La giornata delle montagne russe per il Pd finisce in picchiata, con il partito a un passo da una nuova scissione. Marco Minniti ritira la candidatura alle primari. In serata la conferma ufficiale non arriva ma filtra la notizia di una sua arrabbiatura monumentale. E di un’intervista a Repubblica che stamattina darà l’annuncio del fine corsa.
Ma non poteva finire diversamente. Lo si capisce dalla mattina. Quando, dinanzi alle notizie dei quotidiani sul ripensamento di Minniti provocato dal plateale lavorìo scissionista dell’ex segretario, Renzi replica secco: «Come sapete non mi occupo del congresso». Nessuna smentita della prossima fuoriuscita, con l’atteggiamento strafottente di sempre. Del resto Renzi non può negare nulla: in quel momento è a Bruxelles dove incontra, non a nome del Pd, i suoi eurodeputati e tesse la tela delle relazioni: incontra Juncker, gli olandesi Vestager e Timmermans, Moscovici.
Anche Minniti non ha un buon carattere, specie quando capisce di essere stato preso per il naso dall’inizio: ha creduto di utilizzare i voti dei renziani prendendo le distanze da Renzi; ha creduto che i territori erano pronti a raccogliere le firme per la sua candidatura e invece non si muove nessuno. Ha creduto troppe cose platealmente false, per accorgersene sarebbe bastato mettere il naso fuori dal cerchia dei fedelissimi. Adesso, con Renzi che brutalmente scopre le carte, la figuraccia è irrecuperabile.
A chi glielo chiede l’ex ministro oppone una lombosciatalgia come causa del suo stop agli impegni di partito. Ma nel primo pomeriggio convoca alla camera le due «colombe» renziane Lorenzo Guerini e Luca Lotti, che pure hanno fatto di tutto per tenere in piedi la sua candidatura. Ai due consegna un documento da far sottoscrivere a tutti i parlamentari: è un impegno a non uscire dal Pd. La riunione si stoppa, i due devono parlare con Renzi.
A questo punto c’è anche un giallo. Circola in rete un’agenzia Ansa con l’appuntamento per una conferenza stampa convocata da Minniti alle 18 e 30 per annunciare il ritiro.E’ falsa, ma è esattamente quello che serve a chi vuol far precipitare la situazione, fabbricata da una manina che ha capito tutto e dà così l’ultima spinta. Minniti si attacca al telefono per smentire, è caccia alla «fonte». Ma ormai siamo su un piano inclinato.
Intanto arriva la risposta da Bruxelles. È un «niet». I due luogotenenti tornano al tavolo. Il sostegno a Minniti è assicurato. Ma nessuno firmerà il documento. E dai renziani ormai filtra l’insofferenza: «La richiesta di firmare un impegno a non uscire dal Pd è offensiva, è chiaramente un pretesto». Minniti capisce di essersi infilato in un tunnel, prova a chiedere la firma di almeno una trentina di renziani, tanto per. Ma il «niet» di Renzi è diventato uno sfottò. «A questo punto la scelta spetta a lui», spiegano. Voleva un braccio di ferro, lo ha perso. All’ex ministro non resta che la ritirata ingloriosa. Lui che si è vantato di trattare con i banditi libici. Lui che si è trovato a faccia a faccia con Gheddafi. Lui che nell’estate del ’17 si è autodirottato l’aereo per tornare a Roma e difendere l’Italia dal rischio di una «rottura democratica». È finito nel sacco di Renzi come una delle sue tante vittime politiche, da Enrico Letta in avanti. In serata Nicola Zingaretti lancia l’allarme: «Basta con questo gioco al massacro, non è il momento di picconare e dividere». Lo spettro di una vittoria su un partito scassato non è certo una buona notizia per lui. L’ultimo sondaggio, lo leggete qui accanto, dà il presidente del Lazio al doppio delle preferenze di Minniti. L’ex ministro vedeva ormai consolidarsi le cifre della sconfitta. Ora bisognerà capire se i suoi voti si riverseranno su Martina. Difficile. I renziani già avvertono: «Sarà un congresso monco». Renzi si è fabbricato l’alibi per uscire dal Pd. Spaccando tutto.