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Ambiente. Dopo il Green New Deal americano, ora vessillo dei liberal, anche la Commissione Europea ha proposto, per la nuova strategia di crescita, uno European Green Deal. In gioco due presupposti del modello di sviluppo capitalistico: la disponibilità illimitata delle risorse naturali «non riproducibili» e il mercato come guida e regolatore

Un'opera di Levalet

Dopo il Green New Deal americano, ora vessillo dei liberal, anche la Commissione Europea ha proposto uno European Green Deal. È di due giorni fa la proposta europea di un Global Green Deal, con il lancio dell’evento «Investing in climate action». La nuova strategia di crescita vuole «trasformare l’Ue in una società più giusta e prospera guidando la transizione verso un’economia competitiva più efficiente nell’uso delle risorse». Eppure, in molti lo dicono già da tempo, bisogna separare crescita economica e uso delle risorse.

La crescita, per come viene calcolata, concerne l’incremento del prodotto (PIL) ossia l’aumento del valore del volume della produzione. Ciò che si vorrebbe con il Green Deal europeo è un aumento del prodotto che utilizzi meno risorse per produrre energia, ma non meno risorse per produrre di più. Si continua, infatti, a parlare di «crescita».

Un problema è che la produzione di energia – e di beni – genera, con le tecnologie oggi in uso, «gas serra», che sono responsabili del cambiamento climatico. Certo, l’energia può essere ottenuta in modo «pulito», limitando l’emissione di gas serra, anche se convertire tutta la produzione di energia non sarà cosa semplice. Tuttavia, se continuiamo a parlare di crescita e, dunque, di uso continuato di sempre più risorse, un altro problema si pone. Perché il cambiamento climatico è solo uno dei drammi che abbiamo di fronte e il degrado della biosfera è più complesso e «irreversibile». O si trova il modo di continuare ad estrarre risorse dalla biosfera senza alterarla o si va verso l’estinzione.

L’economia «circolare» con il riutilizzo di risorse su cui è basata, può essere una via, più o meno sofisticata. Gli eco-sistemi degradati possono essere recuperati, la biodiversità può essere preservata o ripristinata. Ma un cambio di passo è necessario ed è qui che la questione diventa politica. Oggi la questione ambientale è rivoluzionaria perché i mutamenti che la sua soluzione presuppone sono radicali e chiamano in causa alla radice il modello di sviluppo capitalistico e si deve essere conseguenti.

Non si tratta di mettere in discussione il perseguimento del profitto o la proprietà privata del capitale, ma di questionare due presupposti che reggono il modello di sviluppo capitalistico: la disponibilità illimitata delle risorse naturali «non riproducibili» e l’assunzione del mercato come guida, meccanismo regolatore.

Le risorse naturali non esistono «per essere sfruttate», la natura non è «a nostra disposizione». Ma la natura dovrebbe poter essere «utilizzata» solo nella misura in cui l’uso non la altera in modo irreversibile. Un tal principio può solo essere «imposto». A chi obietta che non abbiamo un governo globale in grado di imporre principi di questo genere, si potrebbe ribattere che oggi la questione ambientale è già diventata una questione di «salute pubblica» e se siamo stati in grado di «fermare il mondo» e imporre generalizzate misure di contenimento nel caso della pandemia, dovremmo certamente essere capaci di farlo nel caso dell’ambiente, visto che gli effetti del degrado ambientale sono e saranno molto più catastrofici di quelli della pandemia.

Il secondo presupposto riguarda il mercato, che non è in grado di offrire un punto d’incontro tra domanda e offerta sempre e comunque. La natura è un bene comune. Fintantoché non imponiamo regole, limiti, vincoli, non ne usciremo. Se la deforestazione a scopo produttivo non viene «punita», ad esempio con un prezzo imposto enormemente alto, si continuerà a deforestare.

La sinistra è notevolmente spaesata di fronte a tutto questo. Oscillando tra un atteggiamento «produttivista» che si preoccupa dei posti di lavoro che possono venire meno con meno crescita e un certo romanticismo ambientalista, non esce da una logica di mercato, non mette più in discussione il modello.

Economia circolare, carbon tax, vincoli sull’uso delle risorse, tutto può contribuire. Cominciando da noi, qui e ora: dalle città, dai trasporti, dagli usi alimentari. Limitando (vietando) l’uso delle auto nei centri urbani, proponendo il trasporto pubblico generalizzato, con la moltiplicazione dei mezzi pubblici. Investendo sulla rotaia e limitando quanto più possibile il trasporto su gomma. Incentivando il «chilometro zero», la produzione agricola e alimentare non a fini capitalistici e disincentivando (tassando) il consumo di prodotti ottenuti solo seguendo la logica del profitto: se profitto deve essere, che abbia tra i suoi costi quelli ambientali. Dobbiamo ridefinire i nostri stili di vita.

La transizione ecologica deve essere radicale e per questo non può essere che rivoluzionaria. Ma dovrà essere la sinistra che se ne fa carico, perché non sarà il capitalismo liberale a cambiare i suoi principi contabili e le sue logiche per rispondere a un principio di equità.