PREMESSA
La Costituzione italiana ha previsto lo “stato di guerra” (art. 78) ma non ha previsto lo “stato di emergenza”: non si tratta di un vuoto costituzionale.
La ragione della sua esclusione, molto discussa e poi prevalsa in sede di Costituente, è stata quella di mantenere il principio di equilibrio tra i poteri ed evitare che in situazioni eccezionali previste dalla Costituzione si verificassero inevitabili abusi di potere e attribuzioni ad un solo organo costituzionale della decisione sulle procedure di urgenza.
Per queste ragioni venne deciso che andavano regolamentati (non l’emergenza ma) i poteri esercitabili dal Governo, sotto il controllo parlamentare, nei soli casi straordinari di necessità ed urgenza (art. 77 Cost.) e in seguito alla deliberazione (parlamentare) dello stato di guerra (art. 78 Cost.).
Lo “stato di emergenza” è previsto invece da una legge ordinaria – il D.Lgs. 2.1.2018 n. 1 detto “codice della protezione civile”, artt. 7, 1° comma lett. c) e 24, 1° comma – ma si tratta di stato di emergenza dovuto a terremoti, alluvioni ed altri eventi naturali, non ad ipotesi di pandemia virale quale quella in corso.
Naturalmente, l’assenza di una disciplina (costituzionale) non significa libertà normativa (soprattutto da parte del Governo, vista l’emergenza in atto), poiché in ogni caso la legislazione di emergenza deve rispettare la Costituzione italiana e i principi dell’UE (principio contenuto nell’art. 25 del D. Lgs. 1/2018).
LA NORMATIVA INTERVENUTA A SEGUITO DELL’EMERGENZA CORONAVIRUS
L’emergenza Covid-19 – chiamato Coronavirus – prende avvio dalla delibera del C.d.M. 31.1.2020 che ha dichiarato lo stato di emergenza in tutto il territorio nazionale per la durata di sei mesi: suo fondamento è l’art. 24 del D.Lgs. 1/2018 (codice della Protezione Civile)1 A seguito della delibera 31.1.2020 sono state emanate prima di tutto ordinanze del Ministero della Sanità (21.2.2020, 23.2.2020) – e ciò nel quadro della L. 833/1978 istitutiva del SSN che all’art. 32 prevede questo specifico potere in materia di igiene e sanità pubblica – con cui sono state poste limitazioni di circolazione nei primi comuni-focolaio (Codogno, Vò Euganeo), la sospensione delle attività scolastiche e la chiusura delle scuole, alcune misure di quarantena.
È stato quindi emanato dal governo il D.L. 23.2.2020 n. 6 (poi convertito in L. 5.3.2020 n. 13) che, su iniziativa del
Leggi tutto: Emergenza COVID-19 e Costituzione - di Silvia Manderino
Commenta (0 Commenti)Intervista a Maurizio Landini. Il segretario generale Cgil: «Il senso di responsabilità dei lavoratori ha tenuto in piedi il paese. Serve un reddito dignitoso per tutti e partecipazione alle scelte per un nuovo modello di sviluppo»
Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, negli ultimi tre mesi l’intero mondo è cambiato completamente, sconvolgendo per primo il mondo del lavoro. Quali elementi la colpiscono di più?
In generale le lavoratrici e i lavoratori con i loro comportamenti, la loro volontà, serietà abnegazione la loro solidarietà. E’ il lavoro che sconfiggerà il virus, ancora una volta il mondo del lavoro sta dimostrando una forza ed un senso di responsabilità generale che commuove ed inorgoglisce, perché sa prendersi cura dei problemi e dei bisogni delle persone. Allo stesso tempo emergono almeno tre cose su cui riflettere ed agire. E’ emerso in maniera palese come l’attuale modello di sviluppo non è più rispondente ai bisogni e alle necessità della grande maggioranza delle persone. Il virus ha svelato crudelmente in maniera molto più efficace di tante nostre critiche che uno sviluppo basato sulla finanza e sulla crescente diseguaglianza non è sostenibile né per l’uomo né per la natura. In secondo luogo mi ha colpito la fragilità del nostro sistema sociale e in particolare quello dell’assistenza delle persone. A iniziare dal sistema di sanità pubblico del nostro Paese, falcidiato da anni di tagli indiscriminati, e ora è chiaro a tutti che deve essere rafforzato ed esteso. E come tutto questo dimostri che il concetto di produttivo non si possa misurare solo con i bilanci e tanto meno con la logica del profitto: un sistema sanitario è produttivo quando garantisce la salute di tutti, non quando fa utili. E questa considerazione andrebbe estesa a tanti altri settori che servono a tutelare i diritti delle persone. In terzo luogo la conferma della centralità del lavoro e delle persone che lavorano. In Italia, a proposito di emergenza sanitaria, abbiamo retto e stiamo reggendo soprattutto grazie al sacrificio e alla professionalità delle lavoratrici e dei lavoratori del settore. Tutti: dai medici agli infermieri, dagli addetti alle pulizie a chi fa la manutenzione degli impianti. E spesso sono persone pagate poco e male o persino precarie, e stanno agli ultimi posti della piramide salariale e dei diritti. E’ una considerazione che va allargata a tante altre e a tanti altri: tutti dovrebbero aver capito che i cosiddetti “essenziali” su cui la società si basa per andare avanti sono spessissimo le persone più maltrattate e meno considerate. Una lezione da cui si dovrebbero trarre delle precise azioni, se ha un senso dire che “nulla potrà essere come prima”.
La crisi economica picchia già duro e lo farà a lungo. Come tutelare chi perde il lavoro e le nuove forme di povertà? Serve ripensare il sistema di ammortizzatori sociali creandone uno universale?
Assolutamente sì. Penso sia il momento di ripensare in modo profondo i meccanismi economici. Dal welfare al fisco, dalla sanità all’assistenza, dalla politica industriale alla tutela ambientale, dagli stili di vita allo spazio in cui abitiamo. E poi il lavoro. Nel confronto con il governo di queste settimane abbiamo ottenuto precise garanzie sugli ammortizzatori sociali, anche se per i lavoratori autonomi le misure non sono del tutto soddisfacenti. E’ chiaro che in prospettiva l’intero sistema degli ammortizzatori va rivisto sia per garantire un reddito dignitoso quando l’azienda si riorganizza, sia quando si perde il lavoro, sia quando lo si ricerca. E’ in ogni caso il tempo di un nuovo Statuto dei Diritti in capo alle persone che lavorano e non semplicemente legato al tipo di rapporto attivato. Il lavoro non può più essere considerato alla stregua di mero fattore della produzione, di un numero, di un costo sempre e comunque comprimibile. Va riconfigurato il diritti del lavoro, il diritto alla formazione permanente e il welfare per tutelare e promuovere le nuove condizioni che hanno prepotentemente posto globalizzazione e innovazione tecnologica. Credo che questa sia la strada per affrontare la deriva del lavoro povero e della povertà in generale.
Nell’abisso della pandemia due professioni diametralmente opposte hanno retto la società: da una parte il personale sanitario – medici, infermieri, addetti alle pulizie – dall’altra gli operatori della logistica, i rider e i driver che hanno permesso gli approvvigionamenti essenziali e la consegna a casa a chi non poteva uscire. Cosa si sente di dire a queste due categorie?
È vero, in queste settimane hanno fatto cose straordinarie con una dedizione, una passione, un attaccamento al loro lavoro senza paragoni. Spesso l’hanno fatto nonostante le difficoltà che molti ponevano, superando ostacoli, supplendo alle carenze dei decisori. Hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale. E con loro gli addetti della grande distribuzione, le forze di polizia, i lavoratori pubblici gli addetti al settore dei trasporti, a quelli dell’agroalimentare, e i tantissimi che in queste settimane hanno dato alla vita di tutti una parvenza di normalità. Credo che tutti noi dobbiamo ringraziare queste lavoratrici e questi lavoratori. Ma il modo più produttivo per farlo è riconoscere loro trattamenti più coerenti con la loro indispensabilità. Quello a cui dobbiamo puntare è l’eliminazione delle diseguaglianze a partire da quelle di chi sta facendo lo stesso lavoro o partecipando alla stessa filiera produttiva ma con trattamenti profondamente diversi a prescindere dalla professionalità. Bisogna riconsiderare tutto coinvolgendo l’intelligenza delle persone per decidere come si lavora e per fare che cosa. E’ l’unico modo per evitare i conflitti orizzontali e la concorrenza fra lavoratori, su cui, invece, si è basata finora l’organizzazione del lavoro e del sistema produttivo. E bisogna investire sul sistema pubblico a partire dalla sanità e dalla scuola.
Bisogna riconsiderare tutto coinvolgendo l’intelligenza delle persone per decidere come si lavora e per fare che cosa. E’ l’unico modo per evitare i conflitti orizzontali e la concorrenza fra lavoratori
C’è il rischio di una nuova frattura fra queste figure – le cosiddette front office, costrette a lavorare e a rischio – e chi può permettersi il telelavoro da casa senza rischi?
Se tutto rimarrà come prima il rischio può esserci. Io però non la vedo esattamente così. Anche chi a casa senza lavoro e senza reddito, con la paura di non averlo più, o chi lavora isolato con il pericolo di nuove privazioni e violazioni nei loro diritti, sta vivendo una condizione difficile. Credo che i lavoratori capiscano le condizioni degli uni e degli altri e che tra loro i vincoli di solidarietà siano molto più forti delle spinte di coloro che li vorrebbero divisi e soli. In ogni caso penso che questi temi devono essere affrontati e regolati nel rinnovo dei Contratti nazionali di lavoro.
Il sindacato ha dovuto mediare fra la fretta di Confindustria – con il nuovo presidente Bonomi – di riaprire a tutti i costi e la legittima volontà dei lavoratori di tornare a guadagnare pienamente rispetto alla cassa integrazione. Ci siete riusciti?
Il nostro primo e più importante obiettivo è stato quello di tutelare la salute di tutti i lavoratori che poi vuol dire tutelare tutti i cittadini. Questa la nostra priorità. È sbagliato contrapporre salute e lavoro, bisogna lavorare sicuri, punto. Il confronto con il sistema delle imprese è stato complesso ma costruttivo. Alla fine abbiamo concordato tra tutte le parti con il contributo e la firma anche del governo su un Protocollo condiviso di regole che sarà la bussola anche per il futuro all’insegna della priorità della salute e della sicurezza su qualunque altra logica. E’ un impianto condiviso da tutti che ha assunto dopo il Dpcm del presidente del consiglio un valore giuridico ed ora va fatto applicare. Noi insieme a Cisl e Uil sui luoghi di lavoro e sul territorio questo siamo impegnati a fare. La nostra seconda preoccupazione è stata quella di evitare i licenziamenti e continuare a dare a tutti un reddito. Abbiamo chiesto e ottenuto l’allargamento della Cig a tutti i settori e un’azione di sostegno ai lavoratori autonomi e alle partite Iva, oltre che alle fasce più deboli e più povere della popolazione. In terzo luogo abbiamo rivendicato con forza la necessità di sostenere le imprese dando liquidità alle aziende, così che potessero continuare a pagare i dipendenti e i fornitori e favorendo l’apertura di una linea di credito per le imprese a tassi bassissimi, se non a fondo perduto. Infine stiamo pretendendo di aprire una discussione ampia e approfondita sul futuro.
ll coronavirus si porta con sé inevitabilmente un nuovo modello di società e di produzione. Paradossalmente è quello che lei chiede da una decina d’anni.
Dovrebbe essere così, anche se non darei nulla per scontato. Si è detto che il virus inciderà profondamente nelle relazioni geo-politiche e geo-economiche, nell’economia, nella politica, negli aspetti più banali della società. Probabilmente inciderà anche sulle singole persone, sulla loro fiducia, sulla loro empatia, sui nostri comportamenti. Trovo un po’ assurdo, oltre che molto doloroso, che ciò emerga in maniera chiara per tutti in seguito ad una pandemia, avendo dovuto pagare un costo sociale e umano altissimo. A questo punto però dobbiamo essere conseguenti, anche perché riprodurre gli stessi schemi del passato, pensare di ripartire dove ci siamo fermati con la stessa “macchina” di prima sarebbe un errore imperdonabile. Dobbiamo ripensare l’intera organizzazione sociale del lavoro, cosa che detta così sembra un compito titanico ma che si affronta con alcuni passi precisi: la sicurezza e la salute delle persone al primo posto , il lavoro come valore, il pubblico come soggetto attivo del cambiamento, il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori nelle riconversioni ambientali delle produzioni e dell’organizzazione sociale. Per fare solo un esempio è chiaro che le opere pubbliche devono essere sempre più di manutenzione, del territorio come del patrimonio immobiliare, abbandonando una logica del consumo all’insegna del profitto e dello spreco. Ci batteremo per ridare valore al lavoro, perché i lavoratori contino di più nelle scelte, a tutti i livelli: internazionale, con il sindacato mondiale ed europeo; nazionale; nel sistema delle imprese; nelle singole aziende. Quella che abbiamo di fronte è una prospettiva politica, sindacale e culturale.
Altro effetto inaspettato della pandemia: la Fiom torna in Fca e lei loda pubblicamente l’atteggiamento dell’azienda. Siete cambiati più voi o è cambiata più l’ex Fiat in questi dieci anni?
La Fiat è diventata Fca, uno dei competitori internazionali nel settore dell’auto. In Fca la Fiom-Cgil ha firmato un accordo per la gestione dell’emergenza e per la ripartenza in sicurezza. Un accordo positivo nel merito e nel metodo che ha messo fine, spero definitivamente, alla stagione degli accordi separati. Di fronte all’emergenza Coronavirus e alla priorità di garantire la sicurezza delle persone che lavorano credo che tutti dobbiamo cambiare atteggiamento. Il merito di quell’accordo mi sembra in assoluta coerenza con i nostri valori e con le nostre pratiche di tutti questi anni. Ora credo che sia necessario andare avanti ed affrontare anche l’aspetto contrattuale di quella vicenda, comprese le scelte di politica industriale e occupazionale che il gruppo sta compiendo con la scelta di fondersi con Psa. Stiamo parlando di un’azienda e di un settore strategico per l’economia nazionale del nostro paese che deve coinvolgere anche il nostro governo. E’ la costruzione del nostro futuro che può offrire il terreno di una nuova azione comune.
Con Fca un accordo positivo nel merito e nel metodo che ha messo fine, spero definitivamente, alla stagione degli accordi separati
La pandemia costringerà anche il sindacato a dimenticare a lungo le piazze, almeno quelle piene a cui la Cgil e lei specialmente è molto legato. Come gestirete questa fase?
Discutere, riconoscersi, ritrovarsi, poter dire la propria, essere riconosciuti come interlocutori, poter votare liberamente sono valori fondamentali, sono la Democrazia. Sono sicuro che continueremo a trovare il modo di esercitare la nostra rappresentanza ed essere al servizio delle persone che per vivere devono lavorare anche se per qualche mese non potremo andare in piazza. Lo abbiamo fatto in queste terribili settimane che abbiamo alle spalle, le nostre sedi, quelle territoriali, delle categorie e dei servizi sono rimaste accessibili in tutti questi mesi anche per via telematica. Le nostre delegate e i nostri delegati e i tanti militanti dirigenti hanno continuato a esercitare la loro funzione e purtroppo alcuni di loro ci hanno lasciato nonostante avessero preso tutte le misure sanitarie prescritte dalle autorità. La Cgil è stata nel paese e insieme al Paese ha affrontato la pandemia. Siamo, insieme a Cisl e Uil, una parte essenziale della società. E continueremo ad esserlo con la presenza fisica, telematica e digitale. Sicuramente il sindacato dovrà trovare nuove forme di coinvolgimento e di decisione per superare i vincoli imposti dalla pandemia. Dovrà rapidamente abituarsi e imparare a usare le nuove tecnologie, con tutti i problemi che queste pongono, ma anche con le opportunità che offrono. Penso che dovremo saper incalzare le imprese e i decisori politici ad aprire nuovi modelli decisionali, dove i processi di formazione delle decisioni siano più democratici e più condivisi a tutti i livelli. Questo anche nel sindacato sia nei confronti dei propri iscritti, sia dei lavoratori. Sarà una fase di grande e spero utile sperimentazione di nuove forme di democrazia, solidarietà e partecipazione. “Insieme con giustizia” si può fare in tanti modi, importane è esserci per cambiare questo Paese. Sempre.
Commenta (0 Commenti)da "il Manifesto del 29 aprile 2020
Cei o ci fanno. Forse sarebbe più importante garantire oggi non tanto e non solo la ripresa delle attività lavorative a tutto campo, ma assicurare, come si sta faticosamente cercando di fare, un reddito di emergenza che aiuti ad affrontare la crisi
Il Nord immaginario in rivolta, le barricate di piazza annunciate, i vescovi all’attacco e in ritirata. E l’ospite fisso di ogni battaglia persa, Renzi che, incredibile ma vero, difende la Costituzione dal «dittatore» Conte. Leggendo i giornali a sospettare si fa peccato ma spesso ci si indovina.
Il fatto di non aver dato il permesso per celebrare messa, di non aver deciso di riaprire tutto e subito, avrebbe calpestato diritti e doveri.
In sostanza Conte avrebbe dovuto preoccuparsi meno della salute, pubblica e privata, per riaccendere i motori dell’economia, riaprire le scuole, le chiese e i negozi di parrucchiere.
A dimostrazione di questa irresponsabile e strumentale tesi vengono messi in gran risalto gli esempi di quei governi, Germania, Spagna, Francia che invece sono stati di manica larga e hanno accentuato le riaperture nei loro paesi. Salvini, Meloni, Berlusconi, Renzi (e i vescovi) si presentano come i campioni di questa linea politica «coraggiosa», così apprezzata dalla grande stampa nazionale.
Ma se dalla pessima propaganda politica passiamo alla cruda realtà dei fatti, se guardiamo la situazione sanitaria e quel che ci aspetta nei prossimi mesi, con il passaggio stretto dell’autunno, la riapertura delle scuole e del commercio, semmai la critica dovrebbe essere diversa: siamo pronti ad affrontare la situazione che si determinerebbe mandando a lavorare milioni di persone che potrebbero riaccendere i focolai del contagio?
Soprattutto per l’evidente difficoltà, nella sanità come nella scuola, nel trasporto pubblico come nella vita sociale, di poter riprendere i ritmi consueti e normali di sempre. È di ieri la stima del comitato tecnico scientifico secondo la quale con la riapertura totale delle attività ci sarebbero 151mila italiani in terapia intensiva.
È vero che la situazione economica del paese è disastrosa. Milioni di famiglie sono sulla soglia della povertà, milioni di donne e di uomini non hanno più un reddito, anche se minimo. Forse sarebbe più importante garantire oggi non tanto e non solo la ripresa delle attività lavorative a tutto campo, ma assicurare, come si sta faticosamente cercando di fare, un reddito di emergenza che aiuti ad affrontare la crisi. Senza la certezza di questo sostegno il prossimo Primo Maggio sarà davvero crudele per milioni di persone.
Appare anche paradossale che a rimettere le cose nel verso giusto sia stato papa Francesco riportando la Cei e il mondo cattolico al senso di responsabilità, sottolineando la necessità, adesso, di obbedire ed essere prudenti. Con poche parole il papa ha testimoniato un tasso di «laicità» indicativo dei tempi che attraversiamo. Lui sa che stiamo correndo dei rischi, come lo sanno il governo e Conte.
Non a caso in Germania, il paese di riferimento della leadership europea, la riapertura delle attività si è rivelata un grave errore: ieri era già risalito il numero dei contagiati, e non di poco.
Per questo stupisce la grancassa mediatica a favore delle opposizioni. Tanto più che Salvini, Meloni e Berlusconi sono stati messi nell’angolo da un virus più violento e distruttore delle loro idee. Annaspano, in difesa della protesta confindustriale e delle regioni, in particolare Lombardia e Piemonte, guidate dal centrodestra, esempi negativi, fallimentari di fronte all’emergenza pandemica.
Ma ancor più stupefacente è il comportamento di Renzi che recita due parti in commedia: di giorno sta al governo, e di notte trama per la crisi di governo.
Commenta (0 Commenti)Intervista a Massimo D'Angelillo a cura di Giorgio Stamboulis tratto da "Ravenna in Comune"
Massimo D’Angelillo, ravennate, economista, svolge dal 1985 attività di consulenza, di formazione ed editoriale. Ha ricoperto incarichi in varie società di servizi, nel terziario avanzato e nel sociale.
Socio fondatore (1986) e attuale presidente della società bolognese di ricerca e consulenza Genesis.
Ha scritto numerose pubblicazioni sulla creazione di nuove imprese, tra cui: “Job Creation, il sostegno alle nuove imprese in Europa” (1985), “Marketing per nuovi imprenditori” (1989), “Come creare e gestire una piccola impresa” (2011 e 2017), ecc.
Ha partecipato a vari progetti internazionali, con una particolare attenzione alla realtà tedesca, su cui ha pubblicato il volume “La Germania e la crisi europea” (2016). Ha sottoscritto, assieme ad altri 100 economisti, l’appello al Governo italiano per rigettare l’accordo dell’Eurogruppo del 9 aprile scorso.
La mattina del 25 aprile, raggiungiamo telefonicamente Massimo D’Angelillo economista e presidente della società di ricerca e consulenza Genesis e autori di diversi studi e ricerche. Massimo è anche uno degli aderenti all’appello da cui ha preso vita Ravenna in Comune. Come accade in questi casi, soprattutto in quarantena, discutiamo a lungo dell’economia locale e nazionale.
D. Buongiorno Massimo, intanto come te la passi con la quarantena?
R. Ha richiesto un periodo di adattamento, ma tutto sommato bene. Si studia e si legge, mentre il lavoro procede a distanza. Vista la situazione non posso lamentarmi.
D. Qual è la situazione del tessuto economico locale?
R. Per capire bene il contesto di Ravenna, come dell’Italia, dobbiamo valutare più da vicino l’andamento economico. La situazione presenta differenze in base ai settori: evidentemente, il commercio e il turismo sono in ginocchio e completamente bloccati e subiscono le conseguenze peggiori della quarantena; la sanità e la pubblica amministrazione in genere registrano un incremento delle risorse per ovvie ragioni e quindi non riscontrano una contrazione; Altri settori registrano perdite contenute come la chimica e la meccanica industriale che hanno rallentato ma non interrotto la produzione; L’agroalimentare e l’agricoltura non sono in crisi perché qui la domanda è forse aumentata in quanto beni essenziali e si registra o si lamenta una carenza di manodopera. Se dobbiamo fare una prima stima la produzione è calata di circa il 50% su base mensile, cioè del 4 o 5% su base annua, per questo due mesi di chiusura comportano un danno dell’8 o 10 % del PIL su base annua. Il quadro è quindi grave ma non devastante e permette di immaginare una ripartenza.
La disoccupazione farà un salto inevitabile. Purtroppo, gli studi sul monitoraggio del mercato del lavoro sono stati, negli anni scorsi, pressoché del tutto affossati, per cui oggi non abbiamo delle sentinelle per la stima del fenomeno. Possiamo però azzardare alcune stime di massima. Se il tasso di disoccupazione in un Comune come Ravenna stava viaggiando verso il 5% (con una faticosa ripresa rispetto alla crisi precedente), oggi possiamo immaginare che esso si rialzerà verso un livello del 10-15%. A ciò si aggiungerà un elevato numero di persone occupate ma poste a carico della Cassa Integrazione e del Fondo di Integrazione Salariale. Vi è poi l’ampia platea di lavoratori autonomi che non cesseranno l’attività, ma si troveranno in situazione di grave difficoltà a causa del crollo dei ricavi.
Anche dopo la fine del Lockdown i consumi privati subiranno un verosimile crollo.
D. Quali possono essere le specificità locali di ripresa, cosa e come può ripartire in maniera più efficace?
R. Il turismo rappresenta il problema più grave, ma qui la specificità di Ravenna può essere un vantaggio più che uno svantaggio. Gli spostamenti e i viaggi subiranno dei cambiamenti profondi che, forse, potranno condurre a un nuovo modello di turismo. Il primo dato saranno le forme di contingentamento, cioè la riduzione dei numeri assoluti. I centri con un modello di turismo di massa, come Venezia, Firenze e Rimini, registreranno perdite enormi perché si basano su presenze enormi. Ravenna, avendo numeri inferiori e non affidandosi ai grandi numeri, può sopportare meglio una riduzione e un contingentamento e continuare a puntare su una rete iniziative di scala medio-piccola.
Ravenna ha poi una presenza forte dell’agroalimentare, della pubblica amministrazione e dell’industria che rendono il profilo economico generale più equilibrato che altrove.
D. Da un punto di vista della disoccupazione e in genere degli effetti sociali, come sta evolvendo in questi mesi Ravenna?
R. La Caritas ha registrato un raddoppio dei poveri nella città e questo è già un dato molto indicativo. Inoltre c’è un aumento importante delle richieste di reddito di cittadinanza, Sicuramente i lavoratori stagionali del turismo e in genere i lavoratori giovani e precari sono stati duramente colpiti e non hanno prospettive di ripresa dell’attività lavorativa nell’immediato. In genere, però, credo che le ricadute saranno più miti che altrove perché la nostra comunità ha buone capacità di resilienza come dimostrato nella crisi del 2008.
D. Qual è il tuo giudizio sull’operato dell’amministrazione locale in queste condizioni?
R. L’impressione è che si sia mossa per tamponare l’emergenza e contenere i fenomeni di povertà e assistenza di tutte le categorie più fragili. Questo è avvenuto grazie ad una rete di resistenza fatta di volontariato e associazionismo abbastanza robusta e che per il momento sembra reggere allo sforzo. Nel 2008, la nostra città riusci grazie alle reti famigliari, al volontariato e all’amministrazione pubblica a contenere gli effetti della crisi e forse potrebbe succedere qualcosa di simile. Bisogna però anche riprogrammare e progettare un nuovo modello di sviluppo, non basta la gestione dell’emergenza. Quale sarà la direzione intrapresa? Questa direi che è una domanda fondamentale.
D. Mi pare che tu abbia accennato, recentemente, proprio a una forte riconversione ecologica come priorità da seguire?
R. C’è un dato che non viene discusso e forse è un po’ scomodo, ma che io ho riscontrato in maniera abbastanza evidente, cioè una concomitanza tra una forte diffusione del covid-19 e l’incidenza dei tumori ai polmoni. Le zone più colpite, come ad esempio Bergamo e Brescia, sono anche aree molto usurate da un punto di vista ambientale. La nuvola di inquinamento della pianura Padana sembra essere una zona di ampia trasmissione e letalità della malattia, come in altre zone a forte industrializzazione e inquinamento all’estero. Le forze ecologiste in genere dovrebbero rafforzarsi ed essere maggiormente ascoltate, e ovviamente la produzione e in genere l’economia vanno riorganizzate.
D. Passiamo invece al contesto nazionale e internazionale, il governo Conte come si è comportato e quali interventi economici traspaiono per il futuro? La questione riguarda solo il MES o gli eurobond, come sembra dalle cronache giornalistiche?
R. Le misure di contenimento dell’emergenza sociale e economica sono state giuste come i 600 euro e i 25 mila euro per le aziende. al netto delle critiche, il governo su questo fronte ha fatto quel che andava fatto cioè dare una risposta in una situazione eccezionale. Il problema, invece, è che manca un’idea di ripresa e sviluppo. Si sta discutendo molto di MES e eurobond, in pratica delle forme migliori di finanziamento degli interventi contro la crisi e per evitare forme di dipendenza e sfruttamento tra Stati e preferire forme di solidarietà e mutualizzazione dei rischi. Il problema è cosa si farà con queste risorse. Io credo sia essenziale il piano ecologico europeo annunciato dalla Von der Leyen, cioè un piano di sviluppo sostenibile europeo con risorse ingenti e che modifiche profondamente l’economia del nostro continente, ma che va quindi ora attuato e rafforzato. Bisogna poi mettere in campo interventi più specifici. Ad esempio dobbiamo immaginare un turismo diverso e sostenibile, diciamo più Delta del Po e meno Rimini per farci un’idea, un turismo nuovo che va quindi cambiato, finanziato e reso fruibile.
Poi pensiamo all’esplosione delle consegne, io non penso che sia un male che cresca un nuovo settore e che permetta di ottenere i beni direttamente a casa, ma questo non deve significare sfruttamento e delega alle multinazionali, credo che andrebbero promosse cooperative autentiche di consegna in stretta relazione con gli esercizi e le attività locali per soppiantare il monopolio di realtà come Amazon.
D. Ci sarà un ritorno all’intervento pubblico in economia? Molti preconizzano questa eventualità.
R. Sono caduti molti tabù, anche tra i maggiori difensori del neoliberismo e della Spending Review: oggi siamo di fronte alla fine dell’austerità fiscale, i parametri di Maastricht sono finalmente stati rottamati (come prevedevamo, io e altri autori, nel volume “Rottamare Maastricht” del 2016), tutti concordano che lo Stato debba spendere e fare sentire il proprio ruolo propulsore. Inoltre c’è una maggiore consapevolezza della necessità di presidiare i beni comuni, come la sanità. Ci vuole una forte regia e infrastruttura pubblica che presidi non solo l’eccellenza ma anche reti di base e il territorio. Il problema della Lombardia è stato l’impoverimento della rete dei medici di base e della medicina territoriale, da questo dobbiamo trarre una lezione e rifinanziare il sistema pubblico. La sanità non regge se è di mercato, ma se è un bene comune, così come la Scuola e altri settori.
D. Siamo alla fine della globalizzazione come crede qualche analista?
R. La globalizzazione subirà un rallentamento e le reti commerciali soffriranno, ma non ci sarà un inversione di tendenza. Tutti i settori ripartiranno compreso il turismo internazionale, si tratta di fenomeni ormai troppo interiorizzati a livello mondiale. Tuttavia si deve rinforzare l’autosufficienza su alcuni settori come la produzione di mascherine e la produzione sanitaria in genere dovrà essere internalizzata, cioè non potremmo dipendere dalla produzione in India, Cina o Brasile in certi ambiti. Su questo, sarebbe bene rafforzare l’Unione europea, ad esempio è curioso che non esista un’Organizzazione europea della sanità e che i singoli stati si muovano in ordine sparso.
D. Qualcuno ha proposto come possibile via d’uscita, la cosiddetta città in 15 minuti, cioè un’organizzazione sociale che permette di avere a disposizione le attività quotidiane: lavoro, acquisti, tempo libero, nel giro di quindici minuti anche nelle metropoli.
R. Si tratta di un aspetto importante perché è chiaro che sia necessario diminuire la mobilità in pianta stabile. Lo smart working sarà, a mio parere, irreversibile perché le nuove tecnologie sono utili e migliorano certi lavori, come quelli di professionisti, studenti, docenti e in genere lavori d’ufficio. Il futuro dovrebbe essere un mix tra lavoro vis-à-vis e a distanza, e compensa anche se non sostituisce la socialità.
Forse io vedo più i pericoli sullo smart working, ma magari può essere uno spunto di dibattito, più ampio.
Commenta (0 Commenti)L’annuncio del lancio di questa applicazione ha fatto affiorare molte domande che erano già necessarie prima della pandemia per tutti i sistemi privati di tracciamento. È giunto il momento di produrre policy chiare sulla gestione dei big data
Domande contestuali alla recente offerta di di collaborazione da parte delle Ott per il superamento della pandemia che vede Apple e Google iniziare a lavorare congiuntamente rendendo interoperabili i loro sistemi operativi per arrivare a costruire una piattaforma per il tracciamento dei contatti tramite Bluetooth. Le Ott dispongono di miliardi di dati e noi riteniamo che i dati di cui le Ott dispongono, che raccolgono e processano gusti, opinioni, espressioni facciali, ricerche, localizzazioni, quei dati appunto non possano essere considerati patrimonio di aziende private, utilizzati a fini di lucro o, come la storia recente ha dimostrato, per orientare opinioni e creare consenso a meri fini elettorali. Non avrebbero dovuto esserlo prima, non lo possono più essere ora.
Quei dati sono nostri, e se una qualche utilità possono avere allora debbono essere processati e gestiti da istituzioni pubbliche, che ci informino sul loro utilizzo e che se ne servano per rispondere ai nostri bisogni, per arginare una pandemia tanto quanto per creare e riprogettare luoghi, ripensare alla mobilità, costruire percorsi di formazione, ricostruire e gestire una rete socio sanitaria universalistica, diffondere competenza e conoscenza. Il pubblico deve avere sempre un potere regolatorio per tutto ciò che attiene le finalità di interesse pubblico ed è proprio da questa esigenza, o da questa rinnovata consapevolezza, che nasce la discussione messa in campo intorno alla applicazione di contact tracing licenziata dal governo.
La diffusione della consapevolezza del valore dei dati a fini di interesse pubblico, evidenziata dalla necessità di arginare la pandemia, palesa dunque ciò che diciamo da tempo: determinare chi gestisce i dati, nel loro intreccio con altri dati, è un tema politico di primaria rilevanza. I monopoli digitali hanno fondato il loro potere e la loro ricchezza sulla gestione dei dati a fini commerciali e anche nel nostro Paese si sono già offerti ad esempio per gestire i depositi dati della Pubblica amministrazione, una delle maggiori generatrici di dati. Ora è tempo di proporre elementi di riappropriazione di queste risorse in capo alla comunità. È il momento di produrre policy chiare sulla gestione dei big data, tema su cui le Autorità indipendenti italiane si erano già espresse, e bisogna che si consideri la tecnologia digitale come mezzo a servizio di politiche di superamento delle diseguaglianze, di diffusione di pratiche democratiche, di incremento della consapevolezza e della partecipazione dei cittadini.
I servizi pubblici vanno ripensati in questa chiave. Se non coglieremo oggi, come Paese e come Europa, l’opportunità di rinegoziare i rapporti di forza con gli Ott avremmo perso un’occasione storica per determinare il “come” si riparte. E mentre si ragiona di dati, ci accorgiamo che all’inveterata incapacità globale, o forse solo mancanza di volontà, di ridefinire i rapporti di forza con gli Ott si somma il conclamato ritardo digitale del nostro Paese che ha dispiegato una esponenziale forza frenante.
Così, mentre si parla di fase 2 e di lunga convivenza necessaria con il virus, a condizioni immutate sappiamo già che in Italia lo smart working continuerà a non essere appannaggio di tutti, esattamente come la fruizione della didattica a distanza, la possibilità di accedere a servizi socio assistenziali digitali o di interfacciarsi con la Pubblica amministrazione e tutto questo in primo luogo a causa di una connettività non uniforme nel Paese, che prevede investimenti sia lato offerta che lato domanda. Se i dati che transitano sulle reti digitali devono essere considerati alla stregua di beni comuni, il diritto alla connettività deve essere universalmente riconosciuto in capo ai singoli cittadini, pena una intollerabile esacerbazione delle diseguaglianze e le reti digitali stesse, devono essere considerate a tutti gli effetti una nuova categoria di opere pubbliche su cui investire massicciamente oggi più che mai.
Sarebbe giusto e urgente che si agisse peraltro anche sull’aspetto meno esplorato del digital divide, cioè quello della carenza di domanda e di competenze, che concorre a collocare l’Italia nella parte bassa delle classifiche europee di merito. Abbiamo necessità di un piano di diffusione di competenze ed insieme di consapevolezza digitale di cui lo Stato deve farsi carico. Auspichiamo intanto che il governo abbia provveduto in questa fase a richiedere all’Ue, come richiesto dall’Anci, una procedura di urgenza per sbloccare gli 1,3 miliardi stanziati per l’avvio immediato del piano di fornitura dei voucher previsti per il supporto della domanda di Bul dando priorità a strutture sanitarie, scuole, sedi P.a., cittadini e imprese delle aree bianche e abbia provveduto a costruire un sistema che consenta la costante rilevazione delle esigenze dei Comuni, con priorità assegnata a quelli delle aree bianche.
Dunque, e senza declinare al dettaglio i ritardi accumulati, il piano complessivo che ci aspettiamo dall'esecutivo è una programmazione d'investimento infrastrutturale nel digitale, accompagnata però dalle normazioni necessarie a rendere la fruizione delle reti, dei dispositivi e dei dati partecipata, democratica, rispondente ai bisogni delle persone. Abbiamo bisogno di un piano pubblico per riprogettare luoghi, mobilità, modelli formativi e produttivi, e dobbiamo scegliere se farlo piegando o meno la tecnologia ai principi fondanti di democrazia, uguaglianza, partecipazione e condivisione per riappropriarci del nostro futuro, analogico e... digitale.