(da Ravenna in Comune)
Nel giorno delle porte spalancate alle fabbriche, che mai si sono riuscite a chiudere veramente, ci sembra importante pubblicare un contributo alla riflessione post Covid-19 di Roberto Riverso. Magistrato dal 1986, giudice del lavoro presso il Tribunale di Ravenna dal 1989, consigliere della Cassazione Sez. lavoro dal 2015. Docente a contratto presso l’Università di Bologna, ha collaborato con molte università italiane. Autore di note e saggi nella materia del diritto del lavoro e della previdenza sociale. I suoi scritti testimoniano l’impegno a trasmettere un’esperienza giuridica non ridotta a questione puramente tecnica, ma capace di fare i conti con la realtà, nella quale illegalità, lavoro irregolare, diseguaglianza e diritti negati trovano tuttora spazio diffuso. Lo scritto è comparso su Questione Giustizia (trimestrale promosso da Magistratura Democratica) il 1° maggio scorso. Lo pubblichiamo in due parti. Di seguito la prima parte.
La domanda ripropone il tema del rapporto tra salute, economia e lavoro. Cosa significa, oggi, parlare di rispetto della vita, di tutela della salute, di eguaglianza, di lavoro. Siamo da sempre afflitti da tremendi dubbi su questo tema che si presenta ogni giorno sotto mille facce; ma la realtà di oggi ci offre l’occasione, forse unica, per uscire dalla retorica e di misurare in concreto il significato e la portata di queste parole.
2. Ma siamo veramente al buio, ciechi e smarriti, nave senza cocchiere in gran tempesta? O possiamo fare affidamento su una guida sicura? È in momenti come questi che, come ci ha insegnato in mille occasioni Stefano Rodotà, la nostra Costituzione – troppo spesso ritenuta antiquata – si conferma invece «presbite» ossia capace di guardare lontano, secondo la felice definizione di Piero Calamandrei, ed in grado di offrirci risposte ed indicazioni anche su come uscire dai problemi posti dalla situazione eccezionale in cui ci troviamo. E ciò sia sul piano operativo, abilitando il Governo a poteri necessitati e temporanei per la formulazione di regole proporzionate alla situazione di fatto nel rispetto del principio di legalità (art. 77). Sia sul piano sostanziale: e qui lo fa con la forza dei valori in essa consacrati negli artt. 32 e 41, smentendo così la tesi di una società svuotata di riferimenti forti e prigioniera di una deriva ”relativistica”.
3. L’art. 41 della Costituzione coniuga il principio di libertà economica privata con il necessario rispetto dell’utilità sociale e della sicurezza, della libertà e dignità umana. La norma accoglie il modello di economia sociale di mercato e costituisce il cuore della nostra Costituzione. Non si può però dimenticare in proposito che, solo qualche anno fa (nel 2011), un potere di governo sulla via del disfacimento (governo Berlusconi IV), ha provato a più riprese manovre diversive e proposto di riformare proprio l’art.41 della Cost. Per cambiarne i contenuti, eliminando ogni vincolo o limite all’attività d’impresa. Venendo così ad alterare profondamente il modello costituzionale nel segno di un’ulteriore subordinazione degli interessi sociali e collettivi alla logica dei rapporti di forza e del dominio dell’impresa.
Gli stessi dilemmi sollecitati dallo shock del coronavirus confermano invece l’attualità e l’essenzialità dei vincoli delineati nella norma. L’ineliminabilità del riferimento alla sicurezza, come vedremo, e dello stesso limite rappresentato dal rispetto della dignità: segno ulteriore della lungimiranza della Costituzione, in un momento in cui stanno venendo alla luce anche situazioni in cui questo limite viene messo in discussione. Sia nel momento in cui il sovraccarico sulle strutture di terapia intensiva costringe i medici ad abdicare al principio di parità ed a contrapporre, tragicamente, una vita ad un’altra vita. Sia con riferimento alle migliaia di anziani morti nelle case di riposo ed alle quali prima o poi dovrà essere resa anche una parola di giustizia.
4. Sull’art. 32 Cost. – che prevede il diritto alla salute come “diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività” – la Corte costituzionale ha insegnato, in molte sentenze, che esso deve essere ritenuto come “diritto primario” ossia che viene prima (Corte cost., n. 365/1983); un diritto che “comporta un dovere di astensione” anche di altre attività lecite e comportamenti pur solo rischiosi (Corte cost., n. 399/1996, a proposito della libertà del fumo e dei danni da fumo passivo); alla stregua di un diritto “incomprimibile” (Corte cost., n. 309/1999), che non può subire condizionamenti neanche per mancanza di risorse finanziarie.
Certo vi è stata anche la sentenza costituzionale n. 85 del 2013, sul caso Ilva, in cui il conflitto tra lavoro e salute era posto in maniera più diretta; e dove – dinanzi alle censure di costituzionalità promosse contro la legge 24 dicembre 2012 n. 23 (di conv. del dl. n. 207/2012), che aveva dissequestrato d’imperio gli impianti e restituito l’azienda all’Ilva definita per legge stabilimento industriale di interesse strategico nazionale – la Corte cost. ha fatto mostra di realismo politico ed, utilizzando un lessico diverso, ha affermato che “non esiste tirannia dei diritti”; che nella Costituzione non c’è una gerarchia di valori; che neppure la salute è in testa ad altri diritti; che la Costituzione richiede un continuo e vicendevole bilanciamento che, senza portare al sacrificio di alcun interesse “nel suo nucleo essenziale”, è affidato al legislatore; e ciò, attraverso la ricerca del punto di equilibrio (per sua natura mutevole e dinamico) e secondo criteri di ragionevolezza.
La sentenza sotto il profilo teorico ha suscitato e suscita più di una riserva, posto che la Consulta sarebbe potuta arrivare allo stesso risultato (di salvare l’intervento del legislatore) semplicemente affermando che la situazione normativa non avesse peggiorato la tutela della salute, né avrebbe potuto farlo. Sul piano dei principi non si può infatti sostenere che tra la salute e il lavoro occorra realizzare un contemperamento ove per contemperamento s’intendesse ammettere (come la stessa parola dice) anche un cedimento del primo diritto verso il secondo. O del secondo verso il primo. Perché la salute deve essere tutelata in toto e non è suscettibile secondo la Costituzione di nessun sacrificio, neppure minimo, neppure per poter essere contemperata con altri valori. Se così non fosse non di bilanciamento si tratterebbe, ma soltanto di un modo per consegnare nelle mani del potere politico la possibilità di esprimere un giudizio di soccombenza o di prevalenza di un diritto rispetto ad un altro.
5. Ma non è questa la strada per tutelare neppure il lavoro: abbassare la soglia di tutela della salute e cercare contemperamenti. Tra salute e lavoro più che un contemperamento va ricercata e garantita un’osmosi, una corrispondenza, un completamento vicendevole. Tra salute, lavoro ed attività economica non ci può essere sul piano dei principi bilanciamento perché l’art. 41 prevede una precisa gerarchia. Ed i diritti sono posti dalle fonti e vanno interpretati per quel che sono e devono essere. Questo significa che un diritto può benissimo avere preminenza su un altro senza che questa preminenza debba essere qualificata come “tirannica”: è l’ordinamento giuridico che assegna a ciascun diritto il suo posto nel sistema, che disegna per esso una certa struttura, che prevede per esso certi limiti o “vantaggi”. Il giudizio di prevalenza, che, per restare al linguaggio della Corte, renderebbe “tiranno” un diritto rispetto all’altro, è in molti casi già risolto dalla Carta costituzionale. Ed infatti, quando la Costituzione dice che l’iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana non ci sta forse dicendo che la sicurezza o la dignità umana hanno preminenza sul diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva?
6. Peraltro, non sarebbe neppure esatto affermare che il lavoro sia subordinato alla salute; tra i due valori si è sviluppato infatti un rapporto osmotico (proprio sul piano normativo del dover essere). Dove vi è lavoro deve esservi salute. Non solo il lavoro non può essere insalubre e non deve danneggiare la salute, ma deve anche tendere a promuovere e migliorare la salute (e viceversa): la deve promuovere nel corso del lavoro ed all’esterno del lavoro. E’ questo il senso della concezione della salute che risulta oramai norma positiva nel nostro ordinamento. Il concetto di salute, un tempo ristretto alla sola mancanza di malattia, fa riferimento oggi anche al benessere dell’individuo, in un’accezione ampia che include la dimensione psichica e sociale. Proprio così si esprime l’art.1, lett. o), del t.u. n. 81/2008 (cd. tu sulla sicurezza del lavoro), mutuando un concetto antico che era espresso negli identici termini già nel 1946, nel preambolo alla costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che definiva la salute quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”. E non si tratta di una mera definizione, un ideale programmatico. È una norma con ricadute precettive; perché è rivolta ad obbligare il datore di lavoro a prevenire ogni sorta di rischio (art. 16), cioè a valutare e individuare le misure adeguate di prevenzione e protezione per migliorare nel tempo i livelli di salute e sicurezza; anche sotto il profilo psicologico e per combattere lo stress. Il lavoro deve farsi quindi promotore della salute e della dignità della persona; e tanto non potrebbe avvenire se si ammettesse in via di principio che la salute possa essere compromessa per poter lavorare.
7. Certo nella drammatica situazione in cui ora ci troviamo il legislatore è chiamato a scongiurare una crisi economica ed occupazionale senza precedenti, e deve agire per garantire la continuità delle attività economiche. La tutela costituzionale del lavoro comporta l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso, per promuovere e sostenere il sistema economico. Ma è pure evidente che adesso non manca, come appena un mese fa, la conoscenza e la consapevolezza del rischio a cui è esposto il bene primario della vita e dell’integrità fisica. E non si può quindi pensare di poter passare alla nuova fase 2 senza le necessarie difese, senza cioè aver costruito prima un modello di prevenzione in grado di offrire garanzie per la sicurezza e la salute, rispetto all’inizio della crisi. Anche e prima di tutto nei luoghi di lavoro, dal momento che si ipotizza che molti contagi siano partiti proprio dai luoghi di lavoro (e segnatamente dagli ospedali) per inadeguata protezione ed informazione degli operatori sanitari. Ogni errore o superficialità sarebbe quindi imperdonabile e potrebbe costare caro a tutta la collettività, facendoci ripiombare in una nuova emergenza.