Ricostruzione. Il nostro obiettivo è quello di tornare alla crisi “di prima” o vogliamo provare a progettare un’altra idea di società? In verità, la prima ipotesi è solo una grande illusione, perché la storia non può ripetersi (se non come farsa, diceva qualcuno)
L’appello per ricostruire il Paese dopo l’epidemia promosso da Sbilanciamoci! riguarda essenzialmente i temi economici e prova a rilanciare il ruolo dell’intervento pubblico dopo decenni di ubriacatura neoliberista. Ciò potrà avvenire solo se le nuove politiche economiche saranno sorrette da un’adeguata cultura giuridica in grado di regolare l’intervento delle istituzioni pubbliche. È per questo che il dialogo tra economia e diritto appare un presupposto necessario per ogni azione di cambiamento. Lo dimostra la storia alle nostre spalle segnata dal divorzio tra un’economia percepita come un ordine naturale e un diritto come strumento al servizio dell’ordine politico. È via via sfumata la consapevolezza, che era propria persino dei liberisti (senza “neo”), che esiste invece un ordine giuridico dell’economia.
Dovremmo allora agire su questo fronte rilanciando l’idea che il governo dell’economia non è affatto predeterminato, ma è il frutto di precise decisioni politiche di sviluppo. Si tratta di fare, in fondo, solo un piccolo passo, null’altro che la demistificazione di un falso. Eppure, riaffermata la politicità delle scelte economiche (anche di quelle che contrassegnano lo stato di cose presenti), non si potrà più negare una serie di conseguenze. La prima è che le scelte politiche – e dunque anche quelle economiche – negli Stati costituzionali sono vincolate al rispetto di principi fondamentali ritenuti “indisponibili”. Sono questi che devono indirizzare (anche) l’economia e non viceversa. Ciò vuol dire sostituire i limiti di bilancio, insensatamente introdotti persino in costituzione, con i limiti del rispetto dei diritti fondamentali. Lo ha già scritto chiaramente la nostra Corte costituzionale («È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione»: sent. n. 275 del 2016), si tratta ora di dare seguito coerente a questa indicazione.
Il problema non è pertanto quello del rispetto delle regole più o meno rigorose della stabilità dei conti, la questione di fondo riguarda le priorità e le modalità con cui si possono ottenere gli scopi definiti in sede politica. Si potranno perseguire le più diverse strategie economiche e sociali, ma a condizione che queste rispettino i diritti indisponibili delle persone. Un vincolo che, in via di principio, dovrebbe obbligare qualunque maggioranza, poiché costituisce il fondamento del “contratto sociale” che legittima l’esercizio del potere da parte dei nostri governanti. Potrebbe non essere facile ottenere questi risultati in periodi di crisi dello sviluppo (ma chi ha mai detto che governare democraticamente le società contemporanee sia una facile impresa?), ciò non toglie che non ci si può sottrarre.
Ribaltare le priorità – dall’economia ai diritti – per assicurare il minimo di garanzie sociali necessarie per la convivenza. Un capovolgimento che può porre fine alle degenerazioni che si sono registrare tanto in campo economico quanto in quello dei diritti. Se una lezione possiamo trarre dalla terribile pandemia è che aver lasciato fare al mercato non solo ci ha trascinato in una crisi economica senza precedenti e senza vie d’uscite (non da oggi, ma dal 2008), ma ha anche prodotto un indebolimento della struttura di sostegno necessaria per garantire l’assolvimento dei principali diritti dei consociati. Il Paese dopo due mesi di lockdown è in ginocchio, e non sarà il libero mercato o l’iniziativa dei privati a risollevarlo. Tant’è che i liberisti di ieri che chiedevano continui passi indietro allo Stato, ora, con la medesima arroganza, esigono dallo Stato le risorse per “ripartire”. È giunto il tempo per una riflessione che ci porti a più equilibrate soluzioni, anche perché il ritorno del pubblico è ora da tutti preteso. E allora la decisione su come impiegare le future risorse s’impone. Non vale più la scusa della libertà individuali, né si tratta di autonoma iniziativa economica dei privati, è allo Stato che spetta decidere come distribuire le proprie risorse scarse, si impongono dunque le priorità costituzionali.
Non è neppure difficile individuare queste “priorità”. Esse si legano tutte al valore fondamentale che il nostro ordinamento costituzionale ha posto a proprio elemento costitutivo: la dignità umana. Il rispetto dell’homo dignus come termine di confronto di tutte le politiche sociali – anche in ambito economico – che legittimano l’intervento dello Stato e l’uso delle risorse che esso eroga. Si tenga presente che la nostra costituzione impone il limite della “dignità umana” anche alla libera iniziativa economica dei privati, mentre impone “alla legge” (dunque all’intervento pubblico) di indirizzare e coordinare tanto l’attività pubblica quanto quella privata “a fini sociali”. Più chiaro di così?
Non vi è nulla di eversivo in queste osservazioni, non impone neppure una svolta dirigista all’economia di questo Paese, si limita a ristabilire le condizioni di compatibilità per uno sviluppo sostenibile e costituzionalmente orientato.
Ma quali sono i diritti fondamentali che danno forma alla dignità? La risposta è – ancora una volta – scritta, senza possibilità d’equivoci, in Costituzione. Sono i “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, è con riferimento a questi diritti che si impone quel dovere “inderogabile” di solidarietà sociale, economica e politica, di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. Non si può, nell’impiego delle risorse, non dare priorità ai diritti inviolabili, necessari per il pieno sviluppo della persona.
Con riferimento alle scelte di natura sociale, economica e politica che si devono adottare in questa chiave la precedenza non può che spettare ai tre settori che rendono effettivo il principio della pari dignità sociale: salute, lavoro e cultura. Proprio quei diritti indisponibili che più sono stati sacrificati dall’arrivo della pandemia. Ospedali in tilt, attività lavorative sospese o costrette all’home working, lezioni scolastiche e universitarie a distanza. Abbiamo pagato un costo terribile ad anni di politiche di privatizzazione delle strutture sanitarie; di flessibilità e riduzione delle garanzie per il mondo del lavoro; di riduzioni dei finanziamenti, burocratizzazione e disinteresse per ogni seria attività cultuale e formativa. È da qui che dobbiamo ripartire se vogliamo assegnare dignità alla “ripresa” dopo il Covid-19.
In questa fase si dovranno porre in essere misure d’emergenza per evitare il tracollo del sistema e la sopravvivenza delle persone, nell’immediato vanno bene dunque misure tampone. Ma tutti sono consapevoli che le scelte che si effettueranno rappresenteranno anche l’inizio di un nuovo ciclo. Per questo oltre al breve periodo bisogna guardare al futuro che vogliamo. Ed è qui che si pone la domanda finale: il nostro obiettivo è quello di tornare alla crisi “di prima” o vogliamo provare a progettare un’altra idea di società? In verità, la prima ipotesi è solo una grande illusione, perché la storia non può ripetersi (se non come farsa, diceva qualcuno) e dunque un ritorno al passato sancirebbe il definitivo abbandono di ogni idea di progresso e la consegna del nostro futuro ai soli rapporti di forza, ad un’economia senza diritti nel nostro caso. Meglio allora cambiare, “progettare la ricostruzione di un paese migliore, di un’Italia in salute, giusta e sostenibile” (come recita l’appello di Sbilanciamoci!).
È inutile farsi illusioni, non basta un programma per far mutare verso alla storia. Non sono le idee che mancano e il decalogo di Sbilanciamoci rappresenta un vero manifesto di governo per il cambiamento. Il problema di fondo è che anche le migliori proposte devono trovare le gambe su cui marciare. Ed ecco allora che un’altra questione si pone: per poter garantire l’effettività dei diritti, anche di quelli “indisponibili” ai governanti, c’è bisogno di una buona politica, di una politica consapevole che le idee, nel bene e nel male, valgono più degli interessi. È sul terreno delle egemonie culturali che si gioca la vera partita. Attrezziamoci.