da "Il Corriere di Romagna" del 4 aprile 2020
OPINIONE
Il virus è una guerra?
Usciti dal tunnel, tabula rasa della storia passata?
Non scherziamo
Sento dire, e ripetere in continuazione, che siamo in guerra. Non capisco. Le guerre sono combattute da eserciti intenzionalmente nemici. Il virus non è un nemico. È un agente incolpevole - tutto ciò che accade in natura è fuori dalle categorie del bene e del male - che ha trovato un buon terreno di diffusione in contesti naturali che gli umani hanno, in questo caso colpevolmente, apparecchiato.
Questo associare il virus alla guerra predispone un clima di emergenza che rischia di andare ben oltre l’emergenza sanitaria, che ha visto ridurre, opportunamente e di molto, la nostra libertà di movimento. Nostra, di europei, di occidentali, che non di rado abbiamo una cura anche eccessiva di noi.
È una patologia individualista diffusa e infantile, la nostra. Le guerre, quelle vere, hanno spesso dato vita a stati di eccezione che hanno ridotto, o annullato, libertà ben diverse dalle libertà di movimento fisico. E, dopo le guerre, ritornare a normalità costituzionali e parlamentrai - quando in precedenza c’erano - è stato difficile o impossibile. Penso al
Leggi tutto: Il virus è una guerra? - Un'opinione di Maria Paola Patuelli
Commenta (0 Commenti)Ue. Dove riverserebbe la Germania le sue merci se il mercato europeo, già monco per la Brexit, gli si sfarinasse davanti? Ciò che è irrealizzabile non è un necessario e utile atto di solidarietà, ma un isolazionismo fondato sull’insana convinzione dell’intrinseca superiorità teutonica che tante tragedie ha già portato
Dopo la fumata grigia del vertice Ue di pochi giorni fa e in attesa dei nuovi imminenti appuntamenti, finita la pausa di «riflessione», rimbalza con insistenza il termine «realismo». Bisognerebbe però non confondere il realismo con il lealismo.
Il cambio di consonante indica la sudditanza psicologica e politica ai poteri costituiti e dominanti. E di questo purtroppo si tratta. È chiaro ormai che la scelta di fronte alla quale la Ue si trova è se fare ricorso agli eurobonds (o coronabonds) oppure no. Tutto il resto dipende da questo, comprese le modalità e le varie tecnicalità connesse, pur con la loro importanza.
Roberto Perotti, economista di fama, sostiene che non bisogna alimentare l’illusione dei coronabonds, perché non si può pretendere che la Germania garantisca per l’Italia e neppure un Mes privo di condizionalità andrebbe bene perché sarebbe un sussidio implicito ai paesi mediterranei. Più soft, ma sulla stessa lunghezza d’onda, le esternazioni del commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni. Dunque siamo condannati a fare da soli? Se così fosse non soltanto sarebbe assai periglioso l’esito per l’Italia, ma per la sopravvivenza dell’Unione europea.
La Germania non è affatto un blocco compatto. Anzi. La convinzione che neppure la traballante locomotiva tedesca ce la possa fare da sola si sta facendo strada. Non solo nel quadro politico, ove sarebbe più scontato, ma anche in quello economico e scientifico.
Da diversi giorni circola un appello internazionale di economisti, con ben oltre 500 firme, che si pronunciano per gli eurobonds. Sul Frankfurter Allgemaine Zeitung noti economisti tedeschi ci ricordano che non solo l’argomento non è tabù, ma vi sono precedenti come per esempio quello della Cee che emise, per il superamento della crisi petrolifera del ’74, un titolo comunitario per garantire la ripresa. L’attuale crisi è simmetrica, ma non lo sono certo le condizioni di partenza con cui i vari stati europei si sono trovati ad affrontarla fin dall’inizio.
Che i forti debbano aiutare i deboli è una necessità dei secondi quanto dei primi. Persino nell’algida Olanda si levano voci discordi come quella dell’ex banchiere centrale Nout Wellink che, pronunciandosi per obbligazioni comuni, aggiunge: «Se il Sud cade, il ricco Nord cessa di esistere».
Oltre tutto ciò che viene richiesta è la monetizzazione del debito futuro non di quello pregresso. Non si tratta solo di una questione etico-ideale, ma anche squisitamente economica. Basta dare uno sguardo d’insieme all’economia mondiale, squassata oltre che dalla pandemia che nessuno risparmia, dalle follie protezionistiche di Trump (gli Usa sono i principali importatori dalla Germania), dalla contesa sui dazi e dalle nuove scelte di politica economica assunte dalla Cina (che finora è stato il principale partner commerciale della Germania).
Dove riverserebbe le sue merci, il gigante teutonico se il mercato europeo, già monco per la Brexit, gli si sfarinasse davanti per il crollo economico e istituzionale dovuto ad un cieco egoismo?
Ciò che è irrealizzabile non è quindi un necessario e utile atto di solidarietà, ma un isolazionismo fondato sull’insana convinzione dell’intrinseca superiorità teutonica che tante tragedie ha già portato. A meno che non si voglia dare ragione all’antico detto per cui quos deus perdere vult, dementat prius.
La soluzione per l’immediato è invece a portata di mano. Perfino economisti mainstream, come Giavazzi, Tabellini, Quadrio Curzio avvertono che il Mes è una struttura inadatta a questo scopo, perché richiederebbe una modifica statutaria per evitare condizionalità assurde e per il suo scarso volume di fuoco.
Meglio sarebbe usare la Bei finanziariamente rinforzata che è pur sempre un organismo comunitario. Oppure prevedere più semplicemente l’emissione di obbligazioni dai singoli Stati nazionali garantite dalla totalità dei membri dell’Unione, volti a finanziare il contrasto alla crisi.
Abbiamo ottenuto la sospensione del Patto di stabilità, nuovi interventi della Bce, l’estensione e il finanziamento della Cassa Integrazione. Mica poco, ma non basta. Ce lo dicono numerosi economisti italiani (persino, come Brancaccio ed altri, dalle pagine del Financial Times). Serve un efficace controllo sul mercato dei capitali, misure che spostino il prelievo fiscale sulle rendite per ridurre le ulteriori diseguaglianze createsi, un piano di investimenti europeo dal sanitario, all’istruzione, all’ambiente: un social-green- new deal in cui nessuno resti senza reddito. Ma se non si passa sugli eurobonds tutto questo sarebbe precluso.
Commenta (0 Commenti)su “il Manifesto” del 31 marzo 2020
Martedì 31 la giunta per il regolamento della camera discute sulle modalità di organizzazione del lavoro. Segue all’appello che ha ricevuto la firma di novanta parlamentari, letto da molti come una richiesta di aprire sul voto a distanza.
In una videoconferenza organizzata sul tema dall’on. Brescia, presidente della Commissione affari costituzionali e grande fan del voto telematico, sono emerse opinioni contrastanti.
Può sembrare un tema marginale, soprattutto oggi se raffrontato con le terribili statistiche di contagio e di morte. Ma il coronavirus condurrà a ripensamenti, e cambiamenti. Non sfuggirà il ruolo del parlamento, da tempo e in vario modo sotto attacco. Oggi, è visibilmente emarginato nel momento in cui l’esecutivo limita libertà e diritti dei cittadini in una misura e secondo modalità senza precedenti. Qui vediamo le premesse di futuri possibili.
È probabile che il voto a distanza sia in concreto praticabile con le moderne tecnologie, anche se è dubbia la piena conformità alla Costituzione e ai regolamenti. Ma la vera domanda è se il parlamentare possa essere equiparato a chi pratica lo smart-working, o debba invece essere assimilato a chi rimane al suo posto di lavoro perché impegnato in attività essenziali che così richiedono.
Qui la risposta si trova considerando che il Parlamento non è un votificio. Se lo fosse,
Leggi tutto: La rappresentanza non si pratica a distanza - di Massimo Villone
Commenta (0 Commenti)NuovAtlantide.org ha pubblicato sul suo sito una traduzione dell'articolo di Mario Draghi, apparso (in lingua inglese) sul Financial Times.
Lo riproduciamo qui con, in calce, anche il commento, caustico e lapidario, del Prof. Massimo D’Antoni che sembra non avere quel timore reverenziale che dimostra la gran parte degli studiosi e un amplissimo arco politico. Quando c'è un così ampio coro di consensi non fa mai male qualche suggestione critica.
red
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Livelli più elevati di debito pubblico diventeranno una caratteristica dell’economia e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.
La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura per la propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere sostenuti.
Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano il pericolo di perdere la vita, molti altri affrontano la perdita del sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Nell’intera economia le imprese affrontano perdite. Molte si stanno già ridimensionando e stanno licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.
La sfida che ci troviamo di fronte è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da un’ondata di fallimenti che lasceranno dietro di sé dei danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare le perdite – deve alla fine essere riassorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.
È il ruolo proprio dello stato impegnare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può riassorbire. Di fronte alle emergenze nazionali gli Stati l’hanno sempre fatto. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei prolungati costi di guerra furono coperti con le tasse. Ovunque, la base imponibile fu erosa dai danni di guerra e dal reclutamento. Oggi avviene la stessa cosa a causa dell’angoscia per la pandemia e della chiusura delle attività.
La domanda cruciale non è se lo Stato debba impegnare il proprio bilancio, ma come. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. Se non faremo questo, riemergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità produttiva compromesse in maniera permanente, con le famiglie e le imprese in grande difficoltà a ripianare i propri bilanci e ricostruire le loro attività.
I sussidi per la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati adottati da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. È essenziale per tutte le imprese coprire le proprie spese di gestione durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancor più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto opportune misure per fornire liquidità alle imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo.
Se i diversi paesi europei hanno differenti strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare i loro interi sistemi finanziari al completo: mercati obbligazionari, principalmente per le grandi società, sistema bancario e in alcuni paesi anche postale per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Il circuito bancario in particolare è diffuso in tutta l’economia e può creare denaro istantaneamente, consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.
Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo diventano un veicolo di trasmissione delle politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli scoperti di conto o prestiti aggiuntivi. Né regolamentazioni né norme sulle garanzie bancarie dovrebbero ostacolare la creazione nei bilanci delle banche di tutto lo spazio necessario a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere pari a zero, indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette.
Le imprese, tuttavia, non attingeranno alla liquidità che viene loro offerta semplicemente perché il credito è a basso costo. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così.
Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare l’indebitamento per mantenere i propri dipendenti. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere in futuro la loro capacità di investimento. E, se l’epidemia e il blocco delle attività dovessero perdurare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito acceso per mantenere al lavoro i dipendenti in quel periodo fosse alla fine cancellato.
O i governi finanziano le persone che si indebitano per affrontare le proprie spese, o costoro falliranno e la garanzia sarà prestata dal governo. Se si riesce a contenere l’azzardo morale, la prima soluzione è la migliore per l’economia. Il secondo percorso sarebbe probabilmente meno costoso per il bilancio pubblico. In entrambi i casi, se si vogliono tutelare i posti di lavoro e le capacità, i governi dovrebbero assorbire una gran parte della perdita di reddito causata dal blocco delle attività.
I livelli del debito pubblico aumenteranno. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base imponibile fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e alla fine per lo stesso gettito del bilancio pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabilmente futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà l’onere del servizio del debito.
Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria capillare in grado di far fluire i fondi in ogni parte dell’economia. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia.
Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono colpiti. Il costo dell’esitazione può risultare irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è un monito sufficiente.
La velocità del deterioramento dei bilanci privati - causata da un blocco dell’attività economica che è sia inevitabile quanto opportuno – deve essere affrontata da una uguale velocità nell’impegnare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che è evidentemente una causa comune.
di Mario Draghi
25 Marzo 2020
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commento di Massimo D’Antoni
Scienza delle Finanze Università di Siena
@maxdantoni
Ho riletto Draghi. Questo articolo è un capolavoro, perché al di là di una serie di affermazioni generali condivisibili, NON DICE NULLA, non dà nessuna indicazione sul da farsi: MES? BCE? Niente. Un messaggio buono per ogni opzione. Un genio. Ci siamo cascati tutti.
Commenta (0 Commenti)Leggi tutto l'articolo su Ravennanotizie con la protesta di Fim, Fiom, Uilm provinciali
Commenta (0 Commenti)da “il Manifesto” del 27 marzo 2020
Nei momenti di crisi c’è sempre chi ha un coniglio nel cilindro da esibire. Che si chiami governo di salute pubblica, o governo Draghi non ha importanza: serve soltanto a creare disorientamento. Come se la situazione non fosse già molto complicata.
Non a caso il rischio di implosione dell’Unione europea è stato implicitamente messo sul piatto da un uomo in genere misurato come appunto Mario Draghi, che ha definito il caso planetario Coronavirus come “una tragedia umana dalle proporzioni potenzialmente bibliche”, invitando i governi “a un significativo aumento dei debiti pubblici”.
Non sono invece per nulla misurati i suoi numerosi estimatori, di destra e di sinistra, che lo reclamano come l’uomo forte, il salvatore della (povera) patria, il nuovo Ciampi.
Le invocazioni che gli giungono dal mondo della politica con l’offerta della guida del paese hanno come sottotesto l’evocazione fumettistica da Avengers, di qualcuno con i superpoteri, dell’uomo al di sopra delle parti, senza colore politico, al servizio delle istituzioni. Una disarmante semplificazione.
Neppure lo sconvolgimento totale di ogni sicurezza, scientifica, politica, etica, neppure lo stravolgimento della vita quotidiana sembra incrinare le coordinate mentali di una presunta classe dirigente che dovrebbe essere un passo avanti rispetto all’opinione pubblica e che, invece, nonostante la tragedia mondiale, sembra perpetuare se stessa.
Oggi stiamo assistendo a una radicale rivoluzione che pretenderebbe il cambiamento richiesto negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi due anni dal movimento ambientalista.
L’aspetto più vistoso e potente, di risposta alla Pandemia, è il ruolo esercitato dagli Stati e di conseguenza dal settore pubblico. Questa talpa costringerà tutti a misurarsi con una nuova realtà, con profondi rivolgimenti sociali, con un peso crescente del welfare state.
Se non ci fosse la tragedia dei morti e il disastro economico che ci accompagnerà per i prossimi anni, si potrebbe quasi dire che il Coronavirus stia seminando anche buoni frutti, utili per costruire nuove visioni e nuovi equilibri globali.
Norma Rangeri
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