L'Afghanistan che verrà. I governi degli eserciti che per due decenni hanno presidiato il campo afghano hanno chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia. Ma il lavoro politico non si fa via zoom
Fiumicino, atterraggio di uno dei voli di evacuazione dall'Afghanistan © Ap
Ha ragione Lakhdar Brahimi, veterano delle Nazioni unite, che ieri ha detto ad Al Jazeera che l’Onu dovrebbe intensificare gli sforzi diplomatici in Afghanistan: «È tempo – ha detto – di diplomazia». Mentre il dibattito sembra vertere invece solo sulla fuga da Kabul e sulla cattiveria della guerriglia in turbante, riappare la politica e quella parola magica che ne presuppone altre: negoziato, trattativa, dialogo. Ha ragione Lakhdar Brahimi. Ma è solo. O meglio, se l’Onu ha comunque già deciso di non abbandonare il Paese, i governi degli eserciti che per due decenni han presidiato il campo afghano hanno invece chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia.
ANZICHÉ ESSERE DOVE ORA si dovrebbe trattare, negoziare, accompagnare, le ambasciate occidentali si sono trasferite a casa come se anche il lavoro politico si potesse fare via zoom. In Afghanistan la pandemia si chiamava, oltreché Covid, anche “guerra” e per gestirne la sua (apparente) fine sarebbe necessario essere lì, non certo dall’altra parte del pianeta.
Aiutare chi si sente minacciato è un dovere etico oltreché un atto di solidarietà dovuto ed è dunque necessario che, come da più parti si chiede, il ponte aereo vada avanti sino alla finestra del 31 agosto (che pare sia stata garantita da chi comanda a Kabul) imbarcando tutte le persone in serio pericolo le cui liste sono state inviate al ministero degli Esteri e della Difesa. Ma terminata questa missione emergenziale
Commenta (0 Commenti)Afghanistan . Due obiettivi sono ora importanti: trattare con i Talebani per ottenere canali per l’espatrio e dialogare con Teheran per far passare ai profughi di Kabul la lunga frontiera
Fuga da Kabul © Ap
Vi ricordate uno degli slogan che esprimeva una delle più importanti verità che il movimento ci aveva fatto capire nell’epoca gloriosa del pacifismo, il solo, grande movimento realmente europeo che si sia sviluppato, quello degli anni Ottanta, quello che recitava: ”I patti non si fanno con gli amici ma con i nemici”? Voleva dire no ad Alleanze Atlantiche e invece ricerca di un accordo, o almeno di un compromesso, di un dialogo, con quelli che stiamo combattendo.
Ed era il corollario di un’altra verità: “La guerra è un retaggio medioevale, la politica estera non può più affidarsi alla rozza semplificazione militare”.
So bene che poi nel concreto spesso non è facile applicare queste indicazioni; e infatti in questo stesso scorcio di tempo sono state calpestate. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, non solo in Afganistan, ma anche in Irak e altrove.
Ripenso a questi slogan in questo momento terribile in cui le conseguenze dell’averli ignorati scorrono drammaticamente sugli schermi televisivi: se si è arrivati a questo è perché si è scelto di dar peso alla Nato a – i nostri “amici” – (e alla loro guerra) e di non tentare neppure di dialogare con chi in Afganistan stava dalla parte dei Talebani. Quello che invece hanno fatto le Ong che si sono impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni (quella ufficialmente al governo a Kabul, del presidente fuggitivo Ghani, non era molto di più di una fazione, ma una fazione alleata della Nato; e infatti si è dissolta in pochi giorni).
Non vorrei che oggi ci dimenticassimo di quanto abbiamo predicato, e invocassimo il “Mai riconoscere i Talebani” in nome di una radicalità che non è tale, perché è solo una assenza di riflessione. Dire “accordi” coi nemici, non vuol dire riconoscere il governo dei talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire cercare di trattare e strappare qualche possibilità di salvare chi ora rischia la vita. In molti casi significa accordarsi per ottenere vie d’uscita dal paese. Se non otteniamo questo non vedo cosa potrebbe servirci, di per sé, l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. Prima, ora, subito, bisogna ottenere canali per l’espatrio. Qualche spazio di trattativa, ancorché limitato, sembra esserci, bisogna profittarne e allargarlo, non chiudersi nella demagogica invocazione ”con i talebani non si tratta”. Se non si tratta, vuol dire che si continua la guerra. E cioè che chiediamo alla Nato di non partire dal paese e di riprendere i combattimenti.
A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afganistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: ”Riportare a casa i nostri ragazzi!”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i nostri ragazzi hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti.
C’è un altro obiettivo urgente, che sembra dimenticato e invece è importantissimo: il grosso di chi ha bisogno di scappare dal paese premerà inevitabilmente sulla lunga frontiera con l’Iran. E’ dunque urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per facilitare il passaggio di quella frontiera, non per farci accordi analoghi a quelli con la Turchia, ovviamente. Ma per dialogare bisognerà anche riconoscere le ragioni di Teheran, che patisce un durissimo embargo quando Washington ha deciso che andava punito perché avrebbe violato l’accordo sul nucleare (che non chiede solo ai paesi che non hanno le bombe di non cominciare a farle, ma anche a quelli che le hanno di non continuare a produrle. Come poi è risultato clamorosamente si tratta della stessa pretestuosa bugia che dette il via all’aggressione all’Iraq). Mobilitarsi per “liberare l’Iran”, è la cosa più utile che si possa fare per aiutare ora i profughi afgani. Ogni tempo ha le sue priorità, in questo è prioritario bloccare la ripresa della guerra.
Sono consapevole di rischiare un attacco di tanti che sono da sempre miei compagni di lotta perché può sembrare che quanto dico sia simile a quanto, tatticamente, dice il generale Stolzemberg. Ma sono certa che la vecchia guardia pacifista sarà d’accordo sull’importanza di ricordare sempre che si fanno patti con il nemico e non con gli amici. Con questi, se sono veri amici, non è necessario, perché ci si intende lo stesso. Con la Nato ho i miei dubbi.
Commenta (0 Commenti)Afghanistan. Per Usa e Nato bisognava (e bisogna) esportare la democrazia. Ma i raid aerei non aiutano i civili - migliaia le vittime e più di 5 milioni di profughe/i - ma il mercato delle armi
I talebani «conquistano» Kabul © Ap
Quali altre guerre sbagliate, e che non si possono vincere, ci aspettano, dopo gli inutili bagni di sangue di Afghanistan e Iraq? A Kabul c’è stato “un fallimento epocale finito in maniera umiliante”, titolava il New York Times, quotidiano che ha appoggiato Biden nella campagna elettorale contro Trump. Eppure mai come adesso è vera la frase del grande musicista Frank Zappa: “La politica in Usa è la sezione intrattenimento dell’apparato militar-industriale”. Biden, come in una caricatura hollywoodiana, continuava a sostenere in tv che il potente esercito afghano avrebbe respinto i talebani che stavano già alla periferia di Kabul. Ma il ruolo presidenziale è proprio questo: raccontare bugie, anche insostenibili, e contare gli utili, prima ancora dei morti. Anche le dichiarazioni del segretario di stato Blinken – “abbiamo raggiunto gli obiettivi” – appaiono meno ridicole di quel che sono se viste in questa ottica.
GLI AMERICANI E LA NATO dicono di volere esportare democrazia, in realtà esportano prima di tutto armi: il resto – “nation-building”, diritti umani, diritti delle donne – è un delizioso intrattenimento per far credere che con le cannonate facciamo del bene. Se vuoi aiutare un popolo puoi farlo senza usare i fucili, questo tra l’altro insegnava Gino Strada, vituperato da vivo dagli stessi ipocriti che oggi lo incensano e all’epoca sostenevano le guerre del 2001 e del 2003.
CHI PAGA DAVVERO il prezzo del fallimento e il ritorno dei talebani non sono
Leggi tutto: In Afghanistan il fallimento «mascherato» dell’Occidente - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)Dal sito de il manifesto
È scomparso oggi Gino Strada, medico e fondatore di Emergency. Al momento del decesso, avvenuto per un problema cardiaco, si trovava in Normandia. Aveva 73 anni.
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Afghanistan. Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis
Il ritiro americano dall’Afghanistan è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all’ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita.
Di mezzo come al solito ci vanno gli afghani che, come scriveva ieri sul manifesto Giuliano Battiston, sono stati scaricati dagli europei che premono per il rimpatrio dei profughi aggrappandosi ad accordi firmati dal governo di Kabul con un ricatto esplicito: dovete riprendervi i rifugiati altrimenti non vi diamo i soldi.
E poi ci facciamo chiamare Paesi «donatori». Insomma la stessa usuale solfa di Bruxelles che spera con i quattrini di fermare gli arrivi alle frontiere, una volta pagando Erdogan, un’altra i libici o i tunisini. I prossimi a libro paga magari saranno proprio i talebani e non ci sarebbe troppo da scandalizzarsi: da anni versiamo soldi ai criminali libici e ai loro complici.
L’Afghanistan è lontano e vogliamo dimenticare alla svelta Kabul, anche se sono passati vent’anni da quando gli Stati uniti hanno invaso l’Afghanistan con l’obiettivo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e rovesciare il regime del Mullah Omar. Questa sembra essere l’unica preoccupazione dell’Unione europea: che l’Afghanistan stia sprofondando nel caos e in una nuova guerra civile, con il risorgere dei signori della guerra cooptati in questi anni nella «democrazia» afghana, appare secondario. Dopo avere proclamato, per anni, con gli americani che stare in Afghanistan era cosa giusta e doverosa per «proteggere» la democrazia e i diritti delle donne, adesso gli europei voltano la faccia dall’altra parte e rifiutano asilo a chi teme giustamente di essere ricacciato in un nuovo medioevo.
A stento sono stati salvati un po’ di afghani che lavoravano per le truppe occidentali, giusto per le pressioni sui media che hanno dato spazio alle suppliche di quelli che i talebani considerano «collaborazionisti». Tralasciando di scrivere che questo censimento dei collaborazionisti i talebani nelle provincie lo fanno da sempre e in maniera accurata, con in mano i dati anagrafici di una popolazione che hanno tenuto sotto torchio per anni. I talebani non hanno mai smesso di governare «a distanza» il Paese e tutti lo sapevano benissimo, altrimenti non sarebbero avanzati così velocemente.
L’ipocrisia è tale da nascondere un pensiero neppure troppo remoto, vista la situazione. Un ritorno all’«ordine talebano» potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei.
Per questo ce ne siamo andati via alla chetichella ammainando velocemente la bandiera, come se qui non fossero morti dozzine di soldati italiani dando la caccia ai talebani nel Gulestan, la valle delle rose. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all’Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani.
Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis. Anche lì doveva un esercito nazionale come in Afghanistan a mantenere l’ordine: in tutti e due i casi le forze armate locali si sono sfaldate alla prima offensiva.
E ora l’Armata Rossa organizza manovre militari con Uzbekistan e Tagikistan: i russi dovrebbero tenere quelle frontiere che abbandonarono nell’89 quando si ritirarono dopo l’invasione del dicembre ’79 e una guerra persa contro i mujaheddin, sostenuti dagli Usa e dai loro alleati. Anche la Cina si sta muovendo per proteggere i confini dello Xinjiang musulmano e le concessioni minerarie afghane. L’obiettivo a quanto pare sembra sia stato raggiunto: i talebani hanno assicurato che non interferiranno nelle questioni interne cinesi tra gli uighuri e Pechino, allo stesso tempo la Cina ha definito gli insorti afghani “una forza militare e politica cruciale”. Così come stanno negoziando gli iraniani, che si trovano i talebani a stretto contatto nella provincia di Herat, storicamente legata alla Persia.
Tutti sono seduti al tavolo con i talebani, dagli americani agli altri, si tratta di preparare il terreno a loro riconoscimento internazionale. E vedrete che ci piacerà pure Muhammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar che lancia appelli _ non si sa quanto affidabili e realistici _ alla moderazione dei combattenti. Di democrazia, protezione dei diritti delle donne, sviluppo sociale ed economico di un Paese che l’Occidente diceva di volere cambiare già non parla più nessuno. Siamo tornati a casa, i profughi afghani li cacciamo indietro e abbiamo salvato una manciata di collaborazionisti: che volete di più? Il «ritorno all’ordine» tra un pò di tempo, anche nel caos, sarà completo.
Commenta (0 Commenti)Non avremmo mai immaginato, fino a poco tempo fa, che anche un/il vaccino ci avrebbe interpellato in merito alla nostra Costituzione. O, meglio, in merito alla conoscenza, o meno, della nostra Costituzione.
Per fortuna, in questi giorni, molte voci si sono fatte sentire, per smentire l’allarme che una destra irresponsabile e ignorante di Costituzione ha tentato di lanciare. Il green pass e , in alcuni casi, l’obbligo vaccinale, sarebbero anticostituzionale liberticidi. Un vero e proprio assurdo, fra le numerose assurdità a cui da tempo non riusciamo ad abituarci.
Fra le tante voci, suggeriamo la lettura del recente articolo di Azzariti, radicalmente chiaro. Gaetano Azzariti, fra l’altro, è il presidente della Associazione nazionale Salviamo la Costituzione, della quale anche i Comitati in difesa della Costituzione di Bagnacavallo, Faenza e Ravenna fanno orgogliosamente parte.
Paola Patuelli
L'articolo di Gaetano Azzariti
Il dibattito. Al dunque la questione di fondo è: sin dove possono spingersi gli obblighi e le limitazioni alle libertà individuali per la tutela dell’interesse pubblico alla sanità e alla sicurezza?
Circola una leggenda metropolitana tra i No Vax che chiama in causa la Costituzione. L’obbligo vaccinale – si narra – violerebbe il divieto di imposizione dei trattamenti sanitari garantito dall’articolo 32 della costituzione; il green pass limiterebbe invece la sacra libertà di circolazione inscritta all’articolo 16 del nostro testo supremo. Si chiama alla lotta per riaffermare i più vitali principi del costituzionalismo moderno, contro i poteri asserviti ad interessi economici che, in parte, rimangono oscuri, in parte, sono individuati in quelli reali e per nulla rassicuranti delle cosiddette Big Pharma. Al grido di “libertà, libertà” i nuovi paladini si propongono come i garanti dei diritti del popolo, contro la nuova plutocrazia autoritaria che approfitta della presunta emergenza sanitaria per erodere la democrazia sin dalle sue fondamenta.
La confusione è tale che persino il fatto che a dirigere il movimento di protesta siano le componenti più reazionarie e fascistoidi non è considerato un ostacolo, neppure da chi, entro questo magmatico movimento, rivendica la sua ispirazione antifascista, se non di sinistra. Ben venga che la libertà sia difesa da chi (ovvero insieme a chi) non crede nella democrazia: si tratta pur sempre di far valere ciò che viene prima della stessa convivenza civile, ovvero la libertà intesa come un valore assoluto, prerequisito di ogni altro diritto degli individui. Basterebbe leggere qualche classico, in realtà, per sapere che la libertà assoluta si pone contro ogni forma di convivenza ed è l’anticamera del bellum omnium contra omnes.
Ma lasciamo da parte i classici. Facile è smontare questa narrazione farlocca dal punto di vista costituzionale. Basta saper leggere gli articoli richiamati. Il divieto di imporre trattamenti sanitari – e il connesso principio di poter disporre del proprio corpo – è, infatti,
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