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Amici,

Mi dispiace dover essere ambasciatore di cattive notizie, ma sono stato chiaro l'estate scorsa quando vi ho detto che Donald Trump sarebbe stato il candidato repubblicano alla presidenza. Ed ora vi porto notizie ancora più terribili e sconfortanti: Donald J. Trump vincerà a Novembre. Questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente. Presidente Trump. Forza, pronunciate queste parole perché le ripeterete per i prossimi quattro anni: "PRESIDENTE TRUMP".

In vita mia non ho mai desiderato così tanto essere smentito.

Posso vedervi adesso. State scuotendo la testa convinti: ....

LEGGI TUTTO SUL SITO DI huffingtonpost

LEGGI ANCHE La profezia di Springsteen su il corriere.it

 

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Energia, infrastrutture e clima: perché dobbiamo preoccuparci se vince il Sì al referendum - Il Fatto Quotidiano

L’intenso, e non sempre equilibrato, dibattito sulla revisione alla Carta costituzionale vede quasi assenti gran parte del mondo ambientalista e dei movimenti sociali. Riteniamo invece che un approfondimento, in particolare sugli effetti che tali modifiche potrebbero avere su questioni che riguardano l’ambiente, il territorio, l’energia, il clima, e sulle forme e i modi di incidere e partecipare da parte dei movimenti sociali, sia assolutamente necessario, pur senza entrare in più complesse argomentazioni di diritto costituzionale.

Partiamo da alcune modifiche che a noi sembrano rilevanti.

 Nel 2001 la riforma del Titolo V Parte seconda della Costituzione, pur con i suoi limiti, aveva stabilito nell’art. 117 gli ambiti in cui lo Stato aveva potestà legislativa esclusiva e quelli in cui le Regioni potevano esercitare potestà legislativa concorrente, pur riconoscendo allo Stato il mantenimento delle funzioni di indirizzo generale (leggi cornice e leggi quadro). Oggi diventerebbero di competenza esclusiva dello Stato, oltre che l’energia e le infrastrutture strategiche, anche la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia (materia finora concorrente), nonché le infrastrutture strategiche e le grandi reti di trasporto e di navigazione e relative norme di sicurezza; i porti e gli aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale. 

Inoltre, diventano di competenza legislativa esclusiva dello Stato il governo del territorio (disposizioni generali e comuni); la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo; il sistema nazionale e il coordinamento della protezione civile, ed altro ancora; aggiungendo infine un’ulteriore clausola di supremazia statale.

Non ci nascondiamo le contraddizioni e le difficoltà applicative della riforma del Titolo V, né che le Regioni oggi siano spesso male amministrate e inquinate da malcostume e corruzione (elementi non certo qualificanti per chi deve rappresentare il Senato della Repubblica) ma la “visione del mondo” (la weltanschauung) che ispira l’attuale proposta di riforma, rappresenta una profonda e antistorica marcia indietro ed è molto indicativa della tendenza accentratrice su temi che non possono prescindere dalla partecipazione e dal confronto con i territori.

Tali implicazioni, oltre ad amplificare ulteriormente il divario amministrativo tra Regioni a Statuto speciale e le altre, non sono prive di conseguenze, a partire dalle questioni legate al governo del territorio. Pensiamo a cosa questo può voler dire nel caso di autorizzazioni di grandi infrastrutture, di impianti energetici o, ad esempio, sulle trivellazioni, e avere una forte ricaduta sul percorso verso la decarbonizzazione del nostro sistema produttivo, sulla transizione energetica, sullo sviluppo di un modello energetico fondato sulla generazione distribuita e sull’uso razionale delle risorse di ogni territorio.

Materie delicate che hanno urgenza di un quadro unitario di riferimento nazionale, e per altri versi europeo, ma la cui gestione e articolazione va declinata sui territori e la possibile sperimentazione di innovazioni, necessita di poteri decentrati, che siano interlocutori con la dialettica sociale, nella quale i movimenti e le associazioni possono meglio articolare le loro posizioni e raggiungere dei risultati.

La compressione e lo svilimento delle forme di partecipazione inoltre sono evidenti anche nelle modifiche agli art. 71 e 75 della riforma della Costituzione: le modifiche alle norme per l’indizione di referendum abrogativi e per proporre leggi di iniziativa popolare non aumentano le possibilità di partecipazione dei cittadini, anzi, per certi versi, aumentano gli ostacoli, alzando il numero delle firme necessarie.

La dialettica sociale – che non riguarda solo gli ambientalisti, ma anche i lavoratori, i consumatori e i cittadini in generale – non può delegare al “capo” del governo (usiamo questo termine perché per la prima volta è stato inserito nella legge elettorale) che ha “vinto” (la sera delle elezioni), ma va stimolata attraverso la partecipazione e la democrazia che non può esaurirsi nella scadenza elettorale ogni 5 anni (oltretutto sempre meno partecipata), ma deve alimentarsi di momenti di ascolto e di confronto continuo a livello centrale e periferico.

Respingiamo le accuse di essere “difensori dell’esistente”, “conservatori dello status quo”, “sostenitori delle lungaggini burocratiche”, proprio perché i movimenti in cui siamo impegnati si battono per il cambiamento, qui ed ora, ma sono anche consapevoli che la direzione del cambiamento è importante ancor più dei tempi. Non a caso, e non per colpa del “bicameralismo perfetto”, ma per mancanza di volontà politica del governo, che il nostro Parlamento non ha ancora ratificato gli accordi di Parigi rinunciando così ad un ruolo protagonista nella Cop 22 di Marrakech del prossimo novembre.

Queste considerazioni possono sembrare sommarie e non affrontare argomenti ben più corposi che vengono portati a critica della revisione della Costituzione, ma abbiamo voluto partire proprio dal nostro “vissuto”, dalle questioni specifiche di cui ci occupiamo, per maturare la convinzione che questa riforma va in contraddizione con quanto, con tenacia e fatica, cerchiamo di costruire con e nei movimenti. 

Mancano meno di due mesi al voto. E’ necessario che la galassia dei movimenti sociali e ambientali, i comitati locali, i cittadini che ogni giorno difendono i territori dagli scempi, entrino con determinazione in questo dibattito, evitando un falso luogo comune, ossia che questo ci porterebbe a prendere parte in contrapposizioni tra schieramenti politici che non ci appartengono. La questione invece ci riguarda e ci riguarda molto da vicino!

di Mario Agostinelli (Ass. Energiafelice), Vittorio Bardi (Ass. Si rinnovabili No nucleare), Ettore Torreggiani (RSU Almaviva)

 

 

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Allucinante Matteo Renzi. Allucinante Paolo Gentiloni. Ieri notte era all’ordine del giorno dell’Assemblea generale dell’Onu un voto davvero importante: una risoluzione perché dal 2017 partano i negoziati per un Trattato internazionale che vieti le armi nucleari.

La risoluzione è stata approvata da 123 Paesi, 16 Stati si sono astenuti ma 37 Paesi hanno votato contro, tra cui l’Italia. In compagnia di quasi tutte le nazioni nucleari del mondo e tanti alleati degli Stati uniti che, come l’Italia, hanno sul proprio territorio ogive nucleari. Si badi, non armi atomiche vintage della “passata” Guerra fredda, ma rinnovati sistemi d’arma per le quali il Nobel della Pace Obama ha speso diversi miliardi di dollari: si chiamano bombe B61-12 e potranno essere montate sugli F35 che – a proposito di “costi della politica” – ci costano più di 15 miliardi di euro. I primi due F35 arriveranno nella base di Amendola l’8 novembre prossimo, il giorno delle presidenziali americane, e senza know how di attivazione: quello lo controllano dagli Usa.

Qui, nel ridente Belpaese, ce ne sono ben 70 di bombe atomiche, 20 a Ghedi e 50 ad Aviano.

Sono lontani i tempi in cui il Parlamento europeo chiedeva espressamente agli Stati uniti di sbaraccare dal territorio europeo l’armamentario disseminato di circa 300 armi nucleari. Adesso se nazioni come Austria, Brasile, Irlanda, Messico, Sudafrica e Nigeria (primi firmatari della risoluzione votata all’Onu) propongono di avviare un trattato vincolante per mettere al bando le armi atomiche, l’Italia si sente in dovere di votare contro. E purtroppo non è una barzelletta del tragi-comico Benigni, eccellenza italiana al mega ricevimento alla Casa bianca.

 

 

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La Vespa, la minigonna, 15 chili in meno, l’agilità, fisico mozzafiato, denti perfetti. Dove cazzo devo firmare? Quando è sto’ cacchio di referendum?

Renzi ha detto che se vince il No si torna indietro di 30 anni. Splendido!

Nel 1986 – non esistevano i contratti cococo, progetto, jobact, da dipendente a partita iva, voucher – si andava in pensione ad una età decorosa – c’era l’articolo 18 e le tutele per il lavoratore – la benzina costava £ 1.258 tradotto in € 0,65 al litro – non c’erano suv tra le palle – c’erano tanti concorsi per i posti pubblici – la Rai mandava in onda film in prima visione e trasmissioni senza interruzioni di pubblicità – non c’era il ticket nella sanità pubblica – a 25 anni ci si poteva permettere di metter su famiglia – i bambini giocavano per la strada – Berlusconi non era in politica e Renzi era il più preso per il culo dai suoi compagni alle elementari – non c’era la «buona scuola», ma la scuola era buona davvero.

Allora che aspettate a votare No!!!

Girala per salvare le future generazioni. Abbiamo poco tempo.

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La salute va in soffitta con l’art. 32

di Ivan Cavicchi (da "il Manifesto" del 18.10.2016)

«Il fine vero del nuovo Titolo V è negare l’art 32 della Costituzione. Il diritto alla salute per questo governo è finanziariamente insostenibile per cui non può che essere ridimensionato».

La forma di governo è il modello organizzativo assunto dallo Stato per esercitare il potere sovrano. La novità del Titolo V riguarda la modifica della forma di governo. Essa, diceva Aristotele, per essere compresa deve essere ricondotta al suo fine.
In sanità abbiamo avuto diverse forme di governo organizzate in diversi modi per diversi fini.
Nel 1978 (riforma sanitaria) il fine è la salute e la forma di governo è la gestione centrale in forma di decentramento amministrativo (il ministero è la testa e regioni e comuni sono le braccia e le gambe).
Nel 2001 la strategia resta quella della salute ma la forma di governo viene modificata in senso federalistico-devolutivo (le regioni sono la testa le braccia e le gambe). Un disastro. Le regioni si rivelano enti insostenibili, non riescono a diventare regioni quindi veri enti di governo e vengono ridimensionate.
Il nuovo Titolo V prende atto di questo fallimento e prefigura una combine istituzionale che nel linguaggio sportivo si definirebbe un «biscotto»: una super concentrazione di poteri al ministero dell’economia, una riduzione di poteri delle regioni, uno svuotamento della funzione del ministero della salute.
Negando il ministero della salute e potenziando il ministero dell’economia, dalla salute si passa alla sostenibilità finanziaria. Aristotele va quindi letto in due sensi: la forma di governo definisce il fine ma anche il contrario.

A questo punto la domanda pratica: se il potere di spesa è nelle mani del ministero dell’economia e i poteri di organizzazione e di pianificazione dei servizi restano nelle mani delle regioni, il ministero della salute che fa? Quello che gli resta da fare sarebbe facilmente riducibile ad un dipartimento tecnico scientifico nulla di più.
Quindi la domanda vera è: perché il governo vuole de-sanitarizzare la sanità riducendo il ministero della salute ad un dipartimento tecnico-scientifico? O meglio perché pur riesumando il decentramento ammnistrativo in luogo della devoluzione, ai fini del diritto alla salute, non restituisce al ministero della salute i poteri necessari come una volta?
Risposta: perché il fine vero del nuovo Titolo V, per ragioni di sostenibilità, è negare l’art 32 della Costituzione. Il diritto alla salute per questo governo è finanziariamente insostenibile per cui non può che essere ridimensionato.

Costituzione contro Costituzione. Una tesi forte quasi temeraria che va dimostrata.
All’inizio del ’900 la salute pubblica era affidata al ministero degli interni perché la malattia a quei tempi era considerata un problema di ordine pubblico.
Nel 1958 si istituisce il ministero della sanità quale logica conseguenza di un cambio di strategia. Il fine era dare piena attuazione all’art.32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»). La malattia da problema di ordine pubblico in questo modo diventa un problema finalmente sanitario. Oggi la malattia non è né un problema di ordine pubblico né un problema sanitario ma solo una questione di spesa. In una fase sociale nella quale ci si ammala di più, si è curati meno e si campa non quello che potremmo e vorremmo campare.

Il significato del nuovo Titolo V è politicamente istituzionalmente e culturalmente regressivo e prefigura la forma di governo più adatta alle politiche di negazione dell’art 32. Oggi la ministra Lorenzin neanche si rende conto che votando Sì al referendum vota contro se stessa cioè contro l’istituzione che rappresenta votando per negare l’art 32 della Costituzione del quale lei dovrebbe essere la prima garante dal momento che il suo ministero fu istituito proprio per inverarlo.

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«Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente e i loro comandanti non gli permettono di scrivere ‘cazzo’ sui loro cacciabombardieri perché è osceno”: così parla nel finale di Apocalipse Now il maggiore dei Berretti verdi Kurz (Marlon Brando). la frase sintetizza bene l’attuale ipocrisia occidentale. Oscena dovrebbe essere la guerra, ma indignano solo le parole, quelle del magnate isolazionista Donald Trump, sessista e razzista, il peggio dell’America e forse proprio per questo candidato repubblicano alle presidenziali Usa. Che decidono il destino-declino americano, ridotto a scontro su infedeltà coniugali contrapposte, che chiamano in causa anche le responsabilità di Hillary Clinton, private e  pubbliche.

Non ha indignato infatti che i due si siano rincorsi a chi dava più ragione a Netanyahu su come opprimere meglio i palestinesi. The Donald promettendo che con lui presidente «Gerusalemme sarà capitale indivisa dello Stato d’Israele». Un’altra bomba in Medio Oriente, come la dichiarazione di Clinton di «non intromissione tra le parti» , mentre il governo israeliano estende le colonie, l’Anp perde ogni autorità e la situazione nei Territori occupati degenera.

Né è osceno che Trump riapra la partita nel cortile di casa, dal muro anti-migranti con il Messico alla sospensione degli accordi con Cuba, del resto mai definiti.

Né ripugna l’allegro teatrino sulla Siria, con schieramento atlantico al completo ad accusare solo la Russia di crimini di guerra per Aleppo. Ha cominciato Obama, poi sul finire di un mandato inutile Ban Ki-moon,  subito Gentiloni si è accodato, poi è arrivato Hollande e ieri il ministro degli esteri britannico Johnson, quello della Brexit. Ma voi accettereste che un serial killer salga con autorevolezza sul banco dell’accusa per denunciare un altro serial killer?  Perché ci dimentichiamo degli ospedali afghani, yemeniti e siriani colpiti dai raid americani negli ultimi mesi?

Sono crimini di guerra anche quelli, ma gli Usa si scusano, e basta. Certo, i raid aerei russi sono criminali, vanno denunciati, perché si aprano corridoi umanitari per i civili, perché fanno strage di inermi. Urge un cessate il fuoco, implorato in queste ore dal papa che nel settembre 2013 impedì con la preghiera del mondo un altro intervento americano. Mentre scriviamo intanto si annuncia la ripresa del dialogo per sabato. Perché l’obiettivo, almeno quello dichiarato non era forse quello di sconfiggere lo Stato islamico che tiene in ostaggio – dell’espressione scudi umani si è fatto spreco, ma ora non la dice nessuno – gli abitanti della bella e martoriata Aleppo?

E’ così vero che lo stesso inviato dell’Onu Staffan De Mistura ha invitato Al Nusra (Al Qaeda) ad uscire da quell’assedio offrendosi di scortarne altrove i miliziani qaedisti.Insomma, è osceno che nella fase attuale e in procinto delle presidenziali Usa, sia sparito dall’agenda l’Isis. Probabilmente perché emergerebbero le responsabilità occidentali e dell’Amministrazione Usa che ha ereditato le devastazioni politiche delle guerre precedenti, di Bush e di Bill Clinton, in Iraq e in Afghanistan, innestando nuove avventure militari in Libia e poi in Siria.

Per entrambe Obama era riottoso ma venne tirato dentro proprio dall’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton (non solo con le mail). Adesso Obama la sponsorizza nei comizi, preoccupato del «mondezzaio Trump», ma solo a marzo  denunciava lo «spettacolo di merda» dato dagli Stati uniti con il fallimento della guerra del 2011 che spodestò nel sangue Gheddafi.

Fatto da non dimenticare la Russia è arrivata un anno fa nella crisi siriana a togliere le castagne dal fuoco proprio agli Usa, impantanati in un altro fallimento, con l’assenza di legami con l’opposizione armata che volevano sostenere, l’ammissione di avere, più o meno consapevolmente, sostenuto il jihadismo armato, in più con la delega sostanziale della crisi all’alleata Turchia del Sultano Erdogan. Che intanto riprendeva la strategia ottomana, sostenendo il jihadismo con armi e traffici di petrolio e rioccupando parti dell’Iraq e della Siria. Tornò sulla scena Putin, dopo l’abbattimento dellaereo civile russo, quasi d’accordo con Obama, cominciando a coordinare le azioni militari sia con gli Usa e con la Francia, che bombardava dopo gli attacchi terroristi sul suolo francese.

Ora la Russia sembra al bando, Il Corriere della Sera ieri apriva in modo poco veritiero con «Il clima di guerra in Russia, incitata dal Cremlino a prepararsi allo scontro con l’Occidente», torna a forza la semi-guerra fredda, un vintage destinato solo a peggiorare. Putin torna, comem in Ucraina, a vestire i panni del nemico ritrovato.

Ripetiamolo: i suoi bombardamenti sono criminali, com’è crimine di guerra colpire un ospedale. Ma quanti ospedali hanno bombardato gli Stati uniti in quest’ultimo periodo facendo stragi di civili? L’osceno della guerra naturalmente è di parte. Mentre si nasconde che a far fallire la tregua – difficile se non impossibile, basata sul riconoscimento sul campo di chi era estremista e chi no – stabilita solennemente il 10 settembre da Serghei Lavrov e John Kerry, è stato il bombardamento americano, «per errore», del 17 settembre scorso di una caserma di Assad a Deir Er Zour, assediata dai jihadisti, provocando la morte di 90 soldati siriani. Da lì è apparso chiaro che la battaglia di Aleppo (con quella di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia che da agosto non cade) è entrata nella campagna elettorale americana.

Chi vince d Aleppo ha vinto la guerra, impossibile quindi subire la sconfitta e lasciare l’eredità di uno smacco. La battaglia dunque deve oscenamente continuare, pur sapendo che non ci sarà tavolo negoziale, perché l’opposizione «democratica» non esiste e coordina il suo ruolo militare con i jihadisti e con Al Nusra (ha cambiato nome ma è sempre affiliata ad al Qaeda). E nessuno riesce ad immaginare di negoziare la pace con il peggiore jihadismo armato. Ma lasciare alla Russia la patente di essere rimasta l’unica a combattere davvero l’Isis può essere ancora più miope e pericoloso. Del resto di questo approfitta Putin, che recupera economicamente il Sultano Erdogan e mina l’alleanza militare occidentale con l’Egitto.

Di questo smacco Usa  approfitta il ripugnante Trump per «tornar a fare grande l’America». Un caos osceno. Quello della guerra.

 

 

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