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COMMENTI. Il testo approvato in Cdm, oltre a perseverare nel riproporre una riforma profondamente sbagliata, è quanto di più contorto e contraddittorio si possa immaginare

Legge Calderoli, il doppio gioco di centrodestra e centrosinistra 

Per chi si ferma ai titoli di testa, con il decreto legge approvato lo scorso primo febbraio dal Consiglio dei ministri (Cdm) su proposta del ministro Roberto Calderoli, l’autonomia differenziata è cosa fatta, una questione procedurale da sbrogliare in pochi mesi. È questo sentire comune che consente alla Lega di esultare, di considerare il deliberato del Cdm un risultato storico e di spenderlo in campagna elettorale per mantenere il suo potere in Lombardia.

In realtà il testo approvato in Cdm, oltre a perseverare nel riproporre una riforma profondamente sbagliata, è quanto di più contorto e contraddittorio si possa immaginare. È lo stesso Calderoli ad aver spiegato in conferenza stampa, in assenza della presidente Meloni ma in compagnia di Casellati e Fitto, che – dopo l’approvazione da parte del Parlamento, la definizione e il varo dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) – si dovrebbe arrivare a inizio 2024 con l’esame delle richieste di autonomia differenziata deliberate dalle regioni che, seguendo l’iter appena approvato, dovranno essere valutate, sottoposte a un negoziato con la presidenza del Consiglio e il ministro per gli affari regionali e le autonomie per divenire uno “schema di intesa preliminare tra Stato e regioni” da approvare in Cdm e trasmettere alla Conferenza unificata e quindi alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari che esprimono un indirizzo utile al perfezionamento di uno “schema di intesa definitivo” da sottoporre a ulteriore negoziato che porterà, infine, a un nuovo schema da approvare in regione, deliberare in Cdm e sottoporre all’approvazione delle Camere, prima che l’intesa venga sottoscritta dal Presidente del Cdm e dal Presidente della Giunta regionale e possa, infine, essere portata in Parlamento per l’approvazione definitiva con maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.

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Se lo scorso primo febbraio è stata una data storica per il progetto di autonomia differenziata, cosa si dovrebbe allora dire dell’intesa già raggiunta il 28 febbraio 2018 con la firma degli “accordi preliminari” tra il governo Gentiloni di centro-sinistra e le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto? Per capirne di più bisogna andare a leggere il resoconto della seduta della Camera dei deputati di martedì 26 settembre 2000 che aveva in discussione, e ha approvato, quel progetto di legge costituzionale. Così Umberto Bossi: “Denunziata l’ispirazione «giacobina» di una riforma improntata a rigidità e che non ha alcun contenuto federalista, preannunzia che la Lega ed il Polo si preparano a contrastare duramente una maggioranza proterva ed in cui predomina una concezione «stalinista» dello Stato”. Questo il giudizio sulla riforma del vecchio leader leghista.

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Quanto alla “proterva” maggioranza che ha fortemente voluto quella riforma si può ascoltare quello che qualche giorno fa ha detto Stefano Bonaccini, lo stesso dell’intesa con il governo Gentiloni ma ora impegnato a recuperare consensi fra gli amici del Sud nella sua corsa alla segreteria del Pd: “il Ddl Calderoli è irricevibile: spacca il paese e penalizza il Mezzogiorno”. L’applicazione della riforma costituzionale del 2001, voluta dal centro-sinistra e respinta in aula dal centro-destra, è divenuta la ragion d’essere della Lega ma è ora inaccettabile per il Pd. Misero il paese nel quale le forze politiche, per un tornaconto elettorale immediato, giocano persino con l’architettura istituzionale dello stato.

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IL COORDINATORE DEI PACIFISTI - “Di fatto siamo praticamente in un’economia di guerra, che scivola verso la rovina: tagliamo i servizi essenziali, ma intanto aumentiamo la spesa militare fino al 2% del Pil. Tra il 23 e il 26 febbraio ci sarà una nuova mobilitazione arcobaleno in 100 piazze”

Sergio Bassoli - Neutralità attiva, per una politica di pace, disarmo e per  l'Italia - YouTube

Dalla Rete italiana pace e disarmo arriva un nuovo appello alla Rai perché risolva il pasticcio di Zelensky a Sanremo con una scelta diversa: “Chiediamo agli organizzatori del Festival – si legge nel testo – che venga garantito lo spazio per una testimonianza che porti alla luce l’impegno e le scelte civili e nonviolente che contribuiscono a costruire la pace”. Il coordinatore e della Rete, Sergio Bassoli, lo spiega con parole più nette: “Perché la Rai non usa Sanremo per far conoscere l’Italia che vuole la pace? Si potrebbero far salire sul palco dell’Ariston i volontari, chi fa servizio civile, i protagonisti di una comunità che ha lavorato all’accoglienza di 250 mila rifugiati ucraini. Abbiamo una Costituzione che ce lo chiede: per ripudiare la guerra occorre costruire la pace”.

Pensate sia inopportuno ospitare un messaggio politico come quello di Zelensky al festival della canzone italiana?

Non è nemmeno questo il punto, sappiamo perfettamente che Sanremo è un contenitore dove si parla di tutto, compresa la politica. È stato fatto anche in passato. Ma ci sorprende la mancanza di delicatezza della Rai e ci spaventa l’appiattimento dell’agenda mediatica sulle solite parole: armi e guerra. Sarebbe bello se Zelensky intervenisse solo per ringraziare per gli aiuti umanitari e le carovane di volontari che hanno soccorso e ancora soccorrono la popolazione civile, ma sappiamo perfettamente che il presidente ucraino è in un tunnel in cui non può vedere la pace, ma solo la vittoria nei confronti della Russia. Noi rispettiamo senza riserve il diritto alla difesa del popolo ucraino, ma non chiedeteci di prendere parte a questa guerra. Armarsi non è la strada, ma l’errore che sta compiendo l’Occidente.

Sanremo è uno specchio dell’agenda mediatica del Paese.

Di fatto siamo praticamente in un’economia di guerra, che scivola verso la rovina: tagliamo i servizi essenziali – c’è chi fatica a ricevere cure oncologiche – ma intanto aumentiamo la spesa militare fino al 2% del Pil. Speriamo almeno di non seguire l’esempio “virtuoso” della Polonia, che l’ha portata addirittura al 4%.

Intanto la tv di Stato si è incartata in una situazione imbarazzante e vorrebbe controllare i contenuti del messaggio del presidente ucraino.

È il solito teatrino nostrano. Noi invece vogliamo restare concentrati su un impegno: dobbiamo costruire quattro giorni di mobilitazioni, tra il 23 e il 26 febbraio, in corrispondenza del primo, triste anniversario di questa guerra.

Qual è il programma?

È in costruzione. Sicuramente si partirà il 23 da Perugia, con la marcia notturna fino ad Assisi, che sarà preceduta da una fiaccolata. Poi ci saranno iniziative in tante città italiane, vogliamo arrivare a 100 piazze come a ottobre: Catania, Bari, Cagliari, Firenze, Bologna, Verona, Padova, Milano e tantissime altre. A Roma, poi, è previsto un evento a teatro il 25 sera, lo stiamo organizzando in queste ore. Non possiamo fermarci, questa è una guerra che rischia di portare alla distruzione dell’umanità. Quando il segretario dell’Onu dichiara che è stato superato il rischio zero di una guerra nucleare, significa che siamo entrati in una fase in cui quello che era impensabile è diventato possibile.

Come si mobilita ancora un movimento pacifista? Riesce a non scoraggiarsi per l’assenza di risposte?

Non riesco a capacitarmi della sordità di chi governa e di chi fa opinione pubblica: per loro il movimento per la pace non esiste, o se esiste è solo buonismo inutile, ingenuo, naïf. Eppure i sondaggi dicono che il 58% della popolazione italiana è contro la guerra e la percentuale continua ad aumentare. L’inerzia della politica è imbarazzante. In passato abbiamo avuto leader – da Andreotti a Craxi, da Berlinguer a Moro – che avevano un ruolo, sapevano dire “no”. È possibile che ora siano solo capaci di ubbidire a un disegno, che non è nemmeno europeo?

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C'è un rallentamento dell'economia che porterà a un 2023 difficile. Molti lo nascondono, bisogna intervenire con alcune priorità

Imposte locali, per chi scattano le «trappole di povertà»

l Pil del quarto trimestre 2022, dopo sette trimestri consecutivi di crescita, cala leggermente (-0,1% rispetto a quello precedente). Questo risultato non mette in discussione l’andamento positivo del 2022 (+3,9% rispetto al 2021) ma abbassa la quantità già acquisita per il 2023 al solo +0,4%. Sono sintomi di un rallentamento dell’economia che molti, ostentando ottimismo di maniera cercano di nascondere, porteranno a un 2023 difficile.

Questo calo, oltre che ai problemi collegati al dramma della guerra o all’alta inflazione, è anche frutto di un calo della domanda interna che rispecchia l’impoverimento della popolazione e la sfiducia nel futuro. Contemporaneamente, il Fondo monetario internazionale ha reso noto le sue previsioni per il 2023 sulle quali, come afferma, pesa l’incertezza di molti fattori, alcuni dei quali appena richiamati. Anche queste previsioni indicano un 2023 in consistente rallentamento: l’Italia torna a una crescita dello “zerovirgola” (+0,6% nel 2023 e +0,9% nel 2024).  

Se con una crescita del Pil di quasi il 4% nel 2022 l’occupazione rimane statica rispetto al 2019 e peggiora ancora nella sua qualità, le previsioni per quest’anno, anche per la possibile introduzione dei voucher e la liberalizzazione dei contratti a termine, sono molto preoccupanti. Con basso Pil il rischio di un accentuarsi della competizione di costo, basata prevalentemente sul peggioramento delle condizioni di lavoro, è reale e sbagliata, sia per la condizione delle persone che per il futuro del sistema produttivo.

L’Fmi prevede inoltre che l’inflazione rimanga sopra il 6% nel 2023 e che l’aumento in corso dei tassi di interesse farà sentire il suo peso nel medio periodo. La prima conferma arriva dai dati dell’inflazione di gennaio che scende, si fa per dire, dall’11,6% al 10,1%, esclusivamente per la diminuzione dei prezzi energetici. Si tratta comunque di un livello insostenibile per essere sopportato dalle persone ancora a lungo.

Questo calo, infatti, è compensato dal contestuale aumento dei prezzi dei beni di largo consumo come gli alimentari non lavorati, i servizi all’abitazione, i carburanti, eccetera: cioè aumenti che pesano principalmente sulle famiglie meno abbienti. A gennaio, l’inflazione già acquisita per il 2023, è del +5,3% e quindi, probabilmente, la previsione del Fondo Monetario sarà superata.

Il governo non affronta queste priorità, mentre la situazione richiederebbe di correggere, attraverso nuovi provvedimenti, una legge di bilancio sbagliata. I sostegni pubblici alle persone devono avere caratteristiche durature nel tempo ed essere meglio indirizzati verso chi è più in difficoltà; occorrono investimenti e incentivi prevalentemente legati a occupazione stabile e a obiettivi di sostenibilità ambientale, cancellando o riorientando molti di quelli già esistenti; un ruolo del welfare pubblico come motore sociale e produttivo; vere politiche industriali e di sviluppo per il Mezzogiorno; interventi fiscali immediati a favore del lavoro, attraverso l’indicizzazione all’inflazione delle detrazioni, meccanismo più favorevole per i redditi più bassi e la defiscalizzazione degli aumenti contrattuali.

Queste sono alcune delle priorità su cui le forze produttive e il mondo dell’associazionismo devono confrontarsi, trovare forme di condivisione e pretendere risposte dal governo. Ribadendo così il loro ruolo fondamentale nel futuro economico e sociale del Paese e di collante, uno dei pochi rimasti, tra società e Stato.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio

 

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ALTA TENSIONE . L’episodio mostra la crisi dei rapporti internazionali, in particolare in Asia - ma anche in Medio Oriente - sulla scia rischiosa della guerra in Ucraina che si sta allargando nel mondo

 All'interno della Malmstrom Air Force base di Billings in Montana - Ap

L’evento, un gigantesco pallone aerostatico bianco su cielo azzurro, che aveva del fiabesco, evocando atmosfere tra il Piccolo principe e una (augurabile) invasione aliena, si è subito invece rivelato come una specie di spy story da Guerra fredda, quando i protagonisti dello spionaggio aereo sopra l’allora Unione sovietica erano i jet americani.

Ed è subito scontro tra le «alte sfere» degli Stati. Washington ha accusato Pechino di azioni spionistica sopra una base militare del Montana con testate nucleari, Pechino abbassava i toni ma sembrava colta insieme sul fatto e di sorpresa, perché lo stesso Pentagono dichiarava che «episodi del genere» si erano già verificati, ma mai erano stati sollevati, anche perché così fan tutti.

Oltre alla perplessità che con tanto hi-tech e aerei supersonici invisibili, serva ancora un pallone aerostatico per spiare, resta l’interrogativo del perché questa rivelazione avvenga a due giorni dalla visita del segretario di Stato Usa Blinken a Pechino da Xi Jinping. Comunque sia le scuse cinesi – «è di uso civile per rilevazioni meteorologiche» – e alla fine l’ammissione del Pentagono che «non rappresenta un rischio per noi» non sono bastate a non far saltare la visita di Blinken che tra gli altri argomenti aveva anche la guerra ucraìna e, in essa, il ruolo della Cina. Un fatto è certo. Anche in questo episodio si può leggere il deterioramento dei rapporti internazionali.

In particolare in Asia, sulla scia della guerra in Ucraina. Una scia che si sta allargando nel mondo, non è un pallone gonfiato, finendo su focolai già accesi. In Medio Oriente nel silenzio generale viene colpito il centro industriale di Isfahan in Iran, credibilmente da Israele o molto più verosimilmente dagli stessi Usa che da anni portano avanti in loco una guerra coperta, e accade che da Kiev rivendichino: «Vi avevamo avvertiti». E accade che l’ineffabile segretario della Nato Stoltenberg – fuori oceano, dall’Atlantico al Pacifico – apra il suo viaggio in Asia minacciando: «Oggi la guerra è in Europa ma tra un anno potrebbe essere in Asia».
DOVE LA TENSIONE è alta su tanti dossier: a partire dall’hi-tech, con le nuove restrizioni protezioniste Usa a Huawei e per risposta quelle pronte sui pannelli solari da parte di Pechino; ma soprattutto con l’avvio di manovre militari Usa in Asia-Pacifico: dopo aver elevato i rapporti militari con Giappone e Corea del Sud, due giorni fa c’è stato l’accordo per l’accesso a basi militari strategiche nelle Filippine (in caso di guerra su Taiwan, che riarma) e anche per la produzione congiunta di armi con l’India; e nel Pacifico meridionale, dopo 30 anni riapre ambasciata Usa nelle Salomone (che hanno firmato accordo di sicurezza con la Cina nel 2022) e nuovo accordo militare con la Micronesia, etc. In questi giorni l’’organo di stampa dell’Esercito cinese definisce gli Usa «la principale minaccia alla pace dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi.

INTANTO IN CAMPO occidentale regna la dissimulazione. «Non siamo in guerra con la Russia» dice Biden, dopo l’annuncio di invio carri armati Abrams, «Non siamo in guerra con la Russia», Macron dopo la disponibilità a inviare missili, «Non siamo in guerra con la Russia» ribadisce il governo Meloni, e perfino l’ineffabile segretario della Nato Stoltenberg lo ha ripetuto di fronte alla diffusa disponibilità ad inviare nuovi tank: «Non siamo in guerra con la Russia».

L’INSISTENZA PELOSA svela però la dissimulazione sull’escalation, che la decisione di inviare carri armati rende evidente: queste nuove armi per la loro capacità, spostano l’orizzonte difensivo e si pongono sul terreno offensivo fino a poco fa negato. E la dissimulazione è ancora più evidente perché si tratta ormai di rispondere, a quasi un anno esatto dall’inizio dell’invasione russa, all’insofferenza, alla caduta di coinvolgimento per questa guerra anzi al suo rifiuto netto – come al riarmo che la sottende per riempire i depositi che si vanno svuotando – da parte dell’opinione pubblica occidentale, come dimostrano i tanti sondaggi in Italia, Germania e Francia.

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Per il costruttore dei tank più amati sul mercato è l’anno dei record

Anche perché in poche ore, l’impensabile è diventato normalità: dai tank si è passati all’annuncio dell’invio di nuovi missili a lungo raggio, con autorizzazione a colpire la Crimea – un regalo alla «popolarità» di Putin e una finestra verso la guerra nucleare; e si è aperto il dibattito sull’invio di aerei da combattimento, che in poche ore è diventata concreta possibilità, anticipazione della scellerata decisione di inviare sul campo i militari che tra un po’ emergerà.
INTANTO ZAR PUTIN, non contento del disastro provocato con l’invasione del Donbass e dell’Ucraina, sfida l’Occidente sloggiando, con la Wagner, già presente in Libia, gli insediamenti militari della Francia da sei Paesi francofoni dell’Africa, e consolida con accordi commerciali il rapporto con il Sudafrica con cui, insieme alla Cina, annuncia manovre militari congiunte. L’ombrello che contiene tutte queste crisi sembra essere proprio quello della prolungata e ormai infinita guerra ucraìna, aspettando l’offensiva russa, che ogni giorno martella e uccide senza tregua, e la controffensiva ucraina. O viceversa.

Le «alte sfere» della guerra restano in cielo. Poche le voci contrarie – oltre al papa — alla discesa verso il baratro: il capo di stato maggiore Usa, Mark Milley che insiste sulla situazione di stallo del conflitto, per il quale, dopo 200mila morti «in equa misura da una parte e dall’altra» è difficile ipotizzare il prevalere dell’uno o dell’altro, la vittoria della Russia e tantomeno quella dell’Ucraina nel suo intento di liberare tutto il Paese; più credibile, ammoniva Milley, usare lo stallo bellico per trovare «una finestra negoziale»; e in questi giorni l’ultimo rapporto della Rand Corporation, il think tank americano legato al Pentagono – che proprio per l’Ucraina, dal 2019 al febbraio 2024 aveva elaborato una «strategia a lungo termine» di scontro con la Russia – ora invece (v. Luca Celada sul manifesto ieri) dice che la guerra non può essere vinta da nessuno, che gli Usa avrebbero tutto l’interesse ad evitare il protrarsi del conflitto e adottare misure per rendere più probabile un’eventuale pace negoziata.

NON LO FA PER EMPITO pacifista naturalmente, ma perché gli interessi degli Stati Uniti sarebbero meglio serviti evitando l’escalation in Ucraina, dai forti costi e rischi – vedi le forniture di armi che svuotano gli arsenali – perché ora c’è da elaborare una strategia contro il nemico vero, la Cina. Ed ecco che rivolano i palloni.
Abbiamo una sola speranza a quasi un anno dall’invasione di Putin. Che la leggerezza impotente delle nostre solitudini esca dall’anonimato delle opinioni e dei sondaggi e scenda in campo – è già accaduto il 5 novembre – come movimento reale contro la guerra

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RIFORME. La legge Calderoli è di rango ordinario, dunque non può pretendere di stabilire come il parlamento dovrà approvare un’altra legge ordinaria, quella che recepirà l’accordo stato-regione

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?
È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?
In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?
L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è

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COMMENTI. Lettera dell'europarlamentare del Gruppo dell'Alleanza progressista di Socialisti e Democratici a Giorgia Meloni sul caso dell'anarchico detenuto in regime di 41bis

Torino, Alfredo Cospito in tele udienza davanti alla Corte foto Ansa

 

Gentile presidente del Consiglio,
Le scrivo perché spero in un suo gesto risoluto e immediato capace di salvare la vita ad una persona. Alfredo Cospito sta morendo e lo Stato e il governo dovrebbero, a mio parere, dimostrare forza e lungimiranza.

Il ministro della Giustizia può disporre il riesame del provvedimento ministeriale sulla base di un’istanza di revoca del decreto applicativo presentata il 13 gennaio, senza attendere la Cassazione. In tal modo il ministro Nordio può assumersi la responsabilità di revocare il 41bis.

In una democrazia matura lo Stato di diritto si misura con il trattamento riservato ai colpevoli. Con la certezza della pena rispetto ai reati commessi. Non voglio, Presidente, fare polemiche, né richiamare i tratti di incostituzionalità del 41 bis, se ne discuterà in altra sede, né dimostrare quanto sia ingiusto il regime carcerario applicato a Cospito. In questo momento la cosa più importante è salvare la vita di un uomo e fermare la spirale di violenza.

Non condivido nulla delle cose dette, scritte e fatte dal detenuto. Ritengo importante agire con fermezza e velocità per identificare gli eventuali responsabili di attentati e azioni che mettono in pericolo le vite delle persone.

Tuttavia penso che uno Stato robusto, consapevole della propria forza, debba reagire con determinazione, nel rispetto delle regole di cui si è dotato.

La cosiddetta tolleranza zero di cui si parla in queste ore non può prevedere vendette o extra pene per chi è già stato incarcerato e condannato.

Sarebbe un fatto di straordinaria importanza e coraggio una sua diretta iniziativa che sottragga Cospito dal maglio del 41bis. Soprattutto perché verrebbe da una leader di destra capace di riconciliazione. L’accanimento non porterà nulla di buono.

Al nostro Paese non servono capri espiatori, rappresaglie, né martiri. Non torniamo indietro, evitiamo che qualcuno accenda fuochi sbagliati riportando le lancette dell’orologio a trenta, quaranta anni fa.

Presidente, so che nel tempo della militanza, come me e come tanti altri, da opposte barricate, si è battuta per ricordare la lenta morte di Bobby Sands, patriota e rivoluzionario irlandese che si è lasciato morire nelle prigioni inglesi con uno sciopero della fame a oltranza contro il regime carcerario cui era sottoposto. Quella morte ha segnato più di ogni altra il conflitto nordirlandese e rimane una macchia indelebile sulle persone e le istituzioni che ne portano la responsabilità.

Noi non siamo in quella situazione e neanche al centro di una nuova stagione di lotte antagoniste che possano in qualche modo somigliare alla “guerra civile” di fine anni settanta inizio ottanta. E proprio per questo servirebbe un gesto, servirebbe misurare la nostra civiltà giuridica partendo dal punto più lontano, quello di un militante anarchico che deve pagare per i suoi reati, senza pene aggiuntive che sanno di rappresaglia e paura. La Repubblica italiana dovrebbe affrontare questo caso con la consapevolezza di chi sceglie di sminare e sottrarsi alla logica dello scontro frontale perché forte, solida, capace di resistere al corpo a corpo ed evitare torsioni autoritarie.

Capisco la tentazione di utilizzare il nemico interno, l’uomo nero, per lucrare consenso a buon mercato. Chi aizza gli animi da posizioni di potere commette un errore clamoroso. Mi creda, non ne vale la pena. Farei davvero molta attenzione a non alimentare una escalation che può diventare la profezia che si auto avvera, uno scontro sociale simulato, cercato dai media, che potrebbe trovare qualche cattivo interprete capace di trasformarlo in qualcosa di reale. A favore di telecamera.

Servirebbe governare con mano ferma e saggezza questa fase. Lavorare ad abbassare i toni, sottrarsi alla caccia all’uomo. Non enfatizzare. Lascerei fare alle forze dell’ordine e alla magistratura il proprio lavoro.

Ma il primo passo per non sporcare la storia repubblicana è evitare che un uomo muoia mentre è nelle mani dello Stato. E per fare questo bisogna sottrarlo al 41bis. Non c’è altro da dire. La forza si può dimostrare in tanti modi, in questo caso il modo migliore è evitare l’irreparabile

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