di un programma politico – che pure hanno, nero su bianco, e che fa terrore – ma in virtù di un discorso emozionale che trasforma ogni elezione, anche quelle per la presidenza, in un referendum sulle piccole rassicurazioni alle quali nessuno vuole rinunciare. I confini protetti, i valori tradizionali, il maschilismo tra questi, la sicurezza nel vicinato.

Nella costruzione del racconto alternativo a quello fattuale è fondamentale il ruolo delle piattaforme proprietarie digitali. Non solo simbolicamente siamo più vicini che mai all’insediamento del più ricco tra i tech-bilionaries direttamente alla Casa bianca. Il capitalismo della sorveglianza prima che un progetto politico è stato un perfetto modello di business, talmente perfetto da poter reagire alle avvisaglie di crisi prendendo direttamente il potere. Con un’agenda niente affatto nascosta che devasterà ulteriormente il mondo, arricchirà i ricchi e impoverirà diversi milioni di elettori di Trump.

In una partita in cui la comunicazione finisce con l’essere tutto – terreno, strategia e misura stessa del gioco – i mezzi di comunicazione tradizionali fanno la fine del partito democratico, non toccano palla. Dietro alle scrivanie dove ancora valgono la razionalità del discorso neoliberale e le forme della democrazia, Trump evidentemente è un corpo estraneo. Infatti parla altrove, lui e i suoi paladini, la infosfera non è avara di spazi. Se una novità segnala questa campagna è forse il declino di un mezzo antico che aveva fin qui mantenuto la sua centralità nell’informazione, la televisione. Trump ha straperso l’unico dibattito televisivo fatto con Harris e si è rifiutato di farne altri, ma la debacle non ha pesato. Anzi, anche in quel frangente, più si è spinto su posizioni estreme – «gli haitiani mangiano i cani» – diventando un meme, più ha consolidato il suo elettorato (persino nella contea dei falsi mangiacani) senza perdere voti.

Dopo le prove generali quattro anni fa, queste sono state le prime elezioni giocate dall’inizio alla fine senza alcuna base fattuale condivisa dalle due parti in contesa. In gran parte schierati contro Trump, i media tradizionali con il New York Times in testa non hanno però proposto su nessuno dei temi centrali nel racconto del tycoon – sicurezza, immigrazione, protezionismo economico – un punto di vista alternativo, ma solo più moderato. Un po’ come il partito democratico. Lo stesso episodio degli abbonati in fuga dal Washington Post per il mancato endorsement ad Harris, letto dai liberal come una testimonianza di vitalità del pensiero critico, è da valutare con più attenzione.

Il giornale in fondo non ha mutato, fino a ieri, la sua linea critica verso Trump, ma per ragioni di evidente opportunismo del suo proprietario Bezos si è astenuto dall’ufficializzarsi «pro dem». Tanto ha scatenato la crisi, perché questo sono diventati anche i media mainstream: un recinto per tifoserie. Destinati, però, adesso, a non godere neanche dell’effetto panico da prima volta, quel Trump bump che gonfiò le vendite otto anni fa. L’informazione di qualità per élite resiste al riparo dietro costosi paywall, ma questi funzionano anche come schermo verso la realtà degli elettori. Non capito e non previsto, è arrivato il diluvio