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Il dibattito. Sinistra, quale soggetto

La riflessione che Aldo Garzia propone sulla «forma partito» è importante, soprattutto per le conclusioni cui non giunge apertamente ma cui allude e che mi paiono la risposta migliore all’invito di Norma Rangeri rivolto alle talpe a uscire allo scoperto. Prima di esplicitarle, però, un passo indietro: Aldo muove da una constatazione ineludibile. I partiti, per come li ha conosciuti la seconda metà del ‘900, non esistono più. Anche e in primo luogo a sinistra. Questa scomparsa ha due responsabili: in quota maggiore è da attribuire al cambio di paradigma che ha segnato la trasformazione del capitalismo a partire dalla metà degli anni Settanta e nella cui coda ancora oggi siamo imbrigliati.

Un cambio di paradigma che ha il suo fulcro nella frammentazione del ciclo produttivo e del soggetto operaio, nella nuova velocità dei processi di trasformazione strutturale e sovrastrutturale che, dalla finanza all’iper-comunicazione, hanno frantumato e ridefinito anche i confini delle identità. In quota minore, però, la scomparsa dei partiti è addebitabile alla scelta di intere classi dirigenti progressiste di disinvestire, nel corso degli anni, sull’organizzazione del rapporto tra politica e popolo, tra momento istituzionale e corpi intermedi. Se questo ragionamento è fondato, occorre fare i conti con le sue due conseguenze più dirette.

La prima è che sarebbe un errore imperdonabile accettare passivamente il disarmo politico e intellettuale che ha condotto dal partito di massa alle attuali forme fluide, elettoralistiche e leaderistiche della politica. In questo senso occorrerebbe il coraggio di dire che la prospettiva storica del Pd si è esaurita, perché ha scelto di collocarsi per intero sul binario morto di una costruzione asettica e indistinta, afona rispetto ai conflitti sociali e al turbinio di contraddizioni che il nuovo capitalismo ha generato.

La seconda conseguenza è che la semplice evocazione della necessità organizzativa del Partito della sinistra, fuori e contro il Pd, non funziona, è respingente, è condannata a essere velleitaria, nella misura in cui non fa i conti con la dimensione della partecipazione di larghi e ampi settori popolari alla vita politica del Paese. E più la si suggerisce e la si improvvisa e più essa evapora, insieme alla sua credibilità.
Occorre allora che sia la sinistra, la nostra sinistra, ad avanzare una proposta che sia riorganizzativa dell’intero campo progressista, che superi la frammentazione delle sigle presenti, che comprenda e coinvolga anche il Pd, e che si sviluppi non sulla base delle suggestioni (che spesso utilizzano formule vaghe perché vuote) ma di una idea-forza dirompente, senza la quale crolla l’impianto e si è condannati nella gabbia degli errori e delle insufficienze del passato recente.

Questa idea-forza è il progetto – mai sperimentato fino in fondo – di un vero protagonismo, diffuso e molecolare, delle militanti e dei militanti della sinistra italiana, che hanno il diritto di non essere più né monadi irrelate né esercito di manovra delle tante piccole élite (correnti e partiti) che governano il teatro della nostra politique politicienne. Un protagonismo che sia naturalmente democratico, che si fondi su di una pluralità di esperienze, istituti di auto-rappresentazione e di autogoverno, dalla cui unione in forma nuova, in forma federativa, nasca il partito del nostro tempo. Un soggetto politico che si concepisca in forma plurale, unendo le diversità senza costringerle alla reductio ad unum nel nome del capo (o dell’apparato burocratico che lo sostiene), un soggetto politico federato capace di adattarsi alle pieghe del nostro presente, ai tempi e ai luoghi di vita di tutti e tutte.

Che prenda in mano la dimensione digitale e la integri con quella del territorio, della vertenza locale e della mobilitazione globale. Della piazza e delle agorà. Senza avere paura di internet. Anzi: utilizzando internet per creare un unico grande spazio, un albo di donne e uomini cui affidare e con cui avviare il per percorso costituente. Su quale parola d’ordine? La più antica e al contempo la più moderna: il progetto dell’uguaglianza, di una nuova idea di eco-socialismo all’altezza della storia e delle sue contraddizioni. Apriamo le danze (o rimaniamo imbrigliati nei recinti delle rispettive appartenenze)?

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Lavoro. La loro regolarizzazione annunciata di fatto non c’è stata. Il lockdown è un grave peso per chi è costretto a restare a casa. Ma per chi la casa non ce l’ha è una vera tragedia

Migranti braccianti nel foggiano

È passato un anno da quando grazie a un manifesto della Flai Cgil si cominciò a parlare di una regolarizzazione per i lavoratori stranieri occupati in agricoltura e privi di permesso di soggiorno. E ancor prima dell’iniziativa sindacale c’erano state richieste da parte di grandi e piccoli imprenditori agricoli che – vedendo approssimarsi mesi di intensa domanda di lavoro per le semine e altre operazioni primaverili e per le raccolte estive – si erano resi conto che la manodopera disponibile era drasticamente ridotta rispetto agli anni precedenti.

MA A QUESTE probabili assenze corrispondeva una sicura presenza di immigrati privi di permesso di soggiorno oppure con permesso scaduto comunque in condizione di irregolarità : persone intrappolate in Italia e a rischio di rimpatrio forzato. Attingere ulteriormente in maniera legale a questo bacino era l’interesse dichiarato e in larga misura effettivo di molti imprenditori agricoli. Risultava dunque evidente che la sanatoria ( o regolarizzazione che dir si voglia) era una buona opportunità non solo per i lavoratori.

E a questo punto l’interesse per la regolarizzazione si estese riguardando lavoratori e datori di lavoro di vari settori ed ambienti. In particolare il lavoro domestico e quello di cura (colf e badanti). Alla fine la regolarizzazione fu approvata rientrando come parte integrante del ‘Decreto Rilancio’ del 16 maggio 2020 tuttavia con una serie di paletti e di vincoli volti a renderne il percorso difficile e costoso per tutti e praticamente impraticabile per i braccianti.

Le domande furono poco più di duecento mila per il complesso delle categorie ma quelle dei lavoratori agricoli furono circa quindicimila: una cifra veramente irrisoria se si considera il notevole e crescente numero di lavoratori stranieri occupati al nero.

E QUESTO MERITA una spiegazione specifica che chiama in causa il meccanismo cardine delle regolarizzazioni in atto nel nostro paese: un procedimento secondo il quale l’immigrato non è un soggetto che richiede di regolarizzare la propria posizione e ottenere un permesso di soggiorno. Al contrario egli è l’oggetto di una richiesta presentata da un datore di lavoro che decide di regolarizzare una persona alle proprie dipendenze.

Con la legge Bossi-Fini e relativa sanatoria questo principio fu codificato con l’infame norma del ‘contratto di soggiorno’, che lega il permesso a uno specifico rapporto di lavoro rendendo strutturalmente insicura la condizione del lavoratore ‘oggetto’ del contratto sempre a rischio di perdere il permesso di soggiorno.

MA LA MAGGIOR PARTE dei braccianti che lavorano ora al nero non hanno un rapporto di lavoro certificabile. In agricoltura la domanda di lavoro è estremamente irregolare con concentrazione in alcuni periodi e con la durata dell’occupazione presso un’azienda spesso molto breve. A volte il bracciante conosce solo il caporale e non ha alcun contatto con il titolare dell’azienda agricola. Ed è comprensibile la scarsa disponibilità di questi ultimi. Ma anche nel caso di disponibilità i requisiti personali dell’imprenditore e relativi all’azienda richiesti per dar corso alla regolarizzazione sono talmente stretti da disincentivare ogni buon proposito.

Per questo i braccianti la battaglia l’hanno persa ancora prima di cominciarla. Chi non voleva che se ne facesse nulla ha vinto la partita in anticipo. E i lavoratori si sono trovati nelle stesse condizioni di prima aggravate dall’epidemia.
Questo è l’aspetto più doloroso. La costrizione a restare chiusi in casa – il lockdown come si dice – è una gran bella seccatura, che rende la vita difficile a chiunque. Ma questa è una seccatura per chi una casa dove stare ce l’ha. Il che non è il caso di una larga parte dei lavoratori agricoli immigrati.

Un alloggio di fortuna per quanto terribile è più sopportabile se usato solo per riposarsi di notte. I ghetti, le baraccopoli, e le stesse tendopoli sono forme di degrado abitativo comunque. Ma diventano una insopportabile prigione quando non se ne può uscire. Uscire dalle precarie sistemazioni nei ghetti e altrove per gli irregolari non implica solo una contravvenzione alle norme del lockdown ma anche il rischio delle sanzioni per l’assenza di permesso di soggiorno.

INOLTRE le agglomerazioni, anche le più precarie e malsane, sono comunque un luogo di socialità e solidarietà. La giusta paura del contagio ha determinato un’ulteriore dispersione degli immigrati, costretti a cercarsi nel freddo nei mesi autunnali e dell’inverno un tetto un tugurio o una casa di campagna abbandonata per ridurre il rischio di contagio.

Lo stesso accesso al tampone è stato difficile e in alcune situazioni del Mezzogiorno è stato reso possibile dall’impegno di associazioni del volontariato. Infine in qualche caso si è dovuto rinunciare a progetti di sistemazione in strutture più o meno attrezzate di numeri significativi di braccianti per i rischi connessi all’affollamento, con il risultato di un ulteriore aumento della loro solitudine e precarietà. Insomma è stato un anno, e soprattutto un inverno, orribile.

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Armi . Temo l’irresponsabilità e il vetero-atlantismo del mio partito che, in piena pandemia e crisi sociale e sanitaria, vuole l’Italia tra i protagonisti globali della corsa agli armamenti

La puntata di lunedì scorso di «Presa Diretta» sulla industria bellica e le spese militari è stata una vera boccata d’ossigeno, un ottimo esempio di servizio pubblico.

Spero davvero che, insieme ai tanti cittadini, l’abbiano vista anche i miei colleghi di partito, perché tutto ciò di cui si è parlato in quella trasmissione li riguarda molto da vicino. In special modo, tutti coloro che hanno ricoperto e che ricoprono posizioni di governo non solo nel ministero della Difesa.

Ma pure nelle varie commissioni parlamentari. Dopo le dimissioni di Zingaretti è tutto un gran parlare di rinnovamento del Pd. Ma c’è una cosa oscura che campeggia; una sorta di fantasma di cui nessuno parla, ossia la «zelanteria» ed il «senso di responsabilità» con cui si assecondano gli interessi molto particolari del complesso militare industriale del nostro Paese.

Per la verità i miei sodali sono in ottima compagnia, poiché in tutto il parlamento ho visto ben poche persone che, quando si trattava di manovrare le leve di governo, abbiano dimostrato il giusto coraggio e la necessaria coerenza rispetto ai principi costituzionali ai quali abbiamo giurato fedeltà. Mi riferisco in particolare all’art.11 della nostra Costituzione: «…l’Italia ripudia la guerra…».

PENSO CHE LO ABBIAMO tradito ogni volta che abbiamo privilegiato l’impegno della forza militare rispetto a quello della diplomazia e del negoziato, accettando finanche il principio della guerra preventiva contro le armi di distruzione di massa. Inesistenti quanto la nipote di Mubarak! Non si tratta, a mio giudizio, di negare la necessità degli strumenti di difesa, ma di doverne impedire gli eccessi. In relazione a ciò, giusto per esemplificare, mi chiedo perché non si facciano concreti passi in avanti verso un reale sistema di Difesa Europea, più efficiente e meno costoso dei ventisette proposti dai singoli Stati, che continuano a bruciare follemente ingenti risorse, impiegabili in ben altri contesti. Il risparmio di ciascun Paese, a mio giudizio, potrebbe favorire la riconversione di tanta parte dell’industria militare, a partire, a titolo di esempio, dalla transizione ecologica.

Quella vera emergenza, cioè, che chiama in causa e che pretende tecnologie, apparati di ricerca e sistemi produttivi di alto livello.
Quando ho avuto modo, concretamente, di essere chiamato a dimostrare la mia coerenza a questo principio, sono sempre stato ostacolato, spesso isolato ed infine estromesso da qualsiasi ruolo di responsabilità nel mio partito. Ma non è la mia vicenda personale ciò che conta e non è di questo che sono preoccupato.

Mi preoccupa seriamente la pervicace irresponsabilità del mio partito che, in piena pandemia e crisi socio-sanitaria, continua a credere che il nostro Paese debba essere uno dei protagonisti globali della corsa agli armamenti e che debba mantenersi saldamente al guinzaglio di un atlantismo non più rispondente alle esigenze di un continente europeo in grave deficit di una visione globale, oltre che carente della necessaria tensione ideale.

SI HA L’IMPUDENZA di giustificare la folle crescita della spesa militare, gabellandola come la panacea all’instabilità internazionale che minaccerebbe i nostri interessi nazionali. E magari si suggerisce persino l’oblio verso le responsabilità del blocco euroatlantico, con i suoi bombardamenti «umanitari» e le «esportazioni democratiche», inflitte anche col ricorso a quell’uranio impoverito, che continua a mietere vittime sia tra i civili che tra gli stessi nostri soldati mandati in missione!

CARO MINISTRO Guerini, perché continui a voler soccombere nei tribunali italiani, laddove il ministero della difesa perde le cause intentate dalle vedove e gli orfani provocati dall’uranio impoverito, anziché avere la dignità e l’onestà di riconoscere la drammatica verità emersa grazie al lavoro svolto dall’ultima commissione d’inchiesta della camera dei deputati? Perché tanta omertà?

Appena qualche giorno fa Gregorio Piccin su il manifesto ha riportato un dato del Sipri che mi ha profondamente colpito. L’autorevole istituto di Stoccolma, non Putin o Xi Jimping, sostiene, in un suo studio pubblicato lo scorso dicembre, che l’80,4% del mercato mondiale di armi e sistemi d’arma sia controllato da multinazionali del blocco euro-atlantico, mentre Russia e Cina si spartiscono il rimanente 19,6%. Lo studio riferisce inoltre che è sempre il blocco euro-atlantico quello maggiormente responsabile della così detta «internazionalizzazione» dell’industria bellica, cioè del coinvolgimento diretto di decine di Paesi nella filiera produttiva delle armi.

E questo, lo sappiamo, non per uno spirito di condivisione dei brevetti (basti vedere la squallida figura che Usa e Ue hanno recentemente fatto al Wto difendendo la proprietà intellettuale delle multinazionali farmaceutiche) ma in cambio di commesse militari, accordi strategici, rifornimenti di petrolio e gas.

In quel 80,4% c’è lo spregevole export, anche italiano, verso Paesi come Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti di cui si è parlato anche nella puntata di «Presa Diretta», ma c’è soprattutto il livello di riarmo interno.

IL MASSICCIO export di armi verso questi Paesi (per i quali i miei colleghi di partito e i loro omologhi del club Nato non esprimono alcuna riserva rispetto alla violazione dei diritti umani) è solo una conseguenza del riarmo complessivo del blocco euro-atlantico. Il vero problema non è l’export in sé. Il vero problema è che mentre l’occidente, da una parte, traina e rilancia la corsa agli armamenti in chiave globale, dall’altra continua minaccioso a puntare l’indice accusatorio verso altre realtà statuali, col classico sistema «due pesi e due misure».

Io credo che anche il Pd debba convincersi che non sia più praticabile l’esercizio della civilizzazione del mondo, col sistema delle bombe e delle invasioni. E credo che la Storia ci stia già dando conto della nostra attitudine al fariseismo.

Penso che l’Italia, partendo dal ricorso ad un laico «supplemento d’anima», debba mettere in campo una urgente transizione etica ed ecologica, per occuparsi della sicurezza, della giustizia sociale e dei diritti umani. E farsi promotrice di concrete politiche di disarmo, distensione, pace e collaborazione tra i popoli. Non credo che esistano altre opzioni.

* Ex Parlamentare PD, già Presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta sugli effetti dell'utilizzo dell'uranio impoverito

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Ambiente. Dopo il Green New Deal americano, ora vessillo dei liberal, anche la Commissione Europea ha proposto, per la nuova strategia di crescita, uno European Green Deal. In gioco due presupposti del modello di sviluppo capitalistico: la disponibilità illimitata delle risorse naturali «non riproducibili» e il mercato come guida e regolatore

Un'opera di Levalet

Dopo il Green New Deal americano, ora vessillo dei liberal, anche la Commissione Europea ha proposto uno European Green Deal. È di due giorni fa la proposta europea di un Global Green Deal, con il lancio dell’evento «Investing in climate action». La nuova strategia di crescita vuole «trasformare l’Ue in una società più giusta e prospera guidando la transizione verso un’economia competitiva più efficiente nell’uso delle risorse». Eppure, in molti lo dicono già da tempo, bisogna separare crescita economica e uso delle risorse.

La crescita, per come viene calcolata, concerne l’incremento del prodotto (PIL) ossia l’aumento del valore del volume della produzione. Ciò che si vorrebbe con il Green Deal europeo è un aumento del prodotto che utilizzi meno risorse per produrre energia, ma non meno risorse per produrre di più. Si continua, infatti, a parlare di «crescita».

Un problema è che la produzione di energia – e di beni – genera, con le tecnologie oggi in uso, «gas serra», che sono responsabili del cambiamento climatico. Certo, l’energia può essere ottenuta in modo «pulito», limitando l’emissione di gas serra, anche se convertire tutta la produzione di energia non sarà cosa semplice. Tuttavia, se continuiamo a parlare di crescita e, dunque, di uso continuato di sempre più risorse, un altro problema si pone. Perché il cambiamento climatico è solo uno dei drammi che abbiamo di fronte e il degrado della biosfera è più complesso e «irreversibile». O si trova il modo di continuare ad estrarre risorse dalla biosfera senza alterarla o si va verso l’estinzione.

L’economia «circolare» con il riutilizzo di risorse su cui è basata, può essere una via, più o meno sofisticata. Gli eco-sistemi degradati possono essere recuperati, la biodiversità può essere preservata o ripristinata. Ma un cambio di passo è necessario ed è qui che la questione diventa politica. Oggi la questione ambientale è rivoluzionaria perché i mutamenti che la sua soluzione presuppone sono radicali e chiamano in causa alla radice il modello di sviluppo capitalistico e si deve essere conseguenti.

Non si tratta di mettere in discussione il perseguimento del profitto o la proprietà privata del capitale, ma di questionare due presupposti che reggono il modello di sviluppo capitalistico: la disponibilità illimitata delle risorse naturali «non riproducibili» e l’assunzione del mercato come guida, meccanismo regolatore.

Le risorse naturali non esistono «per essere sfruttate», la natura non è «a nostra disposizione». Ma la natura dovrebbe poter essere «utilizzata» solo nella misura in cui l’uso non la altera in modo irreversibile. Un tal principio può solo essere «imposto». A chi obietta che non abbiamo un governo globale in grado di imporre principi di questo genere, si potrebbe ribattere che oggi la questione ambientale è già diventata una questione di «salute pubblica» e se siamo stati in grado di «fermare il mondo» e imporre generalizzate misure di contenimento nel caso della pandemia, dovremmo certamente essere capaci di farlo nel caso dell’ambiente, visto che gli effetti del degrado ambientale sono e saranno molto più catastrofici di quelli della pandemia.

Il secondo presupposto riguarda il mercato, che non è in grado di offrire un punto d’incontro tra domanda e offerta sempre e comunque. La natura è un bene comune. Fintantoché non imponiamo regole, limiti, vincoli, non ne usciremo. Se la deforestazione a scopo produttivo non viene «punita», ad esempio con un prezzo imposto enormemente alto, si continuerà a deforestare.

La sinistra è notevolmente spaesata di fronte a tutto questo. Oscillando tra un atteggiamento «produttivista» che si preoccupa dei posti di lavoro che possono venire meno con meno crescita e un certo romanticismo ambientalista, non esce da una logica di mercato, non mette più in discussione il modello.

Economia circolare, carbon tax, vincoli sull’uso delle risorse, tutto può contribuire. Cominciando da noi, qui e ora: dalle città, dai trasporti, dagli usi alimentari. Limitando (vietando) l’uso delle auto nei centri urbani, proponendo il trasporto pubblico generalizzato, con la moltiplicazione dei mezzi pubblici. Investendo sulla rotaia e limitando quanto più possibile il trasporto su gomma. Incentivando il «chilometro zero», la produzione agricola e alimentare non a fini capitalistici e disincentivando (tassando) il consumo di prodotti ottenuti solo seguendo la logica del profitto: se profitto deve essere, che abbia tra i suoi costi quelli ambientali. Dobbiamo ridefinire i nostri stili di vita.

La transizione ecologica deve essere radicale e per questo non può essere che rivoluzionaria. Ma dovrà essere la sinistra che se ne fa carico, perché non sarà il capitalismo liberale a cambiare i suoi principi contabili e le sue logiche per rispondere a un principio di equità.

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Intervista ad Andrea Fortini in rappresentanza dei Giovani Democratici di Faenza in merito alla petizione per garantire i diritti de* figl* di coppie gay


https://www.facebook.com/gdfaenza/posts/2854620691461489


Link alla raccolta firme: http://chng.it/nFDY9LLZWS 

 

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Sono stati giorni di confronti per gli aderenti al movimento Fridays for Future. Negli ultimi giorni infatti si è tenuta, online, un’assemblea a cui hanno partecipato sia il gruppo organizzativo di Faenza, sia il gruppo organizzativo di Ravenna, sia l’associazione Extreme Rebellion manfreda. Sabato invece, sempre online, si è tenuto un convegno sui canali social Facebook e YouTube di Legambiente Emilia-Romagna e Rete Emergenza Climatica ed Ambientale Emilia-Romagna dedicato alla transizione energetica. Una giornata di approfondimento sul progetto di Carbon Capture and Storage che Eni vuole proporre a Ravenna, ma anche un momento di dibattito pubblico sul futuro del distretto ravennate.
Dopo i due appuntamenti, Fridays for Future Faenza ha diffuso una nota stampa per sottolineare i futuri impegni a favore dell’ambiente e del clima:

“In occasione dello sciopero per il clima avvenuto il 19 Marzo, abbiamo partecipato a un incontro come Fridays For Future Faenza insieme a Fridays For Future Ravenna e Extreme Rebellin Faenza, per parlare di diverse tematiche. Ci siamo confrontati sull’infruttuosità e pericolosità del CCS in progetto a Ravenna, per cui segnaliamo la campagna “NOCCS – IL FUTURO NON SI STOCCA”, in quanto non è possibile che siano previsti 2 miliardi di euro di investimenti da parte di una società controllata dallo Stato con partecipazione di Mef e Cdp, per un progetto che favorirà la continua estrazione di metano, quando piuttosto che polarizzare il dibattito sul fatto che moltissimo del gas utilizzato viene importato, si potrebbero investire, con una strategia di programmazione coordinata con lo Stato, quei soldi in progetti per risorse rinnovabili, che stanno diventando sempre più economiche ed efficienti, ma il problema è il core-business di Eni, come tutti ben sappiamo. Un conflitto tra soldi pubblici e interessi privati palese ma che vuol essere mascherato con grandi opere inutili e poco efficaci per contrastare l’emissioni climalteranti. Abbiamo affrontato con Extreme Rebellion il tema dei finanziamenti delle banche e assicurazioni al mondo del carbon-fossile, dove sono coinvolte le maggiori istituzioni aziendali e bancarie dell’Italia come Intesa San Paolo e Unicredit che sono responsabili dell’80% dell’emissioni finanziate dalla banche in Italia, o come Generali Assicurazioni che oltre a investire nelle società fossili, fornisce anche coperture assicurative ai loro progetti, come nel caso delle centrali a carbone della polacca PGE e la Ceca CEZ. Questi grossi istituti si ostinano a destinare miliardi a quel mondo industriale da riconvertire e trasformare verso la transizione ecologica. Infine una nostra attivista ha parlato dei servizi ecosistemi che la natura offre all’uomo e quanto sia importante mantenere l’integrità degli ecosistemi per l’approvvigionamento alimentare, per la riduzione della CO2, per la qualità dell’aria e per il benessere esistenziale delle persone, portando esempi locali come il Fiume Lamone a Faenza, il Parco Bucci, la Punta degli Orti e l’area di Castel Raniero con la sua colonia e il sentiero escursionistico 505.

Come Fridays for Future Faenza ci stiamo muovendo per fare iniziative organizzate con altre associazioni come la raccolta rifiuti in zone sensibili per la città ad esempio all’Olmatello, piantumazione di alberi e approfondimento con la cittadinanza dei progetti Life.

Sul fronte nazionale ribadiamo comunque la necessità di un impegno forte e deciso sugli investimenti del NextGeneration Eu nella sostenibilità, evitando qualsiasi inserimento di progetto inutili come il CCS nella destinazione dei fondi e rimandiamo alla campagna nazionale di Fridays for Future Italia https://ritornoalfuturo.org/le-proposte/ per approfondire sulle proposte, costruite con scienziati, attivisti e tecnici, da attuare nei prossimi 10 anni verso una decarbonizzazione più veloce rispetto agli obiettivi europei, per cui come Fridays for Future stiamo lavorando, diffondendo la petizione popolare europea per chiedere una riduzione dell’80% delle emissioni climalteranti entro il 2030 e un azzeramento di essere entro il 2025, firmate! https://eci.fridaysforfuture.org/it/

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