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Scaffale. «Il diritto a un reddito di base» di Giuseppe Bronzini, edito da Abele. La riduzione quantitativa dell'occupazione, la sua intermittenza e volatilità, non sono un malfunzionamento correggibile del sistema economico, ma la sua realtà sistemica

Durante le campagne elettorali la discussione attorno al reddito garantito è solita toccare livelli infimi, qualunque sia la forma o l’estensione nelle quali la proposta di un reddito di base venga formulata. Nel regno del pregiudizio e dei luoghi comuni lo spazio per le argomentazioni razionali è ridotto al minimo. Cosicché, messo da parte ogni sguardo d’insieme sulla struttura della società in cui viviamo e sui modi in cui essa produce e si riproduce, per non parlare delle sue tendenze di sviluppo, è un moralismo ottuso e stantio a dettare le regole del gioco.

OSCILLANDO tra la denuncia di una presunta «incentivazione dell’ozio» e l’imperativo di dare una mano ai poveri e agli esclusi, purché versino in condizioni di indigenza estrema e incolpevole e si mostrino, soprattutto, meritevoli e grati dell’aiuto che il potere pubblico vorrà loro concedere. Un moralismo che poggia fondamentalmente su due elementi. Il primo consiste in una idealizzazione del passato (il mondo semplice e operoso dell’industrializzazione e del lavoro salariato); il secondo in quel diffuso risentimento che spinge gli uni contro gli altri a misurare e rinfacciarsi vicendevolmente presunti vantaggi e privilegi ottenuti senza sforzo. A completare il quadro, la giostra delle rilevazioni statistiche che vanamente si sforzano di dimostrare la ripresa dell’occupazione e di alludere, dunque, a un futuro ritorno del lavoro per tutti, o almeno per i più.
Per sottrarsi a questo miserevole contesto, converrà ricondurre la questione del reddito di base al suo reale spessore, alla sua storia e a un’analisi rigorosa delle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno investito il modo di produzione e le forme di vita nel mondo dell’economia globalizzata e nelle sue articolazioni.

È QUANTO SI PROPONE Giuseppe Bronzini, nel suo recente Il diritto a un reddito di base (edizioni Gruppo Abele, pp.160, euro 12) che, in poche pagine ampiamente documentate, ricostruisce la storia e le ragioni di fondo del reddito di base, prende in esame la letteratura più recente sull’argomento, le iniziative politiche e le proposte legislative oggi in discussione in Italia e in Europa.
Il primo capitolo del libro si apre con una citazione di Jacques Le Goff che, se pur specificamente riferita all’automazione, illumina in generale il rapporto tra le categorie politiche dominanti e la realtà sociale: «Gli uomini si servono delle macchine che inventano conservando la mentalità dell’epoca precedente a queste macchine».

PER IL MERCATO del lavoro, per il welfare agisce esattamente questo stesso scarto tra ciò che non più vero, resta tuttavia vigente. Non si tratta però di qualcosa di innocuo e inconsapevole. Quella «mentalità precedente» corrisponde infatti a rapporti di potere e strumenti di dominio che intendono conservarsi contro le potenzialità che l’innovazione potrebbe offrire.

COSÌ IL LAVORO reso superfluo o rarefatto dall’automazione e dalle nuove forme di organizzazione produttiva non deve tradursi in uno spazio a disposizione di attività libere e autorganizzate, ma in un bacino di soggettività dipendenti, ricattabili, in perenne attesa di «inclusione» ai gradini più bassi della gerarchia sociale. Ecco perché in gran parte delle proposte di sostegno al reddito oggi in discussione l’elemento del controllo, della sanzione, della coazione al lavoro come valore in sé, prevale e sovrasta la libertà di scelta del singolo. Secondo un disegno prescrittivo, pateticamente affidato ai burocrati del pubblico impiego, chiamati a progettare «la vita degli altri».
I diversi progetti di reddito di «inserimento», di «inclusione», o di «dignità», limitati nel tempo e fortemente condizionati, muovono dal comune presupposto che la riduzione quantitativa del lavoro richiesto, la sua intermittenza e volatilità, costituiscano un malfunzionamento correggibile del sistema economico e non la sua realtà sistemica.
Così, i soggetti impoveriti, niente affatto «esclusi» ma pienamente inseriti in questa dimensione strutturale, vengono immaginati come figure incomplete, irrisolte, che devono essere accompagnate a realizzarsi nella dimensione «normale» e obbligatoriamente desiderabile del lavoro stabile a tempo indeterminato, sola condizione di solidi diritti e sicure tutele. Laddove è invece la realtà che il lavoro autonomo e intermittente vive concretamente a dover essere riempita di diritti e possibilità. A partire dalla garanzia di un reddito di base che la sottragga alla debolezza ricattabile in cui oggi versa. È su questo metro che Bronzini misura le diverse politiche di «riforma» in Italia, dal Jobs Act al Rei, e in Europa, dall’ormai lontana Carta di Nizza alle recenti proposte della Commissione sull’
European social pillar.

L’AUMENTO DELLA POVERTÀ, anche tra quanti sono inclusi nelle reti produttive, il carattere strutturale della disoccupazione e della sottoccupazione, il numero crescente di individui cui il vecchio welfare, nonché un’architettura dei diritti costruita su base corporativa, non offrono ormai alcuna tutela, costituiscono un quadro che nessuno può più negare.
Ma la partita, politico-culturale prima ancora che economico-finanziaria, su come reagire a questa innegabile situazione, sul ruolo strategico del basic income, è tutta aperta. E il terreno più conveniente per giocarla è quello dell’Unione europea nella dimensione transnazionale dei processi di trasformazione e nella necessità urgente di colmare il deficit sociale della costruzione europea.

L’autore Giuseppe Bronzini parteciperà oggi all’incontro dal titolo «I love dignità/Reddito minimo garantito» organizzato dalla Rete dei Numeri Pari alla Casa Internazionale delle Donne (in via della Lungara 19 a Roma, dalle 10 alle 16) e domani sarà alla Fnsi, alle ore 11.

 

 

 

 

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da "il Manifesto" del 11-02-2018

Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, che ne ha reso spettrale il centro storico. Nonostante il catechismo sospeso e le chiese chiuse da un vescovo poco cristiano. Nonostante gli allarmi, i divieti, le incertezze della vigilia. Nonostante tutto.
Un’umanitá variopinta, consapevole e determinata, l’ha avvolta in una fiumana calda di vita, ritornando nei luoghi che una settimana prima erano stati teatro del primo vero atto di terrorismo in Italia in questo tormentato decennio. Un terrorismo odioso, di matrice razzista e fascista, a riesumare gli aspetti più oscuri e vergognosi della nostra storia nazionale.
Era un atto dovuto. La condizione per tutti noi di poter andare ancora con la testa alta. Senza la vergogna di una resa incondizionata all’inumano che avanza, e rischia di farsi, a poco a poco, spirito del tempo, senso comune, ordine delle cose.
Un merito enorme per questo gesto di riparazione, va a chi, fin da subito, ha capito e ha deciso che essere a Macerata, ed esserci in tanti, era una necessità assoluta, di quelle che non ammettono repliche né remore. A chi, senza aspettare permessi o comandi, nonostante gli ondeggiamenti, le retromarce, le ambiguità dei cosiddetti «responsabili» delle «grandi organizzazioni», si è messo in cammino. Ha chiamato a raccolta. Ha fatto da sé, come si fa appunto nelle emergenze.
Il Merito va ai ragazzi del Sisma, che non ci hanno pensato un minuto per mobilitarsi, alla Fiom che per prima ha capito cosa fosse giusto fare, ai 190 circoli dell’Arci, alle tante sezioni dell’Anpi, a cominciare da quella di Macerata, agli iscritti della Cgil, che hanno considerato fin da subito una follia i tentennamenti dei rispettivi vertici.
Alle organizzazioni politiche che pur impegnate in una campagna elettorale dura hanno anteposto la testimonianza civile alla ricerca di voti. Alle donne agli uomini ai ragazzi che d’istinto hanno pensato «se non ora quando?». Sono loro che hanno «salvato l’onore» di quello che con termine sempre più frusto continua a chiamarsi «mondo democratico» italiano impedendo che fosse definitivamente inghiottito dalla notte della memoria. Sono loro, ancora, che hanno difeso la Costituzione, riaffermandone i valori, mentre lo Stato stava altrove, e contro.
Tutto è andato bene, dunque, e le minacce «istituzionali» della vigilia sono alla fine rientrate come era giusto che fosse.
Il che non toglie nulla alle responsabilità, gravi, di quei vertici (della Cgil, dell’Arci, dell’Anpi…) solo parzialmente emendate dai successivi riaggiustamenti.
Gravi perché testimoniano di un deficit prima ancora che politico, culturale. Di una debolezza «morale» avrebbe detto Piero Gobetti, che si esprime in

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Ne dà notizia oggi 10/2 il Resto del Carlino...

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Dopo l'intervento di Giorgio Gatta,  pubblichiamo anche questo articolo da il manifesto dell'8/2 proprio sulla situazione in città a Macerata.

Lo stop di Minniti non ferma la manifestazione di Macerata - di Mario di Vito

In piazza. La questura, «per ora», non conferma il divieto della prefettura

All’ingresso della città, sul cartello che reca la scritta di «Macerata città della pace» una mano anonima ha aggiunto a bomboletta una parola che dice molto su queste giornate infinite: «Eterna».

Il vertice della tensione è stato toccato ieri sera, all’ora di cena, con la calata di Roberto Fiore e di Forza Nuova, che si sono visti per un comizio elettorale in piazza Oberdan, in una zona defilata del centro di Macerata, malgrado i tentativi di vietare qualsiasi manifestazione lanciati prima dal sindaco Pd Romano Carancini e poi dalla prefettura con il Viminale pronto a dare manforte.

La sortita del movimento di estrema destra è rimasta blindata e non ha fatto registrare una grande partecipazione, in compenso una trentina di persone si è fatta vedere per contestarli al grido di «terroristi» e «assassini». Tra i due blocchi, una corposa cortina di agenti in assetto antisommossa.

L’appello a non manifestare di Carancini, comunque, era già caduto nel vuoto nel pomeriggio di mercoledì, quando nella centralissima piazza della Libertà il capo di Casapound Simone Di Stefano ha inscenato la sua passeggiata elettorale con dieci militanti e venti cronisti al seguito. In tutto questo la città vive da quasi due settimane con il fiato sospeso, nell’incertezza di una situazione pesantissima, tra l’omicidio della giovane Pamela, la sparatoria di Traini e il successivo clima tesissimo.

Nel pomeriggio di ieri il leader della Lega Matteo Salvini è andato prima a Camerino dai terremotati e poi a Civitanova. Sulla costa ha trovato ad accoglierlo degli striscioni con scritto «sciacallo», mentre in montagna una ventina di ragazzi ha deciso di contestarlo al grido di «siamo tutti antirazzisti».
Il giorno dopo la clamorosa spaccatura del fronte antifascista, intanto, fioccano le adesioni per il corteo che partirà domani pomeriggio alle 14 .30, davanti alla stazione.

«Marceremo contro il razzismo, contro il fascismo e per la democrazia», confermano i militanti del centro sociale Sisma, che aggiungono: «I militanti di base delle associazioni che hanno ritirato la loro adesioni verranno di sicuro, indipendentemente da quello che hanno detto i loro vertici».

Ieri in città è arrivato il leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso, che, dopo la sua visita ai feriti in ospedale e alla madre di Pamela Mastropietro, ha preso le parti dei manifestanti. «Non si può pensare che le manifestazioni fasciste e quelle antifasciste siano la stessa cosa – ha detto ai cronisti –, capisco le tensioni ma bisogna difendere i valori della nostra democrazia». Il presidente del Senato ha anche parlato di «perplessità per le decisioni delle segreterie nazionali della associazioni di rinunciare alla propria presenza».

C’è confusione sul fronte istituzionale: nella tarda serata di mercoledì la prefettura ha reso pubblica una nota con cui accoglieva l’invito del sindaco Romano Carancini, imponendo uno stop a tutte le manifestazioni. Ancora ieri pomeriggio dalla questura hanno fatto sapere che nessuna manifestazione era stata vietata.

Due posizioni in apparente contrasto, se si considera che il ministro degli Interni Marco Minniti era stato piuttosto chiaro sul punto: «Mi auguro che chi ha annunciato manifestazioni accolga l’invito del sindaco, se qusto non avverrà, ci penserò io ad evitare tali manifestazioni». Tutto questo dopo essersi fatto i complimenti da solo, a modo suo: «Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione».

Le invidiabili doti da veggente del ministro – tra l’altro apprezzate dal segretario dem Matteo Renzi a Cartabianca su Raitre -, non hanno comunque impedito al 28enne militante leghista di aprire il fuoco contro sei ragazzi africani.

 

 

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Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata della memoria il 25 gennaio 2018 ha pronunciato un discorso nel quale ribadisce con forza l'attualità dell'antifascismo come fondamento della Repubblica e come antidoto contro "la predicazione dell'odio (...) di vecchi e nuovi profeti di morte. (...)".
I valori della Costituzione, l'eredità della Resistenza, sono ciò che oggi consente al nostro Paese di "riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso, con l'approvazione delle leggi razziali, nei confronti dei nostri concittadini ebrei.
La Repubblica italiana, proprio perché forte e radicata nella democrazia, non ha timore di fare i conti con la storia d'Italia, non dimenticando né nascondendo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese, con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell'uomo.
La Repubblica e la sua Costituzione sono il baluardo perché tutto questo non possa mai più avvenire."

Pensiamo che questo discorso meriti davvero la più larga diffusione.
la redazione

Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla celebrazione del “Giorno della Memoria”

Palazzo del Quirinale 25/01/2018

Rivolgo un saluto ai presidenti del Senato, della Camera dei Deputati e della Corte costituzionale, ai membri del governo, a tutti i presenti, a coloro che ci ascoltano attraverso la tv.
Un saluto particolare ai superstiti dei campi di sterminio, alla senatrice Segre, ai ragazzi.
Il 27 gennaio del 1945 le truppe russe varcavano i cancelli di Auschwitz, spalancando, davanti al mondo attonito, le porte dell'abisso.
Quei corpi ammassati, i volti dei pochi sopravvissuti dallo sguardo spento e atterrito, i resti delle baracche, delle camere a gas, dei forni crematori erano il simbolo estremo della scellerata ideologia nazista.
Un virus letale - quello del razzismo omicida - era esploso al centro dell'Europa, contagiando nazioni e popoli fino a pochi anni prima emblema della civiltà, del progresso, dell'arte. Auschwitz era il frutto più emblematico di questa perversione.
Ancora oggi ciò che ci interroga e sgomenta maggiormente, di un mare di violenza e di abominio, sono la metodicità ossessiva, l'odio razziale divenuto sistema, la macchina lugubre e solerte degli apparati di sterminio di massa, sostenuta da una complessa organizzazione che estendeva i suoi gangli nella società tedesca.
Il cammino dell'umanità è purtroppo costellato di stragi, uccisioni, genocidi.
Tutte le vittime dell'odio sono uguali e meritano uguale rispetto. Ma la Shoah - per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio, pianificazione burocratica, efficienza criminale - resta unica nella storia d'Europa.
Come fu possibile che anziani, donne, bambini anche di pochi mesi, stremati dalle lunghe persecuzioni, potessero essere sistematicamente eliminati, perché considerati pericolosi nemici? Che fine aveva fatto tra gli ufficiali di un esercito prestigioso, dalle grandi tradizioni, il senso dell'onore, quello per cui, quanto meno, non si uccidono gli inermi? Dove era finito il sentimento più elementare di umanità e di pietà di una nazione, evoluta e sviluppata, di fronte alle moltitudini di innocenti avviati, con zelo e nella generale indifferenza, verso le camere a gas? Migliaia di cittadini, i "volenterosi carnefici di Hitler", come li ha definiti lo storico Goldhagen, cooperavano alla distruzione degli ebrei.
Con questo consenso il nazismo riuscì a sterminare milioni di ebrei, di oppositori politici e di altri gruppi sociali - gitani, omosessuali, testimoni di Geova, disabili - considerati inferiori e ritenuti un ostacolo per il progresso della nazione.
Saluto e ringrazio per la loro presenza il presidente della Federazione dei Rom e Sinti, il presidente dell'Associazione deportati politici. Saluto anche il presidente degli internati militari: 800 mila soldati che, per il rifiuto di collaborare con i nazisti e di arruolarsi sotto le insegne di Salò, patirono privazioni, persecuzioni e violenze.
Da Liliana Segre e Pietro Terracina abbiamo sentito poc'anzi il racconto diretto, sconvolgente e inestimabile, dell'inferno dei campi, avvertendo la stessa emozione provata, nei giorni scorsi, ascoltando le parole, anch'esse essenziali e penetranti, di Sami Modiano. Agli internati venivano negati il nome, gli affetti, la memoria e il futuro, il diritto a essere persone.
Tutti i sentimenti erano brutalmente proibiti, tranne quello della paura.
Si possono uccidere, a freddo, senza remore, sei milioni di individui inermi se si nega non soltanto la loro appartenenza al genere umano

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A legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché «manca la maggioranza» per via del voto contrario in Parlamento della destra (e l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con la missione: in fondo è così che li «aiutiamo a casa loro».

Siamo in campagna elettorale e siccome è stato valutato il «valore positivo» nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista «costituzionalista» Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di questa missione militare in Niger è altissimo.

Come preminente è l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli – sempre più nel pieno di una guerra per bande – per fermare ad ogni costo – con la detenzione, le minacce, le violenze – i migranti. Colpevoli tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione «le basi della democrazia» – parola del ministro degli interni. Che ha preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere ai profughi la rotta del Mediterraneo.

E che ora con tutto il governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico, perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa «è il Niger», la sponda sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara.

Lì vanno fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta 35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento.

Un modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali (dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.).

Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni.

In Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile versione che «quella che sta per partire non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi con gli americani», spiegando che «appena il parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare a 470», più 130 mezzi terrestri e due aerei da guerra.

Sembra un’operazione contabile: verranno stornati militari dall’Afghanistan – dove siamo nella fallimentare guerra Usa-Nato da 16 anni – e dall’Iraq perché lo jihadismo «è sconfitto», ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato dal conflitto tra sunniti e sciiti.

Ora come si fa a raccontare che non è una missione combat quando molti «addestratori» francesi e americani vengono uccisi in combattimento proprio in Niger? Si dirà poi che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq?

Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che «andiamo in Niger per impedire un’altra Libia».

Ma se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli – loro e le stragi a cui sono condannati – dagli occhi dell’opinione pubblica e dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando una sorta di caccia vera e propria ai profughi.

Una guerra ai migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della quale si contrabbanda che «ci è stata richiesta il 1 novembre scorso dalle autorità nigerine di Njamey», ed è vantata come un aiuto «contro i jihadisti», rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi africani che tornano ad essere considerati – e politicamente esposti al giudizio interno nel poverissimo Niger – solo come tutela coloniale. Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a Macron che li sfidava: «Non siete più sotto il dominio coloniale».

La realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime (uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve monetarie in franchi Cfa, sostanzialmente ancora coloniali, sono nelle mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati.

Capovolgiamo allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che anche stavolta viene rappresentata come «umanitaria». A sinistra avranno un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova avventura coloniale.

Che la guerra, finalmente, torni ad essere la discriminante.

 

 

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