Mettere su famiglia in Italia è complicato. Servirebbe un lavoro con un certo livello di stabilità. Facile a dirsi, in un paese che ha imposto la precarietà come condizione fondamentale dell’organizzazione del lavoro, con conseguenti bassi salari e negazione di diritti.
Gli ultimi dati parlano di 16 contratti a tempo indeterminato su 100 posti attivati, con una complessiva riduzione degli stessi in termini assoluti.
Sarebbe inoltre necessaria una casa in cui vivere, possibilmente non troppo lontana dal posto di lavoro. Altro fatto non scontato, data la cronica carenza di alloggi popolari, un mercato degli affitti oneroso e carente, soprattutto nella grandi città, una spinta all’indebitamento a fini abitativi che tuttavia non prescinde dalla necessità di un intervento a supporto delle famiglie di origine. Né si deve dimenticare che le occasioni di lavoro sono sempre più concentrate nei maggiori centri urbani, laddove le condizioni di accesso alla casa sono spesso proibitive, con conseguente incremento del pendolarismo.
Non sono di aiuto i servizi di supporto alla genitorialità. In molte aree del paese gli asili nido continuano a essere un miraggio e il congedo parentale maschile obbligatorio un obiettivo lontano dal raggiungimento. Per le donne poi la maternità continua a essere troppo spesso un fattore di discriminazione sul posto di lavoro, quando non addirittura un motivo di licenziamento.
Come si vede sarebbero moltissimi gli interventi urgenti da mettere in campo a supporto delle famiglie per contrastare la denatalità, con il vantaggio di essere utili per la cittadinanza nel suo complesso.
Il governo decide invece di non intervenire in nessuno di questi ambiti, ma di introdurre il cosiddetto assegno unico famigliare.
Si adotta un elargizione monetaria a favore dei lavoratori autonomi e della parte più abbiente della società, a condizione che siano presenti figli e in virtù del loro numero.
Il regime attuale degli assegni famigliari e delle detrazioni per figli a carico era infatti destinato ai soli lavoratori dipendenti, con reddito inferiore ai 95.000 euro e senza limiti di età.
Ora si passa a 175 euro mensili per Isee fino a 15.000 euro, che diventano 50 oltre i 40.000 o per chi scelga di non presentare la certificazione, fino ai 21 anni di età.
Per i lavoratori dipendenti a reddito medio e basso si tratterà in molti casi di un peggioramento rispetto alla situazione precedente, data la riduzione potenziale dell’arco temporale.
Per chi abbia un reddito elevato, si corrisponderà una mancia che nulla cambia rispetto alla capacità di spesa, ma rappresenta semplicemente un segnale politico di attenzione.
Diverso il caso per il lavoro autonomo, che rappresenta il vero beneficiato da questa iniziativa. Per molti si tratterà infatti di un entrata aggiuntiva netta di oltre 2.000 euro annui, che si sommerà ai vantaggi già ottenuti con la flat tax introdotta dal governo gialloverde fino ai 65mila euro lordi.
Si va così ad accentuare ulteriormente il vantaggio fiscale di cui gode una parte della popolazione, incentivando peraltro ulteriormente la destrutturazione del mercato del lavoro.
Il punto infatti è che viene spacciata per intervento di welfare a tutela della famiglia quella che è invece una misura di natura fiscale fortemente iniqua e sperequativa, che accresce le distorsioni interne al sistema e spreca risorse per ragioni ideologiche.
Si invoca la bontà di una misura universalistica, dimenticando che quando si tratta di tassazione, pur negativa, il principio a cui attenersi dovrebbe essere quello di progressività.
Si investono 8 miliardi che sarebbero veramente utili se destinati ad asili nido, diritto allo studio e accesso alla casa, per un bonus indirizzato anche a chi non ne avrebbe alcun bisogno.
Si dimentica che la vera distinzione non può essere fra chi abbia o non abbia figli, ma fra chi abbia o meno la possibilità di vivere con dignità.
Insomma, più che davanti ad una riforma epocale, siamo davanti ad un provvedimento nato già vecchio e da rivedere profondamente.