LA CAMPAGNA. Dopo anni di austerità e vincoli di bilancio per gli enti locali da sabato comincia la raccolta firme per invertire la rotta
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«Altro che autonomia differenziata: riprendiamoci il Comune!»: da sabato prossimo prende il via la raccolta firme per due leggi di iniziativa popolare che hanno l’obiettivo di restituire sovranità ai comuni, strozzati dalle regole dell’austerità degli ultimi anni e impossibilitati ad avere spazi di bilancio.
Lo strumento da superare si chiama Patto di stabilità e crescita che nel decennio 2000-2010 ha causato la perdita di oltre 50 mila occupati nel solo settore degli enti locali, personale di cui si sente la mancanza ora che gli enti locali dovrebbero gestire la cosiddetta «messa a terra» del Pnrr.
Per chiedere al parlamento di invertire la rotta servono almeno 50 mila firme. In teoria dovrebbero valere anche quelle digitali, ma il portale istituzionale che dovrebbe consentire la validazione non è ancora attivo. Dunque, dal 4 febbraio compariranno i tradizionali banchetti. Alla campagna ha aderito un vasto cartello di associazioni, dall’Arci alle Acli passando per il Forum per l’acqua pubblica, Attac, la Funzione pubblica Cgil, Fridays For Future, Unione Inquilini.
La prima legge, spiegano i promotori, punta a «cambiare radicalmente le regole di austerità che da trent’anni governano la gestione economica e finanziaria dei comuni e delle province: un quadro normativo che ha finito per strozzare gli enti locali». Nonostante il debito dei comuni corrisponda soltanto all’1,5% di quello complessivo, alle amministrazioni in questi anni sono stati posti vincoli di bilancio rigidissimi. Il contributo richiesto ai comuni, tra tagli ai trasferimenti e pareggio di bilancio finanziario, è passato da 1,65 miliardi di euro del 2009 ai 16,66 miliardi del 2015. Si propone dunque di affiancare all’obiettivo dell’equilibrio finanziario su base triennale anche il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere. E poi cancellare i vincoli per la spese di personale e disporre della facoltà di riportare agli enti locali la gestione dei servizi pubblici.
Ciò consentirebbe, ad esempio, di salvaguardare il territorio, visto che al momento l’unica possibilità di trovare i fondi per fare investimenti per le amministrazioni comunali risiede nel mettere a bilancio gli oneri di costruzione. Il che ha spinto gli amministratori ad allentare la pianificazione urbanistica e rinunciare alle politiche di regolazione. Soltanto nel 2021 le nuove coperture artificiali hanno interessato 69,1 chilometri quadrati, cioè 19 ettari in media al giorno. «Il valore più alto degli ultimi dieci anni», dicono le associazioni per sottolineare il nesso tra vincoli di bilancio e devastazione ambientale.
La seconda proposta di legge del cartello «Riprendiamoci il Comune» serve a riportare Cassa depositi e prestiti «al servizio delle comunità locali e non invece dei grandi interessi della rendita, della finanza e delle privatizzazioni» come accade da quando, venti anni fa, venne trasformata in una società per azioni che agisce e si muove come un istituto di diritto privato. L’istituto, tuttavia, era stato creato per raccogliere e tutelare il risparmio dei cittadini e utilizzare questa riserva per finanziare gli investimenti degli enti locali a tassi agevolati. Nel 2022 si tratta di 280,5 miliardi di euro versati da più di 20 milioni di risparmiatori. I dati forniti dal comitato promotore parlano chiaro: mediamente il 10% delle spese correnti di un comune serve a pagare gli interessi sul debito, questa cifra sale al 12% per 1403 piccoli comuni e supera addirittura il 18% per altri 727
Per il segretario generale della Cgil tutti i tavoli con l'esecutivo non portano a nulla perché non c'è la volontà di ascoltare le parti sociali
"Questo governo anziché ridurre le fratture del Paese le sta aumentando. L'autonomia differenziata accresce le diseguaglianze tra Nord e Sud. Non fare una seria riforma fiscale significa che i lavoratori dipendenti e i pensionati pagano le tasse anche per il resto del Paese. Non ridurre la precarietà vuol dire contrapporre i lavoratori e non dare un futuro ai giovani. Tutto questo il governo lo sta facendo senza confrontarsi con i sindacati: siamo in presenza di molti tavoli di confronto, ma nessuna trattativa vera". Lo ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, parlando dal congresso del sindacato regionale in Sardegna.
I sindacati sollecitano modifiche alle nuove norme riguardanti la soglia minima di retribuzione dei lavoratori autonomi. E chiedono una riforma complessiva
Le nuove norme sull'equo compenso sono state approvate dalla Camera senza modifiche e attendono l'ok definitivo del Senato, ma i sindacati non si arrendono nel chiedere modifiche e incontri con il governo per cambiare una legge che non convince.
Il provvedimento parla di un compenso economico adeguato che viene erogato al professionista in modo proporzionato alle prestazioni e al lavoro svolto per i committenti come la Pubblica amministrazione, le banche e le assicurazioni e viene stabilita la soglia minima al di sotto della quale non si può andare. Il testo è il medesimo messo a punto nella precedente legislatura.
Per Federica Cochi, presidente di Apiqua (Associazione quadri professionisti e alte professionalità legata alla Cgil), "i problemi sono tre. Il primo è quello della platea dei beneficiari della legge: è ancora troppo ristretta, perché fa riferimento a chi lavora per i grandi committenti e anche le soglie non vanno bene. In questo modo infatti si allarga il divario tra professioni ordinistiche e non, con meno diritti per i lavoratori professionisti autonomi non iscritti agli ordini".
Il secondo problema riguarda le sanzioni, che colpiscono particolarmente i professionisti: "Loro - prosegue Cochi - sono la parte più debole nel confronto con i committenti interessai dalla legge. Se non accettano il compenso sotto soglia non sono agevolati alla denuncia perché vengono essi stessi sanzionati".
Dello stesso parere anche Silvia Simoncini, della segreteria del Nidil Cgil, per la quale “siamo di fronte a un paradosso, perché la contrattazione uno a uno rende già debole di per sé il lavoratore, molto più di quanto si immagini”.
"Infine - il terzo punto critico per Apiqua - non è previsto che siedano allo stesso tavolo tutti gli organismi di rappresentanza dei lavoratori, quindi degli autonomi. Si riduce così la portata di partecipazione, come la nostra con Cgil, Cisl e Uil".
Per Cochi la legge è quindi completamente da rifare, come proponeva Apiqua chiedendo al governo di ascoltare le richieste dei professionisti autonomi non ordinistici e di tutte le organizzazioni: "Ma noi opporremo tutti nostri sforzi e nelle future convocazioni continueremo a battere anche su questo tasto, anche perché al di là della forma di contratto il tema è la tutela dei diritti della persona”.
L'arma dello sciopero è difficilmente applicabile a fronte della frammentazione delle singole situazioni, quindi gli strumenti per opporsi alla norma dell'equo compenso come elaborata nel testo all'esame del Senato consistono nel fare rete, nel fare fronte comune per mostrare una forza collettiva, puntando sui molti punti in comune tra le diverse organizzazioni e associazioni sindacali.
"Fare fronte comune - conferma Simoncini - è difficile ma non impossibile, perché in potenza c’è lo spazio per mettere in campo azioni di tutela e autotutela, Tutto passa per la messa in rete di esigenze e rivendicazioni, delle quali tutti abbiamo deciso di farci carico, anche per il raggiunto grado di consapevolezza. In questo il grande trampolino di lancio è costituito dalla Carta dei diritti universali (la proposta di leggedi iniziativa popolare per la riscrittura del diritto del lavoro depositata alla Camera nel 2016, ndr), che sposta l'oggetto dalla forma contrattuale al lavoratore".
Il Nidil sottolinea allora la necessità di una riforma del mercato del lavoro che sia complessiva, "per evitare i provvedimenti spot che danno una risposta, spesso non esaustiva, al singolo, escludendo altri soggetti e una visione globale".
Anche l'Istat ha certificato che nel mercato del lavoro gli autonomi sono in continua crescita e, tra questi, sono sempre più coloro che hanno la consapevolezza delle tutele alle quali hanno diritto. "Abbiamo fatto un'inchiesta nazionale sui professionisti autonomi - ci racconta Cochi -, che pubblicheremo a breve e nella quale abbiamo chiesto della loro situazione durante la pandemia e dopo, quali sono le esigenze e cosa vogliono da noi. Ebbene, ci chiedono risposte collettive in termini di tutele sociali (malattia, maternità, infortuni) e di spingere su di un equo compenso che sia davvero tale. A questo dobbiamo perciò rispondere".
Ci sono infine altre due questioni. Quella dei giovani è toccata dalle parole di Federica Cochi: "Abbiamo sempre più risposte anche dalle lavoratrici e dai lavoratori tra i 30 e i 40 anni ed emerge l'esigenza di tutela, ma non di trasformazione in contratti da dipendenti, perché vogliono rimanere autonomi e questo ci rende consapevoli dell'esperienza e della trasformazione di vita e di cultura degli ultimi decenni."
L'altra la sottolinea Silvia Simoncini: "Sui lavoratori autonomi cade un pezzo di rischio d'impresa che deve essere pagato, lo stesso discorso he vale per la flessibilità. Ed è anche per questo che, quando si apre uno spiraglio di trattativa, dobbiamo cercare di contare di più"
Rapporto Legambiente: nel 2022 ben 72 città superavano i limiti di inquinamento dell’Oms, serve una svolta. Le proposte: limite a 30 km/h, piano di riqualificazione energetica per le case, piste ciclabili
Traffico e smog a Milano - Foto LaPresse
Ben 72 su 95 capoluoghi di provincia italiani censiti superano i livelli di inquinamento fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Allo stesso tempo, 29 città sono fuorilegge rispetto alla molto più lasca normativa italiana sulle polveri sottili. L’inquinamento atmosferico continua a essere molto forte, specie lungo la pianura Padana, producendo costi sociali e sanitari fortissimi.
IL QUADRO È MOSTRATO dai dati del rapporto annuale di Legambiente «Mal’Aria di città 2023: cambio di passo cercasi» che partono con una clamorosa constatazione che rende bene l’idea di quanto il nostro paese sia ambientalmente arretrato: «Non è stato possibile recuperare e analizzare i dati per le regioni Abruzzo, Basilicata e Campania».
A guidare la classifica delle città più inquinate superando il limite dei 35 giorni di sforamento previsti per le famigerate Pm10 è Torino (centralina Grassi) con 98 sforamenti, seguita da Milano (Senato) con 84, Asti (Baussano) 79, Modena (Giardini) 75, Padova (Arcella)e Venezia (Tagliamento) con 70, limitandosi solo a quelle che hanno doppiato il numero di sforamenti tollerati dalla norma.
Anche per le Pm2.5 – il cosiddetto «particolato fine» caratterizzato da lunghi tempi di permanenza in atmosfera e in grado di penetrare più in profondità nell’albero respiratorio umano – la situazione di criticità è analoga. Delle 85 città di cui si aveva a disposizione il dato, ben 71 (l’84% del campione) nel 2022 hanno registrato valori superiori a quelli previsti al 2030 dalla prossima direttiva europea. Monza (25 nanogrammi per metro cubo), Milano, Cremona, Padova e Vicenza (23), Alessandria, Bergamo, Piacenza e Torino (22), Como (21) sono le città che di fatto ad oggi doppiano quello che sarà il nuovo valore di legge (10 nano grammi per metro cubo).
Situazione molto negativa anche per quanto riguarda il biossido di azoto (NO2) – inquinante molto pericoloso prodotto dal traffico veicolare e dagli impianti di riscaldamento – : sono 57 su 94 (il 61%) le città che, pur non superando il limite attuale, nel 2030 saranno fuorilegge (20 nanogrammi per metro cubo), con le situazioni più critiche registrate a Milano (38 nanogrammi per metro cubo), Torino (37), Palermo e Como (35), Catania (34).
I DATI PORTANO LEGAMBIENTE a denunciare come «le città italiane sono lontane dagli obiettivi da raggiungere nel giro dei prossimi sette anni»: per il Pm10 le città più lontane dall’obiettivo sono Torino e Milano (43%), Cremona (42%), Andria (41%) e Alessandria (40%). Per il Pm2.5 sono lontanissime Monza (60%), Milano, Cremona, Padova e Vicenza (57%), Bergamo, Piacenza, Alessandria e Torino (55%), Como (52%), Brescia, Asti e Mantova (50%) che dovranno più che dimezzare le concentrazioni attuali. Per il biossido di azoto le città più indietro sono ancora Milano (47%) e Torino (46%), seguite da Palermo (44%), Como (43%), Catania (41%), Roma (39%), Monza, Genova Trento e Bolzano (34%) che dovranno ridurre di oltre un terzo le attuali concentrazioni. Stando «alle tendenze di riduzione registrate negli ultimi 10 anni, potrebbero impiegare mediamente altri 17 anni per raggiungerlo. Il 2040 anziché il 2030. E Città come Modena, Treviso e Vercelli potrebbero metterci oltre 30 anni!», denuncia Legambiente. Anche per «il biossido di azoto la situazione è analoga e una città come Catania impiegherebbe più di 40 anni a risanare l’aria».
PER «CAMBIARE PASSO» Legambiente lancia sei proposte. Si parte con il passaggio dalle attuali Ztl (zone a traffico limitato) alle Zez (zone a zero emissioni). La seconda riguarda i Lez (low emission zone, zone a bassa emissione) anche per il riscaldamento: «serve un grande piano di riqualificazione energetica dell’edilizia pubblica e privata, incentivare una drastica riconversione delle abitazioni grazie a misure strutturali, come il Superbonus, opportunamente corretto dagli errori del passato come gli incentivi alla sostituzione delle caldaie a gas». La terza guarda al «potenziamento del Trasporto pubblico e Trasporto rapido di massa (Trm) quadruplicando l’offerta di linea e la promozione di abbonamenti integrati. E ancora: sharing mobility (incentivare la mobilità elettrica condivisa e realizzare ulteriori 16mila km di percorsi ciclabili invece azzerati dall’ultima legge di bilancio); ridisegnare lo spazio pubblico urbano a misura d’uomo, «città dei 15 minuti», sicurezza stradale verso la «Vision Zero», «città 30» all’ora seguendo l’esempio di Cesena, Torino, Bologna e Milano; tutto elettrico in città, anche prima del 2035, grazie alla progressiva estensione delle Zez, alla triplicazione dell’immatricolazione di autobus elettrici e l’istituzione dei distretti Zed (Zero Emissions Distribution) lasciando entrare solo veicoli merci elettrici.
Un piano che, considerando la sensibilità ambientale della maggioranza di destra, appare una sfida politica totale che va supportata con la mobilitazione di tutti
Per la vice segretaria generale Cgil Gianna Fracassi sono necessari un'accelerazione e un governo delle politiche industriali, del lavoro e della formazione
erché non si riescono a raggiungere gli obiettivi della transizione ecologica? Nonostante il nostro Paese abbia delle straordinarie eccellenze e sia leader in alcuni settori come l’economia circolare, perché i target europei fissati al 2030 sembrano così lontani?”.
La domanda la pone Gianna Fracassi, vice segretaria generale Cgil, al convegno organizzato dal Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, durante l’incontro “La transizione ecologica: un’opportunità di sviluppo per l’Italia”, un tema centrale del quale secondo la sindacalista si continua a dibattere con spazi di confronto che propongono argomenti atti a distrarre: “Un esempio su tutti: il nucleare, sul quale si è aperto un dibattito, mentre ci sono altre scelte che vanno fatte. Invece c’è l'urgenza di mettere in campo iniziative di politica pubblica”.
I tempi del cambiamento sono un elemento cruciale, perché se è vero che è già in atto la trasformazione verde verso produzioni che non espropriano la natura e non impoveriscono gli ecosistemi, che non inquinano, non accelerano il riscaldamento globale, quanto si sta facendo ancora non basta.
“Stiamo andando molto più piano del necessario, le misure e le politiche non sono sufficienti, di questo passo il mondo e ancora più l’Italia si dirigono verso il disastro – afferma Giovanni Dosi, docente dell’istituto di economia della Scuola Sant’Anna di Pisa -. Stando all’opinione di molti scienziati, l’obiettivo di contenere il riscaldamento del Pianeta a 1,5 gradi non sarà raggiunto mentre la previsione di un aumento di 2°C in due secoli e mezzo è catastrofica perché non è mai successo nella storia millenaria della Terra. Il punto principale quindi è l’urgenza. Il secondo è il fatto che la trasformazione ambientale e lo sviluppo non sono in conflitto, anzi”.
Certamente, però, la transizione comporta fatica e richiede lo sforzo di cambiare approccio: il modello economico decarbonizzato è profondamente diverso da quello che conosciamo e questo crea resistenze. “Significa cambiare morfologicamente l’idea stessa di modello economico – riprende Fracassi -. Questo vuol dire che anche le scelte e le politiche vanno radicalmente ripensate da due punti di vista: quello del lavoro e della qualità del lavoro, perché la transizione deve essere accompagnata dalla tutela e dalla creazione di nuova e buona occupazione; e quello delle scelte che il governo deve fare, ripristinando un soggetto che determina le politiche industriali e definisce la specializzazione produttiva del nostro Paese”.
Un processo complesso che richiede una strategia in grado di tenere insieme le politiche industriali, quelle del lavoro con sostegni attivi e passivi, quelle per la formazione e la qualificazione, nell’ottica anche dell’altra transizione digitale che stiamo affrontando. “Gli incentivi che lo Stato eroga abbondantemente e generosamente – aggiunge la vice segretaria Cgil -, non possono essere affidati al mercato senza alcuna finalizzazione o selettività, ma vanno orientati nell’ottica del lavoro, della qualità, delle scelte green”.
Poi c’è il Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza, “che non deve essere un’occasione persa – conclude Fracassi -. Io sono ottimista e dico che ce la possiamo fare. Ma anche in questo caso ci vuole un indirizzo. Da qui al 2030 dobbiamo raddoppiare la produzione energetica da fonti rinnovabili, riservando una parte delle risorse a sostenere le filiere industriali legate alle due grandi transizioni, partendo dalle aree di crisi complessa. La risposta che abbiamo visto, però, è stata una pletora di misure che intervengono solo parzialmente e non a sostegno di tutte le filiere”
Alle 19.41 del 25 gennaio 2016 il ricercatore italiano al Cairo invia il suo ultimo sms. Il suo corpo verrà ritrovato, seviziato e torturato, nove giorni dopo
Alle 19.41 del 25 gennaio 2016 il ricercatore italiano Giulio Regeni invia un sms alla fidanzata in Ucraina. Poco dopo, la studentessa Noura Wahby, che Giulio aveva conosciuto nel 2014 a Cambridge, ne denuncia la scomparsa sul proprio profilo facebook.
Nato a Trieste il 15 gennaio 1988 e cresciuto a Fiumicello, in provincia di Udine, Giulio aveva studiato a lungo all’estero e al momento del rapimento stava conseguendo un dottorato di ricerca presso il Girton College dell’Università di Cambridge. Il ritratto che amici e parenti hanno fatto di lui è unanime: una “bella persona”', un giovane “determinato, ma solidale”.
Il corpo nudo e atrocemente mutilato del ragazzo viene ritrovato il 3 febbraio successivo in un fosso lungo la strada del deserto alla periferia del Cairo. Il corpo mostra segni evidenti di tortura: contusioni, abrasioni, lividi estesi compatibili con lesioni da calci, pugni, colpi di bastone. Si contano più di due dozzine di fratture ossee, tra cui sette costole rotte, tutte le dita di mani e piedi, così come entrambe le gambe, le braccia e scapole, oltre a cinque denti rotti.
Pochi giorni dopo il ritrovamento la mamma Paola diceva:
L'ultima foto che abbiamo di Giulio è del 15 gennaio, il giorno del suo compleanno, quella in cui lui ha il maglione verde e la camicia rossa. Non si vede, ma davanti a lui c'è un piatto di pesce e intorno gli amici, perché Giulio amava divertirsi. Il suo era un viso sorridente, con uno sguardo aperto. È un’immagine felice”. Poi c’è un’altra immagine. Quella che “con dolore io e Claudio cerchiamo di sovrapporre a quella in cui era felice”, quella all’obitorio. “L’Egitto ci ha restituito un volto completamente diverso. Al posto di quel viso solare e aperto c’è un viso piccolo piccolo piccolo, non vi dico cosa gli hanno fatto. Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui. All’obitorio, l’unica cosa che ho ritrovato di quel suo viso felice è il naso. Lo ho riconosciuto soltanto dalla punta del naso.
Solo il 10 dicembre 2020 la Procura della Repubblica di Roma chiuderà le indagini preliminari. Saranno rinviati a giudizio quattro ufficiali della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano. I reati contestati comprenderanno sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali gravissime e omicidio.
Il 14 ottobre 2021 inizia il processo. La Presidenza del Consiglio si costituisce parte civile, ma il procedimento subisce un rinvio dalla Corte d’Assise poiché gli imputati “non erano stati notificati”. Una decisione confermata nel luglio dell’anno successivo.
È “una ferita per tutti gli italiani” è il commento di mamma Paola che pochi giorni fa, in occasione del 35° “non compleanno” di Giulio pubblicava l’immagine di una torta a più strati, con in cima la scritta “Giulio 35” e subito sotto la richiesta di Giustizia e Verità.
La torta è gialla, come lo striscione “Verità per Giulio Regeni” che dal giorno del suo ritrovamento nel febbraio del 2016 ha fatto il giro del mondo mettendo in crisi governi, relazioni internazionali, noti giornali, una importantissima università inglese.
“In Egitto - scrivevano ormai qualche anno fa mamma Paola e papà Claudio - 3/4 persone al giorno scompaiono. Alcune vengono fatte ritrovare morte. Alcune riappaiono anche anni dopo con un arresto firmato in quel momento. Moltissimi invece non riappaiono più. Noi ci auguriamo che tutte le persone che lo hanno spiato, tradito, seguito, torturato, quelli che hanno scaricato il suo corpo, che ne hanno coperto le tracce, che hanno ucciso cinque innocenti dopo e che continuano a mentire oggi parlino. (…) si facciano vivi perché (…) abbiamo bisogno di verità!”.
Abbiamo bisogno di verità e giustizia, anche per Giulio, purtroppo non solo per Giulio