COMMENTI. La decisione del governo Meloni di fare uscire l’Italia dalla cosiddetta «nuova via della seta cinese» rappresenta un errore strategico, che non favorisce l’economia nazionale e non aiuta ad allentare […]
La decisione del governo Meloni di fare uscire l’Italia dalla cosiddetta «nuova via della seta cinese» rappresenta un errore strategico, che non favorisce l’economia nazionale e non aiuta ad allentare le tensioni sullo scacchiere mondiale.
La nuova via della seta è un progetto ormai decennale con cui il governo cinese sta investendo risorse nell’ampliamento delle reti infrastrutturali di trasporto e di connessione verso l’Africa, il Medio oriente e l’Europa, fino alle coste atlantiche della Spagna. L’Italia ha finora partecipato a vari snodi del progetto, riguardanti tra l’altro i porti del mediterraneo e i relativi collegamenti di terra. Dal prossimo anno questi programmi di investimento dovranno essere interrotti o almeno ridimensionati.
Lo strappo del governo italiano è stato caldeggiato per mesi dall’amministrazione statunitense, che ora saluta la decisione con entusiasmo. L’obiettivo di bloccare la via della seta cinese è un tassello della svolta storica che ha portato gli americani ad abbandonare il vecchio liberismo per inaugurare una nuova politica di protezionismo aggressivo, definita friend shoring: vale a dire, ora intendono fare affari solo con gli «amici» occidentali e i loro sodali, mentre puntano a elevare barriere commerciali e finanziarie sempre più alte e selettive contro la Cina, la Russia e gli altri paesi non allineati.
In questa strategia americana rientra pure la costruzione dell’Imeec, il corridoio tra India ed Europa che passa per il Medio oriente, e che gli Stati uniti promuovono come espressa alternativa alla via cinese.
Dal punto di vista americano, questo nuovo ordine protezionista ha precise basi economiche. Si tratta infatti di un tentativo estremo per fronteggiare un ormai sistematico eccesso di importazioni, che ha portato al record storico di 18 mila miliardi di dollari di debito americano verso l’estero, soprattutto verso la Cina. In sostanza, gli Stati uniti faticano a reggere una competizione capitalistica a cui essi stessi avevano dato una spinta decisiva negli anni passati, quando ancora propugnavano la dottrina del libero scambio su scala mondiale.
In questo complicato rovesciamento dialettico, l’Unione europea e l’Italia si trovano in una situazione peculiare: anch’esse con un moderato debito verso il gigante cinese ma complessivamente in posizione di credito verso il resto del mondo. Per loro, quindi, aderire al protezionismo statunitense non avrebbe molto senso, eppure stanno ripiegando passivamente verso di esso. La decisione di ieri, da parte del governo Meloni, è l’ennesima conferma di una manifesta subalternità strategica agli interessi americani.
Purtroppo, la tendenza ad assecondare in modo acritico il protezionismo aggressivo degli Stati uniti non solo non ha solide basi economiche, ma più in generale non aiuta la pace. Come abbiamo sostenuto nell’appello «Le condizioni economiche per la pace» (pubblicato il 17 febbraio sul Financial Times e il 12 marzo su Le Monde), l’idea statunitense di risolvere i problemi di indebitamento dividendo il mondo in due grandi blocchi commerciali, di «amici» e «nemici», rappresenta una delle cause scatenanti delle attuali tensioni militari nel mondo. Basti citare un esempio, tra tanti. Le violenze di Hamas in Israele e il massacro israeliano di Gaza sono stati subito interpretati dal governo cinese come una prova che il corridoio Imeec alternativo alla via della seta è un progetto troppo dipendente dall’ormai fragile egemonia americana in Medio oriente, e quindi instabile e senza sbocco.
I venti di guerra, dunque, vengono intesi come feroci verifiche sulla tenuta o meno del nuovo ordine protezionista. Nella storia del capitalismo un tale funesto inviluppo è già avvenuto. Sta accadendo di nuovo, ma chi ci governa sembra far finta che la cosa non gli riguardi