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Centinaia di corpi seminudi ammucchiati per terra, in quello che sembra un hangar o un caravanserraglio, mani legate dietro la schiena, lo sguardo perso senza luce di chi, sconfitto, chiede pietà ma non s’aspetta altro che violenza. Giovanissimi e inermi i soldati che si sono arresi, che hanno rifiutato di sparare sulla folla, che hanno ceduto alle promesse di fraternità dei manifestanti pro-Erdogan nella lunga notte del golpe tentato e fallito, e che ora invece vengono bastonati, diventano la colonna infame della vendetta del Sultano.

In queste ore il presidente turco trionfante aggiunge alla lista di proscrizione tutti i nemici, o quelli che considera tali o a malapena orientati verso la predicazione dell’autoesiliato Gülen, l’ex sodale e potente islamista ora diventato capro espiatorio di ogni malefatta. Da ieri agli arresti, oltre a 650 civili e a più di 6 mila soldati, ci sono anche 8mila agenti di polizia a quanto pare non sufficientemente fedeli, nonostante che la polizia sia stata la guardia pretoriana del regime contro i soldati golpisti. Ai quali si aggiungono 130 generali dello stato maggiore turco finiti in galera insieme a 800 magistrati (di cui due di Corte costituzionale). Più che un repulisti, una vera decimazione e deportazione.

Si riempiono le galere, è il tempo delle sparizioni, della tortura, delle confessioni estorte. E il popolo aizzato e in trionfo chiede il ripristino della pena di morte, che il governo di Ankara aveva eliminato come richiesto dall’Ue per l’ingresso del paese nell’Unione.

Un ingresso sempre rimandato – un tempo perfino sostenuto dal carcere dal leader kurdo Ocalan imprigionato dal 1999, ma come prospettiva di soluzione “europea” della questione kurda – e alla fine abbandonato da Bruxelles. Mentre Stati uniti, Paesi europei e Nato hanno preferito delegare al «nostro» Sultano atlantico il lavoro sporco di destabilizzare la Siria – in rovine – così diventando il santuario dei ribelli anche jihadisti.

È il buio della specie. Queste immagini di deportazione evocano inevitabilmente l’universo concentrazionario e di sterminio che l’Occidente raffinato ha allargato soltanto 70 anni fa nel cuore d’Europa, i fili spinati dell’ultima guerra fratricida balcanica. Così come la declinazione ordinaria di ogni colpo di stato – nonché occidentale – che si rispetti, dalla Grecia, al Cile, all’Argentina.

Fermiamo la mano del boia, delle deportazioni, delle sparizioni e delle torture. Delle esecuzioni a sangue freddo come quella del vice-sindaco di un municipio di Istanbul. Siamo al disprezzo dell’umanità. Ogni civiltà invece si misura sul rispetto del vinto. I governi europee, l’Ue, gli Stati uniti e la Nato sono stati tutti a guardare nella notte del tentato golpe, aspettando partecipi la sua riuscita. Perché non c’è F-16 che si levi in volo da Incirlik senza che i comandi centrali della Nato lo sappiano. Abbiamo assistito come spettatori interessati, per prendere le distanze solo dopo il fallimento del golpe. Il rischio è che staremo a guardare anche adesso lo spettacolo dei campi di concentramento che apre un nuovo sipario di dolore nel sud ferito del nostro Continente. Fermiamo il Sultano.

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Continuiamo il dibattito sui risultati elettorali delle amministrative di giugno e sulle prospettive della sinistra, riprendendo un intervento di Andrea Ranieri su il manifesto del 6 luglio.

Movimento 5 Stelle . La centralità della cittadinanza, agita fra i più poveri e i più deboli, ha arricchito il populismo del M5S. Resta la peggiore delle loro ambiguità, quella sui diritti dei migranti

Non si va molto lontani nell’affrontare la difficoltà della sinistra di alternativa a raccogliere il consenso del popolo, che volta finalmente le spalle a Renzi e al Pd, se la crescita del movimento che ha raccolto questo consenso, il Movimento 5 stelle, viene fatta oggetto, più che di analisi e di riflessione, di veri e propri esorcismi. Tali sono le liquidazioni della vera e propria insurrezione elettorale di Roma e di Milano sotto la categoria della «rivolta plebea» , o mettendo in uno stesso sacco, sotto la voce populismo i movimenti di rottura dei vecchi e insostenibili assetti politici che emergono in tutta Europa e non solo.

I populismi hanno in comune di aver costruito un campo in cui trovano posto e si unificano le diverse insoddisfazioni verso lo stato di cose presente, nella società degli individui, che ha perso un fattore di riferimento, un tempo si sarebbe detto una classe sociale, che permetta di leggere in maniera unitaria le diverse contraddizioni che l’attraversano. La rivolta contro la casta è stato ed è il cemento unificante di populismi per altri aspetti molto diversi tra loro. La lotta contro la casta si è accompagnata in molti paesi al razzismo e alla xenofobia; altri hanno visto la casta come la interprete subalterna nei proprio paesi degli interessi di quell’1 per cento che domina l’economia mondo, e che in Europa si esprime nelle politiche di austherity monetarista.

Il movimento 5 stelle ha tenuto, nel bene e nel male, l’Italia lontano da questi due modelli. La denuncia del degrado della politica, della autoreferenzialità e della disonestà della casta è rimasto il momento pressoché esclusivo del suo messaggio, che gli ha permesso di tenere insieme spinte molto diverse tra loro. In ciò facilitato dalla evidente natura castale della Lega e della destra italiana e dai residui castali e dai personalismi che ancora attraversano il campo della sinistra alternativa in formazione. E ha dovuto confrontarsi con il nemico più pericoloso, il populismo di governo del premier Renzi, che a sua volta ha assunto la lotta alla vecchia politica da rottamare come il dato centrale della costruzione del suo consenso. Con un elemento comune e con una differenza non da poco. Il dato comune è una narrazione tutto sommato tranquillizzante della fase.

L’idea cioè che ridotti i costi della politica, della burocrazia, della intermediazione sociale, l’economia e la società possono ripartire senza toccare i meccanismi di fondo che la crisi hanno generata e gli stili di vita e le modalità di consumo dei cittadini. La differenza è che, mentre per Renzi questa riduzione avviene attraverso una contrazione degli spazi di democrazia, ridotta al puro momento elettorale, per i 5stelle – e questo è stato il cuore della loro campagna elettorale a Roma come a Torino – la riduzione della casta deve avvenire attraverso il potenziamento delle strumenti e delle forme della cittadinanza attiva, e costruendo regole che evitino il riformarsi del professionismo politico.

E hanno costruito per questo una organizzazione capillare di ascolto e di proposta che per anni ha battuto i luoghi abbandonati dalla sinistra, le periferie urbane, in cui hanno dovuto confrontarsi con la crescita delle disuguaglianze, del degrado ambientale, e con le persone che in maniera singola e associata per salvare il loro territorio stanno cambiando le loro stesse modalità di consumare, di lavorare, di vivere. E hanno collegato la loro azione puntuale sul territorio al rifiuto del jobs act, della buona scuola renziana, alla rivendicazione del reddito di cittadinanza.

La centralità dell’idea di cittadinanza, agita fra i più poveri e i più deboli, ha arricchito di un’attenzione nuova alle contraddizioni sociali e alle disuguaglianze il loro populismo originario. Il fatto stesso che nel formare le loro giunte abbiano attinto a persone non certo allineate col loro movimento, ma che hanno costruito la loro storia politica e professionale confrontandosi con questi temi, è il frutto di questa loro capacità di stare nel sociale e di viverne le contraddizioni.

So benissimo tutte le possibili obiezioni che si possono muovere a questa analisi ottimistica della possibile evoluzione del 5 stelle – i miti e i riti della Casaleggio e associati, il non aver sciolto le ambiguità della loro collocazione internazionale, il semplicismo di molte delle loro ricette economiche, e più grave di tutte le loro ambiguità, sui diritti dei migranti – ma credo che una sinistra che abbia come obiettivo primario, come ci ricorda Ada Colau, la ripoliticizzazione della società, perché nella società degli individui vincono sempre gli altri, debba considerare queste contraddizioni come più vitali e cariche di futuro di quelle che attraversano il campo del cosiddetto centro sinistra e del Pd.

Su queste contraddizioni bisogna lavorare, prendendo al meglio il loro messaggio, e non facendone una caricatura che rende più facili gli esorcismi. È quello che hanno fatto, con molta intelligenza politica, Montanari, Urbinati, Zagrebelsky e altri esponenti di Libertà e Giustiza nell’appello rivolto ai 5 stelle perché si impegnino in maniera ancora più convinta nella battaglia contro la riforma della Costituzione e l’Italicum. E di confermare per questa via la loro differenza dal populismo decisionista renziano, proprio nel momento in cui i sondaggi dicono che potrebbero essere proprio loro i professionisti della politica a cui il meccanismo perverso dell’Italicum potrebbe affidare la stanza dei bottoni da cui decidere sul nostro futuro.

Quanto al Pd «mai dire mai». Se Renzi perdesse il referendum dalla sua probabile dissoluzione potrebbero sprigionarsi forze, energie, intelligenze utili a ridefinire un progetto di economia e di società.

Ma quel che resta della sua sinistra politica deve avere chiaro che per poter esercitare un ruolo in questo senso ha un’unica possibilità. Quella di schierarsi da subito e senza ambiguità per il no alla riforma costituzionale. Altrimenti sia che Renzi perda o che Renzi vinca si confermerà la sua già palese irrilevanza.

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da "il manifesto del 15.06.2016
di Aldo Carra

I ballottaggi hanno origine antica: ballotte erano le sfere di oro o argento usate per l’elezione del Doge; ballotta era sinonimo di castagna e queste venivano utilizzate per contare i voti ai Priori delle arti a Firenze. Nel sistema elettorale italiano il ballottaggio per i sindaci è stato introdotto dopo tangentopoli per favorire la scelta della persona a scapito dei partiti delegittimati dalla corruzione.

Nel 2015 la Regione Toscana ha previsto il ballottaggio nel caso nessuno dei candidati raggiunga il 40%. Oggi la corruzione è penetrata anche tra le persone, i partiti quasi non esistono più, ma i ballottaggi restano.

Anzi, con l’Italicum, si parteciperà e si accederà al premio di maggioranza a prescindere dalla percentuale di consensi ottenuti. I Toscani di oggi hanno superato tutti i loro predecessori!

Da rimedio ad una degenerazione della politica, i ballottaggi di oggi stanno diventando causa di ulteriore degenerazione della sua qualità. Guardiamo al dibattito di questi giorni. Non si confrontano programmi e progetti costruiti con la partecipazione dei cittadini e con i partiti che li rappresentano. Si confrontano persone che sembra non abbiano storia ed appartenenze. Tutti vergini. I grandi campi ideali sinistra-destra, progressisti-conservatori in un momento si rimuovono come vecchi arnesi per poter conquistare elettori di altri schieramenti, ma un attimo dopo si riportano in vita per fare appelli al campo di appartenenza e chiedere fedeltà. Formazioni politiche al primo turno disprezzate e considerate avversarie vengono corteggiate per avere i “loro” voti. Chi ha distrutto il centro sinistra adesso si appella al suo spirito (spirito appunto!). In alcuni territori alcune forze sono alleate ed in altri avversari feroci.

Le accuse più frequenti ai concorrenti non riguardano le differenze programmatiche, ma il ”guarda chi sta con te!”. E dietro queste accuse non si sa bene quanto ci sia di ostilità e quanto di gelosia o invidia perché si sarebbe preferito che un sostenitore dell’avversario fosse un proprio sostenitore. Il ballottaggio rende tutte le alleanze intercambiabili. Insomma le parole, le collocazioni, i giudizi perdono ogni significato e ne acquistano uno opposto secondo il luogo, la persona, il giorno in cui vengono pronunciati.

Che l’astensione aumenti al primo ed ancor più al secondo turno, in questo panorama non deve meravigliare. Quasi quasi dovrebbe meravigliare la partecipazione al voto, questa caparbietà di chi insiste e resiste. Cittadini sballottati, ma ancora fedeli alla democrazia, devoti dell’appartenenza. Ed è da questo zoccolo duro che dipenderà l’esito dei ballottaggi di domenica.

Ma come mai ci siamo ridotti così? E perché da noi i processi avviati spesso si risolvono nel contrario di quanto si prevedeva? Quando – età veltroniana – si teorizzò il maggioritario, l’intenzione era di favorire il passaggio dal multipartitismo del proporzionale ad un sistema bipartitico. Sempre per amore dei modelli stranieri, mai studiati fino in fondo e tradotti sempre in salsa italiana in base alle convenienze del momento e di chi in quel momento governava. E sempre in ritardo, naturalmente.

Così mentre si pensava di semplificare dall’alto, in basso cresceva il malessere verso la politica e nasceva una forza, diversa e liquidata come populista, che oggi è diventata il primo “partito” d’Italia. Ed invece del bipolarismo ci troviamo di fronte ad un tripolarismo con un sistema che non lo contemplava. E per combattere il “nuovo populismo” invece di capirne le ragioni,i rinnovare se stessi e ritrovare radici, si è scelta la strada della concorrenza. Contro il populismo distruttivo di opposizione, dosi crescenti di populismo, ma di governo. Se il primo predica il reddito di cittadinanza, noi rispondiamo con gli ottanta euro ed alla politica dei no rispondiamo con la politica dei bonus. Su questo terreno, naturalmente, la destra non ha bisogno di riconvertirsi, ma di ritrovare se stessa. E così siamo passati dal multipartitismo al multipopulismo a tre. Troppi per un sistema con ballottaggi a due. Da qui incertezze, confusioni, imprevedibilità, incoerenze e contraddizioni di singoli e di formazioni politiche.

Cosa deve fare in questo scontro la terza grande forza che è esclusa? Ed ancor più cosa deve fare un’altra forza ancora più piccola, naturalmente esclusa? La sinistra ha scelto la terza via: non scegliere. Scelta comprensibile perché riflette travagli e rischi di ulteriori lacerazioni. Il momento è difficile e va bene. Ciascuno, poi, nell’urna farà la sua scelta.

Ma facciamola partendo da un fatto indubbiamente positivo: la cavalcata renziana è inciampata al primo ostacolo delle amministrative. Renzi voleva distrarci parlando di referendum, ma i fatti si sono imposti. Vedremo se si tratta di un semplice inciampo, di un arresto o di una inversione di tendenza. Ma senza dubbio siamo di fronte ad un fatto nuovo. E non è un caso che negli ambienti economici e di opinione prima schierati, qualcosa comincia a cambiare e la sua stessa immagine ad apparire ferma e ripetitiva. Renzi, insomma, comincia a stancare anche i suoi.

Se anche al ballottaggio subirà una sconfitta, potremo affrontare il referendum con maggiore energia e speranza. E la sinistra interna sarà spinta a scegliere ad impedire che Renzi vinca il referendum e ci porti alle elezioni con l’Italicum.

Sull’altro versante i Cinquestelle saranno chiamati comunque ad un salto di qualità: a responsabilità di governo, a politiche positive e costruttive, ad aprirsi, forti del loro successo, a relazioni con altri. Che la candidata sindaca a Roma si riprometta di avere come assessore all’urbanistica una persona come Paolo Berdini, tanto integerrima quanto di sinistra, già parla della fase nuova che si può aprire ed anche di una idea di città diversa ed alternativa a quella dei costruttori già pronti ai nastri di partenza delle olimpiadi.

Per la sinistra uscita non bene (ma non era facile in questa competizione dura affrontata col massimo di fragilità organizzativa e col minimo di leadership) si impone il salto di qualità: nel nuovo scenario tripolare non serve imprigionarsi nelle formulette rassicuranti del “mai col Pd” o del “salviamo il salvabile del centro sinistra” come non serve affiancare, senza riuscire né a fonderle né a moltiplicarle, le forze della sinistra che fu.

Escludendo di aggregarsi ad una delle macroforze esistenti, per la sinistra l’unica strada possibile è quella di costruire una “postazione” di iniziativa e di elaborazione, autonoma, ma aperta e dialogante, critica e costruttiva, che sappia muoversi nel panorama in movimento che la circonda, vivendoci dentro ed alimentandolo sia a livello sociale che politico.

Sinistra Italiana (per favore non cambiamo ancora nome) può esserlo. Se saprà nel vivo degli impegni dei prossimi mesi, evidenziare perlomeno tre pilastri del nuovo edificio (reddito di cittadinanza attiva, riduzione degli orari e redistribuzione del lavoro, intervento pubblico per la riconversione ed il rilancio) e far emergere il potenziale di energie affacciatesi in Cosmopolitica (magari evitando che anche le nuove forze si imprigionino in vecchie logiche di lotte interne, di potere e di cordate).

Se tutto questo non dovesse accadere Renzi rialzerà la testa. Già promette e minaccia di aggiungere alla prima legislatura senza essere eletto, altre due con la legge che si è fatto su misura. Ci basta la mezza legislatura fatta, penso.

 

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Nell'ambito del dibattito sulle "sorti della sinistra" riapertosi dopo i risultati del primo turno delle elezioni amministrative, vi proponiamo un intervento apparso su "il Manifesto" del 15 giugno. Certamente susciterà reazioni perché la sua analisi è amara e per certi versi paradossale. Aiuta forse a capire il senso complessivo dell'articolo l'occhiello inserito nel quotidiano: "Senza il Pd non esiste un futuro per la sinistra
I 5Stelle sono un movimento di destra, i figli di Grillo e Casaleggio sono più vicini a Farage e Salvini che non ai resti della vecchia sinistra". Qualcuno reagirà?

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Il mio ragionamento è questo (per quanto possa risultare sgradevole, mi auguro che sia letto fino in fondo).
1) Qual è l’obiettivo politico-istituzionale, con cui una “sinistra” dovrebbe mirare (in Italia di sicuro, ma forse, in altre forme, anche nel resto d’Europa) per conseguire il governo del paese?
Penso che in Italia, nell’attuale situazione storica, anzi, forse in una dimensione addirittura epocale, non ci sia altra risposta se non un governo, fortemente ragionante e solidamente strutturato, di centro-sinistra. Gli uomini di sinistra che pensano attualmente ad altro, non sbagliano: vaneggiano.
2) Controprova. Perché le liste dichiaratamente di sinistra pressoché dappertutto al primo turno delle elezioni comunali, il 5 giugno scorso, hanno ricevuto così pochi consensi, sproporzionati persino al livello attuale di contestazione che nel paese (comitati, associazioni, gruppi spontanei, sindacati, ecc. ecc.) sembrerebbe invece persino esser cresciuto nel corso degli ultimi anni? Perché non dichiaravano soluzioni politico-istituzionali credibili ma solo un lungo elenco di denunce e di proteste (assolutamente giuste, in sé considerate).
La gente, anche se ti è vicina, non ti vota se non hai da proporre soluzioni politico-istituzionali credibili.
3) Esiste per la nostra sinistra una soluzione politico-istituzionale credibile, e magari autorevole, e cioè un governo di centro-sinistra ragionante e solidamente strutturato, senza il Pd? Non esiste. E perché? Perché non sono alle viste soluzioni alternative di nessun tipo. Qui, anche da questo punto di vista, mi guardo intorno, e all’interrogazione si mescola qualche punta di stupefazione.
Può la sinistra italiana costruire un governo di centro-sinistra, – o qualcosa che seriamente gli equivalga, – con il Movimento 5Stelle? E’ evidente per me che non può.
Per almeno tre buoni motivi:
a) Il Movimento 5 Stelle in realtà non è un movimento vero e proprio (come, ad esempio, Podemos in Spagna), e tanto meno un partito: è il prodotto, senza dubbio indovinato, della ditta Grillo-Casaleggio, che all’occorrenza, come abbiamo visto recentemente, si trasmette addirittura per via ereditaria; dove di conseguenza il comando, discende esclusivamente dall’alto; e non consente nessuna democrazia interna (c’è bisogno di fare esempi?); e non manifesta in realtà nessuna simpatia neanche per le forme esterne, generali, della democrazia;
b) Il Movimento 5Stelle rappresenta l’espressione pura e semplice, e, se si vuole, più diretta e autentica, di quell’inquieto disagio di massa, prodotto inevitabile e perciò estremamente diffuso della crisi della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti in Italia; è, culturalmente e idealmente, più vicino alla Lega di Salvini e all’Ukip di Farange che non ai resti della vecchia sinistra (tant’è vero che, laddove si può, si predispongono a scambiarsi voti al ballottaggio nel nome del comune odio al sistema); i candidati e le candidate che lo rappresentano sono uomini e donne partoriti direttamente dalla crisi della massa, parlando la lingua balbettante e informe dei loro consimili, e perciò sono così popolari (qualche risorgente simpatia elitista? Ebbene sì);
c) La combinazione “disagio incontrollabile della massa – comando indiscusso e indiscutibile dei Capi” (non ci vuol molto a capire che fra le due cose corre una relazione), ricorda, naturalmente con i necessari ovvii punti di differenza, esperienze consimili già avvenute in Italia, ma, anche in questo caso, anche in Europa. Altro che Michels e Pareto! Ci vorrebbe un novello Giovanni Gentile, magari al livello degradato dei nostri tempi (ma forse oggi basta Grillo), per spiegare e apologizzare un fenomeno come questo. Naturalmente questo discorso non esclude che una quantità anche notevole di italiani onesti e disgustati dal sistema politico italiano abbiano aderito al M5S. Per questi elettori il ragionamento sarebbe diverso. Ma il voto no.
4) Dunque, se le cose stanno così, siamo di nuovo alla presunta inevitabilità dell’alleanza sinistra-Pd per preconizzare e

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Per proseguire il dibattito sul risultato del primo turno delle amministrative e "le sorti" della sinistra pubblichiamo, dopo la lettera di Jacopo Lorenzini, l'intervista di Daniela Preziosi a Sergio Cofferati apparsa sul Manifesto del 8 giugno. Il microfono è sempre aperto, aspettiamo le vostre riflessioni.

 

Intervista. L'ex pd: ai ballottaggi non possiamo dare indicazioni perché non abbiamo una politica delle alleanze. Per il congresso non possiamo aspettare fino al referendum. Dobbiamo essere un riferimento politico per chi abbandona Renzi

Sergio Cofferati vuole fare due premesse. La prima: «Il costante calo dei votanti alle amministrative, e cioè le elezioni storicamente più partecipate, ha l’effetto di ridurre il consenso con il quale il sindaco viene eletto. Pochissimi sindaci passano al primo turno. Dopo il ballottaggio, dove la partecipazione scende, ci saranno sindaci di città importanti che verranno eletti con un suffragio intorno al 20 per cento degli aventi diritto. Saranno sindaci deboli. E per questo avranno vita complicata». La seconda premessa: «Una cosa simile può accadere contemporaneamente al governo nazionale: con l’Italicum potremmo avere un partito che vince al ballottaggio con un numero basso di voti. Uno scenario inquietante. Mi preoccupa che il presidente del consiglio non se ne preoccupi affatto».

Le amministrative per Renzi sono una battuta d’arresto?
Assistiamo al fenomeno dei voti persi dal Pd, ma non solo. Ci sono anche quelli sostituiti. A Roma il luogo di maggior successo del Pd è Parioli, il quartiere della borghesia; a Milano il Pd regge nel centro storico e arretra nelle periferie. È la conferma che c’è una sostituzione di voti. Non sto parlando di Verdini, parlo dei soggetti sociali che votano Pd. La quantità di voti può restare la stessa, ma il Pd cambia natura perché cambia insediamento sociale. Cambiano le domande che vengono da chi lo vota.

E però questi soggetti sociali in fuga dal Pd non si travasano sui sindaci di sinistra, tranne poche eccezioni. Perché?
Perché la sinistra ha uno spazio potenziale ampio, ma al momento non ha una proposta politica né una struttura organizzativa. Quanto alle eccezioni, sono lodevoli: Cagliari, Brindisi, Caserta, Sesto Fiorentino.

Un momento: a Cagliari Zedda guidava una coalizione di centrosinistra, in molte altre città grandi invece avete promesso liste di ’sinistra sinistra’.
A Cagliari è stata riconfermato il centrosinistra perché ha governato bene. C’è stato un giudizio positivo sulla coalizione e sulle politiche dell’amministrazione, oltreché su Zedda. Le esperienze arancioni, dove hanno funzionato, andavano riproposte.

Scusi, anche a Milano è di nuovo avanti il centrosinistra. Un centrosinistra che a lei non piace e che in molti hanno scomunicato.
Milano è tutta un’altra storia. Lì l’esperienza arancione si è interrotta. Sala non c’entra niente con quella storia. Alle primarie c’erano due candidati di sinistra che si sono eliminati a vicenda. Il sindaco Pisapia prima ha lasciato candidare Maiorino poi gli ha contrapposto Balzani. È stata la sua scelta sbagliata di mettere in contrasto due suoi assessori ad aver affossato la storia arancione. E a non aver garantito la continuità della sua giunta.

Torniamo al Pd che perde voti e alla sinistra che non li guadagna.
Sinistra italiana doveva definire la sua proposta politica e, in essa, il problema delle alleanze. Un problema che c’è: dobbiamo essere una forza che si candida a governare. E nessuno pensa di poter governare da solo si è proceduto a tentoni nascondendo quello che presumibilmente è elemento di dissenso interno, e cioè quali possono essere le alleanze praticabili e a come le si costruisce, con quali discriminanti. Ma se non nasce in fretta la proposta politica, rischiamo di non essere attrattivi. E va definito subito anche il progetto organizzativo. Se vuoi fare un congresso devi avere gli iscritti. Ma oggi la campagna di adesione si basa sostanzialmente sulla rete. Non va bene: la tecnologia è strumento importante ma non può essere la soluzione su cui si fonda il nuovo soggetto. Bisogna fare le tessere guardando in faccia gli iscritti.

Fare una campagna di tesseramento mentre si va alle comunali con coalizioni di partiti concorrenti a sinistra sarebbe stato complicato.
E perché? Con gli alleati si fa l’alleanza, a casa tua parli con i tuoi iscritti. Senza iscritti e senza congresso restiamo in una fase delicata di democrazia sospesa. Questo tempo va ridotto. Conosco la fatica di questo lavoro. Ma il fatto che non sia iniziato è inquietante. A settembre c’è la campagna referendaria. Come si farà il congresso a dicembre se prima di ottobre non ci saremo dati il tempo di iniziare la discussione?

Ma ha senso per voi fare un congresso prima di un referendum che potrebbe cambiare tutta la scena politica?
Non si può aspettare il referendum per decidere che fare. Ci dobbiamo essere per offrire un riferimento a chi nel Pd decidesse di cambiare collocazione.

Nelle città però i delusi dal Pd però non vi hanno votato.
Ripeto: perché non siamo stati in grado di dare loro un riferimento nella politica nazionale. Sono delusi da Renzi per ragioni di politica nazionale.

Ai ballottaggi i candidati sindaci di sinistra non danno indicazioni di voto. Le piace questa scelta?
Io penso che bisogna sempre votare. Ma la mancanza di indicazione è inevitabile: nasce dalla mancanza di progetto e di una politica delle alleanze.

Nessuna indicazione anche nella sua Bologna dove lo spareggio è fra Pd e Lega?
Bologna non fa eccezione. Anche se non ho dubbi su cosa faranno quelli che hanno votato Martelloni. Spero che partecipino al voto.
Ma una forza politica che non sceglie ai ballottaggi non rischia di mettersi fuori gioco e rassegnarsi a non avere un ruolo politico?
Noi oggi siamo fuori gioco. E non scegliere è un segno di debolezza. Ma è inevitabile. Per questo spero che ora Sinistra italiana, o come si chiamerà, provi ad accelerare i tempi. L’anno prossimo si vota a Genova, la città dove abito e dove c’è una giunta arancione. Non vorrei che ci ritrovassimo ancora in questa condizione. Anzi: mi piacerebbe che Genova proseguisse la sua esperienza arancione. Con Marco Doria.

Vorrebbe che Sinistra italiana invitasse subito Doria ad andare avanti?
Vorrei che mettesse in campo il suo progetto per dare forza alla prosecuzione a esperienze di governi di sinistra e centrosinistra. A Milano non è successo, per fortuna è successo a Cagliari. Aiutateci a salvare il soldato Doria.

 

 

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2 giugno. I pacifisti scrivono, Mattarella tace

Celebrare con la sfilata delle Forze Armate la Festa della Repubblica sta diventando sempre di più un esercizio retorico e anche un po’ tronfio. Il 2 giugno è una ricorrenza civile, non una festa militare. Le Forze Armate hanno già la loro «giornata» (il 4 novembre) e la Costituzione della nostra Repubblica recita all’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali».

Festeggiare la Repubblica all’insegna dell’esibizione militarista non è mai un bel segno: lo fanno di solito – per la loro festa nazionale – i Paesi con un forte imprinting nazionalista e soprattutto i regimi autoritari. Quest’anno, per cercare di prevenire le critiche, alla parata del 2 giugno verranno fatti sfilare qualche decina di sindaci con la fascia tricolore.

Una sorta di gadget civile prima di vedere sfilare mezzi militari e battaglioni armati. Forse i sindaci avrebbero fatto meglio a rimanere nei loro municipi, aprendo le porte i cittadini e regalando loro una copia della Costituzione, che continua a rimanere la carta d’identità della nostra comunità. Meno male che ci hanno risparmiato i marò (come sembrava invece fino a qualche giorno fa): sarebbe stata una strumentalizzazione inaccettabile.

Dal 2010 ad oggi abbiamo buttato al vento più di

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