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A ispirazione e supporto della circolare diramata dal suo capo di gabinetto che intima ai prefetti di procedere ad interventi sgombero di stabili ed aree occupate senza pensare a locazioni alternative, Salvini ha scritto su Twitter che «la proprietà privata è sacra».

Una bestemmia, o una fake news per usare un linguaggio più secolarizzato. Non la pensava così Stefano Rodotà (la cui mancanza si fa sentire ogni giorno di più) che agli inizi degli anni ’80 raccolse i suoi studi sulla proprietà (e più volte ci tornò) in un libro diventato famoso Il terribile diritto. Un titolo desunto da una frase contenuta nell’opera più celebre di Cesare Beccaria: «…il diritto di proprietà (terribile, e forse non necessario diritto)». Quando fu pubblicata correva l’anno 1764.

Evidentemente per alcuni un tempo passato invano. Ma sappiamo che il progresso intellettuale non procede in modo lineare. Né qui si pretende che Salvini abbia mai letto Beccaria o Rodotà. Tuttavia dobbiamo esigere che conosca la Costituzione, su cui ha giurato diventando ministro. Essa non solo all’articolo 41 affronta il tema dell’iniziativa economica privata, esigendo che questa sia indirizzata all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Ma stabilisce, nell’articolo 42, precisi limiti alla proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, prevedendo in caso contrario anche l’espropriazione per motivi di interesse generale».

A sua volta l’articolo 44 pone vincoli alla proprietà terriera privata. Conosciamo i vari tentativi di dare un’interpretazione restrittiva in senso favorevole al diritto proprietario del dettato costituzionale, fino a cercare di capovolgerlo. Ma di certo questo terribile diritto non può essere assolutizzato, meno che mai sacralizzato. Sarebbe anche opportuno che il massimo garante della nostra Costituzione facesse giungere la sua voce dal Quirinale a fronte di simili esternazioni ministeriali. Abbiamo un governo nel quale vi è chi parla di nazionalizzazioni e chi si fa paladino della sacralità proprietaria. In ogni caso un ministro che non conosce la Costituzione o che con i suoi atti la viola coscientemente non è degno di quel ruolo e se ne deve andare.

Meglio se non da solo. Jeremy Bentham sorpreso delle parole del Beccaria le definì «un dubbio sovversivo dell’ordine sociale». Ma qui siamo al classico sovversivismo delle classi dirigenti. Secondo la circolare gli sfollati, dopo schedatura, saranno parcheggiati in recinti («strutture provvisorie di accoglienza»). L’iniziativa ministeriale rafforza la spinta a chiudere centri di iniziativa culturale sociale come la Casa delle Donne a Roma, ed è stato giusto portare la questione all’attenzione della Commissione Ue. D’altro canto il tema abitativo si incrocia con quello dei migranti. E riguarda tutti. Ci ricordiamo la violenza poliziesca della scorsa estate in piazza Indipendenza a Roma. Una ragione in più per sostenere l’urgenza di una manifestazione popolare contro il razzismo e la barbarie, come proposto su queste pagine.

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L'estate di Salvini. Per uscire dall’angolo, bisogna avere la forza di un progetto più ampio, non si può lasciare il ministro dell'interno a sbandierare Italy first

L’estate è stata spesso palcoscenico di tormentoni politici, utili a riempire il vuoto di notizie e raggiungere una opinione pubblica distratta. Ma quella del 2018 passerà alla storia come il tempo di Salvini, capace di consolidare l’egemonia leghista sull’esecutivo giocando cinicamente su una emergenza migranti che oggettivamente non esiste. M5S non riesce a contenere la piena, e nel confronto sembra balbettare su terreni come la Tav, la Tap, e l’Ilva. Si conferma che non c’è partita tra il leader provato sul campo di un partito vero come la Lega e quello costruito in provetta di un movimento in crisi di crescenza.

In parte, un copione già visto. Ma cogliamo una novità: Salvini ha alzato i toni. Sprezzante verso Mattarella, Fico, le opposizioni, i magistrati, l’Europa. E, se a qualcuno mai venisse il dubbio, ha chiarito che non ha alcuna intenzione di dimettersi.

Due punti. Il primo: non accade perché Salvini ha preso un colpo di sole. Il secondo: è una strategia che non può durare a lungo. L’unica conclusione ragionevole è che il leader leghista stia guardando ai prossimi confronti elettorali, a partire dalle europee del 2019, forse affiancato da un anticipo delle elezioni politiche, più probabile proprio per l’accelerazione salviniana. Ne potrebbe uscire una netta svolta a destra del paese. La domanda è: si può fermare o contrastare Salvini?

Diciamo subito che – lo dimostra il caso Mancuso – di un ministro scomodo ci si può liberare solo con una mozione di sfiducia individuale. È possibile o probabile che dalle opposizioni ne venga una. Ma una sfiducia individuale respinta serve solo a compattare la maggioranza e paradossalmente rafforzare il ministro che si vuole colpire. Quindi, cautela.

È utile la via giudiziaria? Probabilmente no. Secondo le ultime notizie, Salvini è formalmente indagato. Se è così, si apre lo scenario di un reato ministeriale, e trova applicazione la l. cost. 1/1989, che riforma il testo del 1948 disegnando per il premier e i ministri una procedura ad hoc. Questa comporta anzitutto il passaggio a uno speciale collegio di tre magistrati estratti a sorte (art. 7).

Se il collegio non decide l’archiviazione, si prevede una autorizzazione parlamentare, che può essere negata a maggioranza assoluta dei componenti ove l’assemblea «reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (art. 9). L’autorizzazione è richiesta anche per limitazioni della libertà personale, intercettazioni, sequestro o violazione di corrispondenza, perquisizioni personali o domiciliari. Né può essere disposta l’applicazione provvisoria di pene accessorie di sospensione dall’ufficio (art. 10). È dunque ovvio che una maggioranza compatta può allo stesso modo respingere una sfiducia individuale e bloccare una indagine penale a carico del ministro.

Rimane la politica. Gli argomenti di una sinistra compassionevole e solidale e attenta al legame europeo sono nobili, e per una parte di noi doverosi. Ma sono temi che nel paese non mostrano oggi di riscuotere un consenso maggioritario. Fa impressione che persino la popolarità di papa Francesco abbia subito un netto calo, soprattutto tra i giovani, pare per la sua difesa dei migranti. Per uscire dall’angolo, bisogna avere la forza di un progetto più ampio. Il trumpismo fatto in casa di Salvini si sconfigge certo anche battendosi per i migranti, ma includendoli in un progetto complessivo sui diritti dei lavoratori, i precari, i disoccupati, i milioni di poveri, le periferie degradate, il ceto medio impoverito, i giovani che non possono permettersi una famiglia o un figlio, i deboli, i diversi. Non si può lasciare Salvini a sbandierare Italy first.

Non è compito da poco. Soprattutto per il Pd, a rischio di una definitiva consunzione, come dicono anche i fischi di Genova e la consapevolezza che la storia di privatizzazioni sospette di favori ad amici e sodali è a lungo maturata nelle stanze del centrosinistra di governo. Una palingenesi è indispensabile, anche se tuttora impedita dalle scorie del renzismo. Niente scorciatoie. Potrebbero solo condurci a un Salvini santo subito.

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Sarebbe arrivato il momento di togliere ai bassi fondi dei social l’esclusiva della formazione dell’opinione pubblica per riportarla nella dimensione della piazza reale. Se, a settembre, decine di migliaia di persone decidessero di incontrarsi a Roma, oltreché su Facebook, per una manifestazione contro la politica del governo sui migranti sarebbe un modo, per ciascuno e per tutto il paese, di ritrovarsi.

Servirebbe uno scatto di dignità nazionale contro chi si atteggia a piccolo padre della patria, capace di trattare gli immigrati come ostaggi, di sequestrare ragazze e ragazzi minorenni in fuga dai disastri del mondo, di fomentare rigurgiti razzisti, di stravolgere diritto e diritti costringendo la guardia costiera a diventare il suo braccio operativo. Al punto da intimidire il comandante della nave Diciotti: «Non sapevo se nell’attraccare al porto correvo il rischio di essere arrestato». Il ministro degli interni va combattuto a fondo e seriamente. Esposti e querele rischiano di lasciare il tempo che trovano.

Per fortuna dalla nostra parte abbiamo il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Fico è espressione dello stesso governo di Salvini che, dopo averlo attaccato personalmente su come si guadagna lo stipendio (ignorando che Fico restituisce l’indennità da presidente), ha buttato la palla addosso al Movimento pentastellato. Lui si trova benissimo con Di Maio e Toninelli, se i 5Stelle sono divisi è affare loro. Quanto a Mattarella «non temo il Colle, ho la coscienza a posto». Come è evidente, lo scontro politico-istituzionale è frontale, sia dentro il governo che, se non soprattutto, con l’Europa.

Oltretutto se a Bruxelles l’Italia incontra un muro sull’accoglienza, il governo è pronto a sparare cannonate sui conti pubblici e il momento si avvicina. Che il massimo dell’impegno sia riunire oggi le seconde file di dodici dei ventotto paesi per venire a capo del caso Diciotti, significa che non sarà l’Europa a fermare Salvini e i suoi amici europei. Non si può certo dire che la situazione sia eccellente anche se la confusione è grande.

La tentazione della crisi di governo per andare alle elezioni europee e fare il pieno di voti fa parte del gioco spericolato che, nei piani della Lega, dovrebbe prevedere, come suggerisce il sottosegretario Giorgietti, la riforma presidenziale e monocamerale.

Tuttavia la storia non è finita anche se le bandiere democratiche e costituzionali (in momenti come questo si sente la mancanza del professor Rodotà) sono state via via abbandonate, lasciate nelle mani di una classe dirigente e di governo che negli anni (grazie anche a Renzi, Minniti e compagni) le ha strappate pezzo a pezzo, fino a renderle irriconoscibili brandelli.

Come del resto sta succedendo alla bandiera europea, affogata nel Mediterraneo insieme ai 34.361 migranti morti per raggiungere le nostre coste negli ultimi 15 anni. Le vittime che abbiamo voluto ricordare, con nome e cognome, nell’inserto speciale pubblicato dal manifesto. Con nome e cognome perché sono persone e privarle dell’identità è disumanizzarle, a tal punto da immaginare di poterle riportare nei lager (libici). Una ferita che sfigurerebbe chiunque.

Proprio in questi giorni la Grecia festeggia l’uscita dai memorandum tornando a Itaca dopo la lunga odissea, dopo la vera e propria guerra europea contro i greci, un attacco brutale sotto gli occhi di tutti. Abbiamo visto da vicino di cosa è capace l’Europa ora che lo scenario internazionale la mette alla prova: non solo sul che fare nei confronti del governo italiano, ma verso la propria stentata sopravvivenza.

Sarebbe più che giustificato un lucido pessimismo, ma abbandonare il campo è sconsigliabile, questa è una battaglia campale che la destra italiana vuole stravincere senza fare prigionieri. L’unica via è andare controvento, i ponti da ricostruire sono molti e da qualche parte bisognerà cominciare. E Roma, a settembre, potrebbe fare al caso nostro.

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1968-2018. Se allora la sinistra avesse reagito subito diversamente, forse oggi non avremmo a che fare con una Visegrad

No, non è uguale agli altri che l’hanno preceduto questo cinquantesimo anniversario dell’agosto praghese, quando i carri armati di Mosca marciarono sulla città per mettere fine al tentativo di rendere il socialismo migliore e diverso da quello che fino ad allora era stato. Perché oggi ci impone una riflessione ulteriore, sia pure retrospettiva.

A scadenze regolari, ogni volta l’abbiamo ricordato con sentimenti diversi; la prima, quando non ricordavamo ma commentavamo l’evento che ci arrivò come una cannonata, ci fu stupore ed orrore, un dramma per noi comunisti che avevamo sperato nell’esperimento di Dubcek, e però non avremmo mai immaginato che Mosca potesse arrivare a tanto. Con malcelata soddisfazione – al contrario – fu vissuto da tutte le varietà dell’anticomunismo che dipinsero quell’attacco sovietico come se fosse stato perpetrato contro un governo gestito dai liberali anziché, come era, contro un governo di comunisti, che infatti si rifugiarono in una fabbrica – la Ckd – per tenere, difesi da picchetti operai, il loro clandestino congresso straordinario. Al primo anniversario, nell’agosto ’69, toccò al manifesto appena uscito (mentre la nostra radiazione dal Pci era ancora pendente e quell’articolo accelerò la decisione) constatare che Praga era sola.

Lasciata sola sia dai partiti comunisti che pure avevano criticato l’invasione ma non ne parlavano più, sia da quelli che avevano gridato contro tutti i comunismi, anche contro quello che veniva aggredito, ma ora avevano smesso di occuparsi della vicenda. Aveva vinto la normalizzazione, e nessuno intendeva mettere in discussione la tranquillità che forniva una coesistenza fra le due grandi potenze fondata sulla conservazione dello status quo ovunque nel globo, anche laddove ribolliva la sacrosante rivolta del terzo mondo. Ricominciarono tutti, come se niente fosse, a riallacciare rapporti con il nuovo regime di Praga, quello di Husak ( il primo viaggio nella capitale ceka, ricordo, fu di un noto dirigente del Psi).

RESTAMMO IN POCHI a ricordare la natura della«primaverapraghese» e le vere vittime dell’aggressione sovietica: i comunisti cecoslovacchi. Perché meravigliarsi che negli anni successivi quella memoria si sia via via affievolita nella stessa Cecoslovacchia, che il nome stesso di Dubcek sia stato dimenticato e la protesta abbia assunto sempre più i connotati di una spasmodica rivendicazione liberal-borghese? La solitudine di Praga, che ebbe il sostegno solo di una piccola parte della sinistra (nemmeno di tutta la nuova, quella sessantottina, che si sentì per lo più poco coinvolta, quasi la vicenda riguardasse solo i vecchi comunisti ) ebbe riflessi pesanti sui praghesi stessi. Dopo l’ultimo coraggioso ruolo di Carta 77, finì per produrre scoraggiamento e infine rimozione. Anche della migliore tradizione comunista di cui pure la Cecoslovacchia era stata ricca. Quando, poco prima dell’89, si arrivò alla «rivoluzione di velluto», la speranza di un comunismo buono era già morta, il significato della protesta era già assunto altra natura. E infatti, in poco tempo, diventò condiviso impegno per rendere al più presto il proprio paese sempre più somigliante all’agognato occidente.

GIÀ ALLA FINE del successivo decennio l’obiettivo era stato raggiunto: ricordo di aver rivisto Praga allora, dopo molti decenni. Col cuore stretto: la città già straniata, senza più né anima né mistero, la storica piazza San Venceslao non più agorà politica, stuprata da insegne di coca cola, griffes di Prada e Bennetton, una fila di «casino non stop». Sparita la magia, gli arcani, le cabale di rabbi Loev e del suo ghetto leggendario, ormai affumicato dai gas di scarico della ininterrotta fila di pulman carichi di visitatori stranieri.

MI RESI CONTO che pur essendo stata tante volte in quella città prima del ’68 non avevo più amici cui telefonare: quasi tutti quelli che si erano battuti con Dubcek, e poi con Carta 77, avevano già da decenni dovuto, o scelto, di abbandonare il paese. Dove erano finiti i comunisti? I nuovi governi, negli anni successivi, tentarono persino di rendere illegali – grazie all’ignobile equiparazione del comunismo con il fascismo – le formazioni che tornarono ad adottare quel nome. Mentre non pochi che erano stati parte dell’establishment rimasto al potere dopo la primavera si travestirono, alcuni diventarono ricchi, entrando a far parte del ceto «compradore» che l’Ue aveva cooptato in ognuno dei paesi dell’est che via via erano stati annessi, a condizione che accettassero senza fiatare quanto Bruxelles aveva già deciso nei suoi precedenti 40 anni. Babis,l’attuale primo ministro della Cechia – ormai separata della Slovacchia cui un tempo era unita – è, anche lui, uno di questi ex comunisti.

MILIARDARIO E POPULISTA. Appoggiato da chi si definisce socialdemocratico e, sia pure a malincuore, da chi oggi continua a portare il nome di partito comunista (tre suoi deputati siedono al parlamento europeo nel gruppo della Sinistra Europea).Ma il governo di Praga è oggi uno dei principali paladini del famigerato gruppo di Visegrad. Ecco perché dico che questo anniversario è diverso dagli altri: perché di fronte a un simile approdo non possiamo non ripensare a quanto quella solitudine del ’68 sia responsabile di questi mostri di oggi. La storia, lo sappiamo, no si fa con i se, ma non possiamo non dire che se allora a quell’evento la sinistra tutta avesse reagito subito diversamente, forse non ci saremmo trovati a che fare con una Visegrad. Non sarebbe stato un bene solo per l’est europeo, ma anche per la nostra sinistra.

 

Praga, agosto ’68. «I comunisti siamo noi, voi chi siete?» gridavano i ragazzi di Praga ai giovani soldati sovietici occupanti

 

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Un ponte descritto con orgoglio, come una vera e propria opera d’arte, come il simbolo di un paese in marcia verso il progresso. Ma è sufficiente abbassare lo sguardo su quelle povere palazzine di edilizia popolare, costruite prima dell’avveniristico gioiello, per capire all’istante che, senza curarsene affatto, il ponte aveva già le sue vittime da violentare e imprigionare.


Le finestre guardano il muro del pilone, aprirle non serve per respirare, soffocate come sono dal cemento che in alcuni punti è letteralmente poggiato sul cornicione. Quando le telecamere di Skytg24 lo inquadrano in primo piano si vede chiaramente il cornicione del palazzo tagliato per ospitare l’immenso lastrone.

Più efficace dei fiumi di inchiostro, basta l’impietosa fotografia per capire chi sta sopra e chi sta sotto, chi sceglie e decide e chi è obbligato a piegare la testa. Rapporti di forza nudi e crudi. Gli inquilini di quelle case, lavoratori con il mutuo da pagare, sono cittadini di serie B, e da oggi fanno parte del grande popolo degli sfollati.
Naturalmente la politica dovrebbe agire e giustificare se stessa nel cambiare lo stato delle cose e in particolare dovrebbe farlo la sinistra. Come ricordava ieri sul manifesto l’ex sindaco di Genova, Doria, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si discuteva di «modello di sviluppo», sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo.

Un passato morto e sepolto perché poi, in tappe successive e coerenti (“patto tra produttori”, “svolta dell’Eur”), si cambiava rotta per scivolare sul piano inclinato degli anni ’80 quando i modernizzatori, neofiti del modello blairiano davano inizio alla fine dell’economia politica e di una lunga storia politica e sociale. Fino agli anni recenti, ridotti alla svalutazione progressiva e senza fine del lavoro con il jobs act sul trono della disfatta, preludio del tentativo successivo di cambiare i connotati alla Costituzione e al parlamento.
Con quale voce in capitolo questa politica può presentarsi ai cittadini, di quale futuro può farsi avanguardia e interprete quando insieme a quel ponte è crollato un modello marcio di crescita senza sviluppo.

Certo il populismo penale fa impressione, l’analfabetismo istituzionale è compagno di strada di scorciatoie giustizialiste che fanno audience, ma non si combattono con i pannicelli caldi del politicamente corretto, perché non servono ad allontanare la verità di un fallimento storico. Della sinistra e di un intera classe dirigente capace di divorare il paese facendosi docile strumento della corruzione e dell’incuria. Una classe dirigente complice del disastro nel migliore dei casi, agente primario dello sfascio morale e delle malversazioni nel peggiore. E quando per costruire il futuro si deve distruggere gran parte del passato, onestamente la sinistra ha qualche difficoltà ad opporsi alle ruspe.

Non si può certo dar torto a quei familiari che hanno deciso di celebrare in forma privata i funerali dei loro parenti uccisi dal ponte di Genova. La cattiva coscienza del paese si nutre di troppe stragi impunite. Sapere chi è stato, di chi è la responsabilità del loro doloroso lutto non riporterà in vita nessuno, però farebbe giustizia di un crimine così grave, sarebbe almeno una forma di risarcimento morale. Ma tornare a credere che nel nostro paese queste vittime avranno giustizia purtroppo è un atto di fede.

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Difesa dell'ambiente. Per la prima volta in un’aula di tribunale viene riconosciuto che la Monsanto era al corrente dei rischi per la salute umana del prodotto messo in commercio

La Corte della California che, in primo grado, ha condannato la Monsanto, recentemente acquisita dalla multinazionale tedesca Bayer, a risarcire con 289 milioni di dollari il giardiniere Johnson DeWayne, per aver contratto un tumore utilizzando erbicidi a base di glifosato è, per molti versi, storica. Per almeno due ordini di motivi: il primo è che per la prima volta in un’aula di tribunale viene riconosciuto che la stessa Monsanto era al corrente dei rischi per la salute umana del prodotto messo in commercio; il secondo è che le cause contro la Monsanto sono diverse e riguardano potenzialmente anche altri pesticidi a base di glifosato, accusati di contribuire a provocare il linfoma non-Hodgkin. La bayer si difende e farà appello, ma è chiaro che coloro i quali hanno sollevato le accuse di pericolosità di questi fitofarmaci, e in Italia la coalizione StopGlifosato, di cui Greenpeace fa parte, segnano un punto a loro favore.

È dunque da una Corte degli Stati Uniti che arriva questa decisione, mentre alla fine del 2017, nonostante 1,3 milioni di firme raccolte, la Commissione Europea aveva prorogato l’autorizzazione all’utilizzo del glifosato per altri cinque anni. I Monsanto papers – ovvero una serie di e-mail interne della Monsanto pubblicate sempre da un tribunale della California – rivelarono alcune delle tattiche utilizzate da Monsanto per ottenere valutazioni favorevoli dalle agenzie di regolamentazione.

Le email fanno intuire inoltre che Monsanto possa addirittura avere scritto direttamente documenti di carattere scientifico e pagato poi scienziati indipendenti per «editarli e firmarli col proprio nome».
Questo composto, un erbicida ampiamente utilizzato per la produzione di commodities di largo consumo come il grano, si trova, in tracce, in moltissimi prodotti.  Lo Iarc – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms – lo considera da tempo come probabilmente cancerogeno per l’uomo.

Inoltre, nei fitofarmaci il glifosato – di cui esistono 750 formulazioni commerciali – è miscelato con altre sostanze (i cosiddetti «coadiuvanti») che potrebbero amplificarne gli effetti tossici.

L’Efsa – l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare – e l’Echa – l’Agenzia europea per le sostanze chimiche – lo ritengono, anche sulla base di lavori non pubblicati, “probabilmente non cancerogeno”. In polemica con questa affermazione, novantasei scienziati indipendenti, tra cui molti di quelli coinvolti nel riesame dell’Oms. Uno di questi scienziati, il dottor Christopher Portier, ha anche evidenziato che l’Efsa e l’Echa non hanno rilevato numerosi collegamenti a tumori evidenti negli studi sugli animali effettuati dalle aziende produttrici di glifosato e mai pubblicati. E tutto ciò proprio mentre negli Usa la California aggiungeva il glifosato alla lista di sostanze chimiche che possono causare il cancro.

Si può fare a meno i sostanze come il glifosato? Centinaia di migliaia di agricoltori biologici mostrano ogni giorno che è possibile controllare le erbe infestanti senza l’utilizzo di glifosato e di altri erbicidi. Nei seminativi, ad esempio, una combinazione fra rotazione delle colture e uso di colture di copertura può sopprimere la crescita delle erbacce. Per combattere le infestanti rimanenti, possono essere utilizzati mezzi meccanici (ad es. una lavorazione leggera del suolo prima della semina). E’ essenziale, però, che gli agricoltori vengano sostenuti per l’applicazione di queste misure.

Una considerazione finale riguarda poi il contesto in cui tale sentenza arriva: l’Epa – Agenzia per l’Ambiente – di Donald Trump propone di riaprire la porta a prodotti contenenti amianto (!), i cui effetti sulla salute sono da tempo ben noti a tutti, trasformando il bando totale in una valutazione caso per caso per 15 usi specifici. Il sovranismo di Trump è (anche) la reazione di alcuni vecchi settori – carbone, petrolio, acciaio e ora anche amianto – ai cambiamenti necessari per proteggere ambiente e salute.

A settembre, sempre in California, stato con la normativa ambientale tra le più severe, si terrà il Summit globale di azione per il Clima, anche per rispondere al Trump che definisce i cambiamenti climatici “una truffa”. Speriamo di ricevere altre buone notizie dalla California, che sta già pagando a caro prezzo le conseguenze dei cambiamenti climatici: l’impegno americano – e anche solo di parte degli Usa – nella sfida globale è essenziale.

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