Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Governo e opposizione (di piazza). Quella di Torino è l'opposizione migliore perché trasversale, frequentata da giovani e vecchi, alimentata da una lunga lotta, nutrita non dalla chiusura nella piccola valle ma dalla continua raccolta di studi e da uno sguardo lungo sul mondo che brucia il pianeta a colpi di Pil

Almeno in piazza l’opposizione c’è, è forte e si fa sentire. È la Torino dei No Tav, quella che ha studiato e capito i costi, ambientali e materiali, di un’opera che per il solo fatto di essere stata progettata trent’anni fa andrebbe messa in una vetrina di modernariato.

È l’opposizione migliore perché trasversale, frequentata da giovani e vecchi, alimentata da una lunga lotta, nutrita non dalla chiusura nella piccola valle ma dalla continua raccolta di studi e da uno sguardo lungo sul mondo che brucia il pianeta a colpi di Pil.

Grillo non c’è andato e i pentastellati (che invece dovrebbero difendere con forza una loro storica battaglia) erano presenti in pochi insieme ai sindaci, ai gonfaloni e alle forze della sinistra. Un fronte largo, con le idee chiare e, soprattutto, con una radicata convinzione riassunta nello slogan «noi c’eravamo, ci siamo e ci saremo».

Il partito del Pil, che proprio a Torino aveva aperto le danze (e le prime pagine di molti giornali), prima con la manifestazione dei Sì Tav e poi con il grido di dolore della Confindustria, idealmente ieri era in un’altra piazza, una delle più belle di Roma, Piazza del Popolo organizzata per dare la parola al grande capo Salvini pronto a snocciolare tutto l’armamentario (papà, mamma, crocifisso, presepe e scendi dalle stelle compreso).

Una piazza piena che di fronte a un grande palco ha applaudito i ministri leghisti e poi il leader che tra il «buon dio» e il «buon senso» (le parole più citate) ha fatto esercizio di umiltà chiedendo al popolo di amarlo con tutti i suoi difetti, naturalmente dopo aver elencato le meraviglie del governo.

Forse ha qualche buona ragione il presidente del Piemonte Chiamparino nel dire che ieri a Torino e a Roma è andata in scena una parte del governo contro l’altra. In parte è vero, ma avrebbe dovuto aggiungere che, proprio a guardare i contenuti di quelle piazze, da una parte c’era la sinistra e dall’altra la destra.

Commenta (0 Commenti)

Intervista. «Dire no al Tav non significa dire no alle grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria. Sostenuta, tra l’altro, con calcoli fallaci»

Dire no al Tav significa dire molti sì. «Dalla urgente messa in sicurezza di un territorio fragilissimo alla visione, mancante, dell’Italia del futuro, come grande protagonista europea». Lo sostiene Salvatore Settis, storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa, autore di alcuni capisaldi sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, già enunciata dall’articolo 9 della Costituzione. Da Italia S.p.A.: l’assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002) a Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2012).

Professor Settis, in un intervento del 2012, descrisse l’Italia come vittima e ostaggio, da decenni, di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. È ancora così?

Per il solo fatto che non sia cambiata è peggiorata, non vedo indizi del cambiamento di cui si parla tanto. Non dico e mai ho detto che non si debbano fare grandi opere ma bisogna controllarle una a una. E, ripeto, che l’opera cruciale e prioritaria è la messa in sicurezza del territorio, iniziativa che darebbe molto lavoro a imprese e a singoli cittadini.

È giunto il tempo di contestare «la retorica della crescita senza fine»?

È stata contraddetta da eventi cruciali del nostro tempo. L’attuale presidente degli Stati Uniti la predica, riducendo l’estensione dei parchi nazionali, e sostiene che non ci siano cambiamenti climatici; basta vedere il clima di oggi a Roma per contraddirlo. Purtroppo prosegue una logica di rapina nei confronti del territorio. Si dovrebbe ricordare una saggezza comune in molte civiltà che afferma che noi siamo i custodi e non i padroni della Terra. E lo siamo in funzione delle prossime generazioni. Quindi non dovremmo ragionare sul domani ma sull’eredità del mondo che vogliamo lasciare ai figli dei nostri figli.

Perché, alla luce di tutto ciò, pensa che la Torino-Lione sia inutile?

Da cittadino, ho letto una quantità impressionante di documenti di diverso segno. Per prima cosa, rispetto a quanto pensano in molti, si tratta di una linea rivolta alle merci e non ai passeggeri. Inoltre, i calcoli fatti all’epoca risultano, a distanza di anni, fallaci: tutto è cambiato, anche la tecnologia. Recandomi sul posto, in Val di Susa, ho, poi, potuto constatare come ci siano forze dell’esercito che insistano su zone archeologiche con scarso rispetto delle stesse. Questa vicenda è diventata uno scontro ideologico. Dire no al Tav non significa dire no a grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, consacrato da un accordo politico bipartisan quasi quindici anni fa prevede tra le misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica prevede espressamente «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate». Come mai questi principi non trovano applicazione?

Purtroppo nella tradizione giuridica italiana è capitato di scrivere leggi molto belle ma anche di aggirarle. Il codice fu promosso da Urbani, poi migliorato con Buttiglione e Rutelli e indebolito da alcune piccole correzioni del governo Renzi che hanno tolto pietra a questo edificio di difesa dei beni culturali. Solo tre Regioni hanno elaborato il piano paesaggistico (Toscana, Puglia e, in parte, Piemonte), lo Stato non ha esercitato il potere sostitutivo, anzi le riforme di Franceschini hanno depotenziato le Soprintendenze. Un governo che si definisce del cambiamento dovrebbe dare un segno opposto, il ministro Bonisoli si è dimostrato sensibile all’argomento ma per ora non c’è stato nulla di concreto.

Si aspettava questo atteggiamento ben più che ondivago da parte del M5s al governo nei confronti del tema grandi opere?

Me l’aspettavo da questo governo, essendo un ibrido, un coacervo di due partiti che si sono combattuti in campagna elettorale e che ora insieme nei primi sei mesi hanno prodotto molte meno leggi di tanti altri esecutivi. Non mi aspetto nulla di buono dalla consociazione di entità così diverse: da un lato i Cinque stelle più lontani dai compromessi col passato ma ingenui, dall’altro la Lega al governo con Berlusconi per decenni.

Cosa pensa della levata di scudi pro Tav che protagonista il cosiddetto «partito del Pil», come è stata definita l’assise di imprenditori riunitisi a Torino?

Non conosco queste persone, le loro ragioni possono essere molto diverse. Sono preoccupati di interrompere un processo che coinvolgerebbe tante imprese, ma la vera risposta è dire no a qualcosa e sì a qualcos’altro. Sono stati, infatti, fatti conti su quanto tanto costi allo Stato la mancanza di prevenzione e quanto converrebbe mettere in sicurezza il territorio. Per farlo si potrebbero spendere i soldi per il Tav.

L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Come può venire in appoggio alla mobilitazione No Tav?

La Costituzione afferma che la tutela deve essere identica in qualsiasi centimetro dell’Italia. Dovremmo vergognarci di quanto poco è stata attuata e quanto grave sia che i partiti che sono stati al governo non abbiano fatto dell’articolo 9 la propria bandiera.

Quanto è importante la manifestazione dell’8 dicembre a Torino?

Dipende da come si svolgerà e da quanta gente ci sarà, da come i giornali ne parleranno. Mi stupisce, però, che quel poco che resta della sinistra in Italia non sia riuscito a utilizzare i media e i social per costruire una piattaforma in cui i cittadini, per esempio, di Trapani capiscano che le loro battaglie sono simili a quelle di Mestre. Se no le lotte politiche tenderanno a essere sempre locali. Abbiamo bisogno di afflato nazionale.

Commenta (0 Commenti)

Ho partecipato sabato 1° dicembre all’assise promossa dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris e sono tornato rinfrancato dalla bella e numerosa partecipazione. La platea e le gallerie del teatro erano piene all’inverosimile e molte persone hanno dovuto rinunciare a entrare. Un buon segno! Gli interventi aperti da Enrico Panini, autorevole esponente della giunta e responsabile nazionale del movimento DemA, sono stati svolti da rappresentanti del variegato mondo dell’associazionismo, del volontariato, delle esperienze civiche, da sindaci in prima linea nella lotta alle mafie e per la solidarietà. Insomma l’Italia che resiste esiste ed è molto più grande e articolata di quel che si può credere, dato il clima di silenzio e ostilità che impera nei media ai tempi di Matteo Salvini (e non solo da ora).

La mattinata è volata veloce anche perché la regia accorta ha saputo far mantenere gli interventi nei cinque minuti, cosicché siamo arrivati alla fine avendo ascoltato tanti spunti interessanti e nient’affatto ripetitivi o rituali, come purtroppo non poche volte è accaduto, proprio perché la selezione degli invitati sul palco è stata articolata e innovativa. Alla fine il “leone” di Napoli ha ruggito. Non lo dico per sfottere, ma perché veramente Luigi de Magistris è animato da una tale passione politica che non si può restare indifferenti. I suoi interventi sono caratterizzati da una fortissima tensione morale e dalla ricerca di una coerente visione politica. In primo luogo per rappresentare la straordinaria esperienza di governo della sua città, tanto difficile e inguaiata per i problemi accumulati nei secoli e negli ultimi lustri che non si può non considerare come un successo essere riuscito a non farla deragliare finora, segnando punti molto importanti nell’azione e nell’innovazione di governo che ha orgogliosamente rivendicato.

Agli altri poi non le manda a dire, de Magistris, non risparmia critiche e attacchi a queste destre insorgenti. Non ci sono mezze misure rispetto ai diritti dei migranti: o si sta con la solidarietà e l’accoglienza o contro. Questo è un toccasana per il rischio oggi molto presente di sofistiche distinzioni sulle quali è stata costruita la storica sconfitta del 4 marzo. Così come il j’accuse ai Cinquestelle, oggi alleati della peggiore destra d’Europa e anche in posizione di supino accodamento: l’incoerenza che stanno dimostrando su questioni fondamentali come le controverse grandi opere e i voltafaccia verso i movimenti che hanno determinato i loro maggiori successi sono elencati a uno a uno, senza risparmiare niente. Insomma è lotta dura per evitare il peggio della deriva che questo governo ci sta propinando, e anche critica netta e senza sconti alle ambiguità del Pd, oggi in fase di preliquidazione per sua esclusiva responsabilità.

Questa elementare esigenza di fare chiarezza e costruire un “fronte ampio” per risalire la china, in un contesto molto difficile, è ben chiaro a de Magistris e alla platea. In uno stato emotivo di fiduciosa sospensione, la domanda intrinseca è: ce la faremo? E qui si coglie il dilemma politico vero e non ancora volutamente e realisticamente risolto da de Magistris. Infatti non c’è una proposta definita, in particolare per le elezioni europee, e nemmeno per altri futuri appuntamenti ci sono proclami. La partita è estremamente difficile e tutta da inventare: siamo passati attraverso troppe cocenti delusioni e soprattutto divisioni, che sono la cifra drammatica di una sinistra ormai quasi totalmente espunta dal panorama politico nazionale.

C’è da ritessere una tela strappata, partendo dalla realtà di tutti i giorni, riguadagnando la fiducia di una società sfiduciata e frammentata, incantata dalle sirene del populismo e di promesse elettorali che forse non si potranno mantenere ma che creano una grande dipendenza proprio da parte di quelle fasce sociali che la sinistra dovrebbe coerentemente rappresentare, che sono state invece abbandonate al loro destino.

Non sappiamo se questo progetto potrà veramente decollare: dipende da molti fattori e soprattutto se si innescherà fertilmente anche nei territori, nei luoghi di lavoro, al Nord come al Sud, perché è certo che non può restare un movimento forte solo in alcune realtà per quanto importanti. L’Italia ha bisogno di una sinistra che sappia esprimere tutta l’articolata diversità delle tante situazioni e culture: quel che i grandi partiti del Novecento, tanto vituperati, sapevano comunque rappresentare. Così come lo sguardo all’Europa non può essere legato solo all’imminente scadenza elettorale, semmai al contrario dev’essere un altro elemento costituente di questo movimento. Oggi le destre si combattono innanzitutto sul fronte di un’Unione europea radicalmente rinnovata ma non nella direzione indicata dai populismi.

Siccome conosco de Magistris da molto tempo, da quando era ancora magistrato – ne ho seguito le vicende e apprezzato anche la coerente capacità evolutiva -, sono certo che la sua intelligenza lo guiderà, insieme ad altri che collaboreranno nella costruzione di un processo serio e partecipativo. Questo è il nostro augurio.

Commenta (0 Commenti)

Democrack/Primarie Pd. I renziani non firmano l’impegno a restare nel partito. Zingaretti: ora basta picconate

La giornata delle montagne russe per il Pd finisce in picchiata, con il partito a un passo da una nuova scissione. Marco Minniti ritira la candidatura alle primari. In serata la conferma ufficiale non arriva ma filtra la notizia di una sua arrabbiatura monumentale. E di un’intervista a Repubblica che stamattina darà l’annuncio del fine corsa.

Ma non poteva finire diversamente. Lo si capisce dalla mattina. Quando, dinanzi alle notizie dei quotidiani sul ripensamento di Minniti provocato dal plateale lavorìo scissionista dell’ex segretario, Renzi replica secco: «Come sapete non mi occupo del congresso». Nessuna smentita della prossima fuoriuscita, con l’atteggiamento strafottente di sempre. Del resto Renzi non può negare nulla: in quel momento è a Bruxelles dove incontra, non a nome del Pd, i suoi eurodeputati e tesse la tela delle relazioni: incontra Juncker, gli olandesi Vestager e Timmermans, Moscovici.

Anche Minniti non ha un buon carattere, specie quando capisce di essere stato preso per il naso dall’inizio: ha creduto di utilizzare i voti dei renziani prendendo le distanze da Renzi; ha creduto che i territori erano pronti a raccogliere le firme per la sua candidatura e invece non si muove nessuno. Ha creduto troppe cose platealmente false, per accorgersene sarebbe bastato mettere il naso fuori dal cerchia dei fedelissimi. Adesso, con Renzi che brutalmente scopre le carte, la figuraccia è irrecuperabile.

A chi glielo chiede l’ex ministro oppone una lombosciatalgia come causa del suo stop agli impegni di partito. Ma nel primo pomeriggio convoca alla camera le due «colombe» renziane Lorenzo Guerini e Luca Lotti, che pure hanno fatto di tutto per tenere in piedi la sua candidatura. Ai due consegna un documento da far sottoscrivere a tutti i parlamentari: è un impegno a non uscire dal Pd. La riunione si stoppa, i due devono parlare con Renzi.

A questo punto c’è anche un giallo. Circola in rete un’agenzia Ansa con l’appuntamento per una conferenza stampa convocata da Minniti alle 18 e 30 per annunciare il ritiro.E’ falsa, ma è esattamente quello che serve a chi vuol far precipitare la situazione, fabbricata da una manina che ha capito tutto e dà così l’ultima spinta. Minniti si attacca al telefono per smentire, è caccia alla «fonte». Ma ormai siamo su un piano inclinato.

Intanto arriva la risposta da Bruxelles. È un «niet». I due luogotenenti tornano al tavolo. Il sostegno a Minniti è assicurato. Ma nessuno firmerà il documento. E dai renziani ormai filtra l’insofferenza: «La richiesta di firmare un impegno a non uscire dal Pd è offensiva, è chiaramente un pretesto». Minniti capisce di essersi infilato in un tunnel, prova a chiedere la firma di almeno una trentina di renziani, tanto per. Ma il «niet» di Renzi è diventato uno sfottò. «A questo punto la scelta spetta a lui», spiegano. Voleva un braccio di ferro, lo ha perso. All’ex ministro non resta che la ritirata ingloriosa. Lui che si è vantato di trattare con i banditi libici. Lui che si è trovato a faccia a faccia con Gheddafi. Lui che nell’estate del ’17 si è autodirottato l’aereo per tornare a Roma e difendere l’Italia dal rischio di una «rottura democratica». È finito nel sacco di Renzi come una delle sue tante vittime politiche, da Enrico Letta in avanti. In serata Nicola Zingaretti lancia l’allarme: «Basta con questo gioco al massacro, non è il momento di picconare e dividere». Lo spettro di una vittoria su un partito scassato non è certo una buona notizia per lui. L’ultimo sondaggio, lo leggete qui accanto, dà il presidente del Lazio al doppio delle preferenze di Minniti. L’ex ministro vedeva ormai consolidarsi le cifre della sconfitta. Ora bisognerà capire se i suoi voti si riverseranno su Martina. Difficile. I renziani già avvertono: «Sarà un congresso monco». Renzi si è fabbricato l’alibi per uscire dal Pd. Spaccando tutto.

Commenta (0 Commenti)

Imma D’Amico dello sprar di Caserta. «Aumenterà la sfruttamento lavorativo, tempo un paio di mesi e avremo una bomba sociale da gestire. Chi aveva il permesso umanitario aveva il tempo per cercare di regolarizzare la propria posizione, passare da un lavoro in nero al contratto. Adesso ricadrà quasi certamente in circuiti illegali», spiegano dall’Ex Canapificio

 

«Che ci siano dei quattrini pubblici gestiti da chi occupò dei locali è una cosa bizzarra»: si tratta di uno dei tanti attacchi che il ministro Matteo Salvini ha rivolto ai ragazzi dell’Ex Canapificio di Caserta. Il titolare del Viminale non si è preso la briga di verificare che l’associazione ha un regolare contratto di comodato d’uso stipulato con la regione Campania. «I quattrini» derivano dall’aver vinto un bando pubblico per la gestione dello Sprar da 200 persone che è un modello in Italia. L’Ex Canapificio realizza «percorsi di inclusione sociale bilaterale»: i ragazzi prendono la licenza media e chi vuole prosegue gli studi, fanno tirocini formativi (il 20% ottiene un contratto a tempo indeterminato, la media italiana è del 6), gestiscono il Pedibus cioè accompagnano a piedi i bambini a scuola facendo lezioni di educazione civica. Il pomeriggio tengono corsi di inglese e francese gratuiti per le famiglie che non possono pagare il doposcuola, si occupano degli spazi pubblici abbandonati. Mimma D’Amico, a nome dell’Ex Canapificio, aveva chiesto a Salvini di non cancellare il permesso di soggiorno per motivi umanitari: «Sarà il caos in molte città».

D’Amico, come giudicate il dl Sicurezza?

Siamo abituati all’equazione immigrazione uguale problema di pubblica sicurezza, un’impostazione che il decreto voluto da Salvini cristallizza nella legge più razzista degli ultimi quindici anni. Ad esempio, prevedere l’espulsione per chi non ha il permesso di soggiorno come un automatismo, è un principio che c’era già nella Bossi-Fini che prevedeva l’espulsione con la cessazione del contratto di lavoro. Abbiamo già visto i centri di detenzione, a cui di volta in volta viene cambiato solo il nome, il trattenimento per l’identificazione fino a 180 giorni. Insomma nel dl Sicurezza ci sono principi vecchi, ma peggiorati. L’esperienza ci ha insegnato che questi strumenti creano solo disagio e paura tra i migranti accanto a un crescente senso di insicurezza nella popolazione.

Quali sono gli elementi che vi preoccupano di più?

Fino a oggi prefetture, comuni, Asl operavano sulla parte straordinaria dell’accoglienza avendo come orizzonte di riferimento gli Sprar. Adesso il sistema si scinde in due, quello che era straordinario, il Cas, prende il sopravvento offrendo per altro un’accoglienza ridotta al minimo. Così persino chi è vulnerabile finirà negli hotspot per mesi e poi nei Cas. L’Anci ha stimato che sui comuni ricadranno più di 200milioni di costi: i migranti, infatti, non spariscono ma verranno catapultati sui servizi sociali, senza alcun rimborso da parte dello stato per le amministrazioni locali.

Commenta (0 Commenti)

Luigi Di Maio ottiene il condono edilizio per Ischia e Matteo Salvini propone un inceneritore per provincia in Campania. Se il premier Conte rispolvera il ponte sullo Stretto di Messina il déjà-vu su quanto fatto e proposto dal Governo Berlusconi nei primi anni 2000 si completa.
A parte le battute, il dibattito tra le due forze di maggioranza su come chiudere il ciclo dei rifiuti in Campania è surreale. Il vicepremier leghista parla come se stessimo ancora nel pieno dell’emergenza campana di 15 anni fa.
Oggi questa regione ha una percentuale regionale di differenziata più alta di Toscana e Liguria, grazie ai Comuni ricicloni che premieremo giovedì prossimo a Salerno, come fatto negli ultimi 13 anni.
Hanno fatto bene i vertici M5S a picchiare duro contro Salvini. È stato correttamente ricordato quanto prevede il nuovo pacchetto di direttive europee sull’economia circolare approvato per archiviare progressivamente discariche e termovalorizzatori. Che è fondamentale promuovere politiche di prevenzione, a partire dalla tariffazione puntuale, e quelle di riuso. Che si deve organizzare la raccolta domiciliare in tutta Napoli (come fatto a Milano e come dovrebbe fare anche la giunta Raggi a Roma) e che bisogna puntare sul compostaggio per riciclare l’organico differenziato.
Tutto giusto. Ma su quest’ultimo punto dobbiamo squarciare un velo di ipocrisia che continuiamo a vedere nell’operato del Movimento 5 Stelle. Di quale compostaggio parliamo?
Di quello domestico o di comunità, fondamentali per le case isolate e per i piccoli Comuni nelle aree marginali, ma impossibile da praticare nei comuni medio grandi, nei capoluoghi di provincia e nelle metropoli? Il MoVimento se vuole rispondere in modo credibile all’ideologia inceneritorista di Matteo Salvini e a quella renziana dell’articolo 35 dello Sblocca Italia, deve dire esplicitamente che in tutto il Centro Sud Italia vanno costruite decine di impianti industriali per trattare l’organico differenziato, avversati sempre dai comitati cittadini, spesso appoggiati dal M5S locale.
E che la tecnologia più avanzata per produrre compost per terreni agricoli e florovivaistica è la digestione anaerobica che, al contrario del compostaggio tradizionale, produce biometano, fonte rinnovabile da utilizzare nell’autotrazione o da immettere nella rete del gas con cui cuciniamo in casa o produciamo calore per riscaldare gli edifici. Questa è l’unico recupero di energia che va promosso in Campania.
Questi impianti vanno pensati, progettati e realizzati bene, con processi partecipativi che coinvolgano le popolazioni locali, ma vanno fatti. L’alternativa sarà lo scenario attuale che vede l’organico differenziato raccolto nel centro sud andare negli impianti del nord, con grande felicità degli autotrasportatori.

* presidente nazionale di Legambiente

Commenta (0 Commenti)