COMMENTI. La destra grida contro la «patrimoniale sulla casa» respingendo le nuove normative dell’Europa, perché non crede ad una politica che contrasti il cambiamento climatico
Dichiarando che la «casa è sacra», tutta la destra di governo si è schierata contro la proposta di direttiva europea che prevede regole più stringenti sul risparmio energetico delle abitazioni. Siamo di fronte ad una questione molto seria.
Gli immobili residenziali in Europa dipendono ancora in gran parte da fonti fossili, sono responsabili del 30% per cento del consumo energetico e dell’emissione di gas nocivi. In Italia poi il 75% degli edifici sono vetusti, dispendiosi e inefficienti e le bollette – a prescindere dagli aumenti attuali – incidono parecchio sul reddito delle famiglie. Ebbene, mentre l’Ue spinge perché le nostre case siano più efficienti e confortevoli, meno care e meno inquinanti, mentre invita tutti i paesi a collegare la questione dell’abitare ai processi di innovazione tecnologica e di riconversione energetica, il governo italiano risponde chiudendosi a riccio in difesa dello status quo, con le sue distorsioni e le sue palesi ingiustizie.
La destra grida contro la «patrimoniale sulla casa» dell’Europa perché non crede ad una politica che contrasti efficacemente il cambiamento climatico. Va bene il Superbonus come misura di sostegno al settore dell’edilizia e alla crescita del Pil nel 2021 e 2022, non va più bene quando si tratta di renderlo una misura strutturale dentro una visione di cambiamento profondo dei modelli di produzione e di consumo. Il 110 per cento rimane (sia pure ridotto al 90 per cento a partire da quest’anno) unicamente come misura anticiclica. Nessuna illuminazione sulla via di Damasco da parte di una destra che punta le sue carte a fare dell’Italia l’hub europeo del gas, come dimostrano gli accordi con l’Algeria, l’Egitto e altri paesi del Nord Africa e del Medio-Oriente. Continuità, dunque, nell’uso delle fonti fossili e mantenimento (temporaneo) del Superbonus senza correggerne però vuoti normativi e modalità di gestione. A questi limiti e alla mancanza di controlli si deve la sensibile impennata dei prezzi dei materiali per l’edilizia, causa non ultima del maggiore tasso d’inflazione dell’Italia rispetto agli altri paesi europei.
L’ufficio parlamentare di bilancio, inoltre, ha quantificato che, fino ad oggi, ben 40 miliardi sono stati utilizzati per la ristrutturazione di meno del 2 per cento degli immobili residenziali, riconducibili in massima parte a famiglie di reddito medio-alto. Lo Stato sta finanziando con i soldi di tutti i contribuenti l’efficientamento energetico di case e ville di cittadini che avrebbero potuto provvedere di tasca propria.
Una minoranza privilegiata di italiani vede così incrementare il valore di mercato di prime e seconde case a dispetto di milioni di famiglie che vivono in case popolari e in periferie lasciate in condizioni di degrado e di abbandono. Altro che aiuto ai poveri, di cui si vanta Giorgia Meloni! E l’alzata di scudi contro l’Europa, in questo contesto, appare demagogica e strumentale.
Questa vicenda racconta bene sia l’iniquità fiscale del nostro paese sia la difficoltà della sinistra di contrastare scelte che di fatto accollano sui più deboli perfino i costi della «transizione ecologica» delle abitazioni dei più ricchi. L’Europa, con la direttiva sul risparmio energetico degli edifici, residenziali e non, indica con chiarezza la necessità del passaggio alle fonti rinnovabili. Si tratta ora di correggere le cose che non vanno, a partire dal ruolo delle amministrazioni comunali, finora tenute ai margini. Gli enti locali devono diventare protagonisti della svolta, definire tempi e priorità degli interventi, favorire i condomini di periferia e le case popolari rispetto a ville e case unifamiliari, sostituire la programmazione alla logica degli interventi a pioggia.
Le risorse ci sono. Basta cercarle nel sistema abnorme e costoso di regalie fiscali – sussidi, sconti, agevolazioni – rivolto a particolari categorie e segmenti sociali. Un sistema iniquo e insostenibile che, invece di risolvere i problemi, monetizza tutto. Bonus al posto di diritti. Le biblioteche sono chiuse e a corto di personale, diamo un bonus a insegnanti e a diciottenni; il trasporto pubblico è al collasso e le piste ciclabili sono insufficienti, provvediamo con un bonus auto e monopattino; i centri di salute mentale sono sottodimensionati, portiamo il bonus psicologo da 500 a 1500 euro; abbiamo perfino il bonus acqua potabile e non si fa nulla per investire in una rete idrica “colabrodo”, e via continuando. Avevamo il bonus affitti per le famiglie a basso reddito, ma ora che gli affitti subiscono aumenti del 25 per cento, è sparito dai radar. Infine, il primo dei diritti, quello al lavoro, è negato e ai disoccupati e lavoratori poveri viene tolto il reddito di cittadinanza. Nessuna spending review è riuscita finora a scalfire un sistema che, per rincorrere interessi particolari, distrugge la progressività fiscale, smantella lo stato sociale e danneggia l’ambiente
Commenta (0 Commenti)«L’Italia ripudia la pace e riconosce la guerra come strumento di libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la vittoria militare su altre Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È questo il nuovo articolo 11 della nostra Costituzione.
Sarebbe questo il nuovo testo secondo la raggelante cronaca di questi giorni. A ben vedere è l’intera comunità Nord atlantica ad aver abbandonato la convinzione, inscritta nella Carta delle Nazioni unite, della guerra come «flagello», per abbracciare l’idea futurista della guerra come «sola igiene del mondo».
Chi si oppone alla logica barbarica della guerra sino alla vittoria finale sul nemico non sembra più avere voce: il papa chi lo ascolta più? I pacifisti dove sono? Si sentono unicamente discorsi che non solo danno per scontato sia necessario continuare a combattere sul terreno, ma che – proprio per questo – ci si debba organizzare per proseguire la guerra, inasprire le strategie belliche, prepararsi al meglio per la prossima «campagna di primavera». Tutti danno per inevitabile l’«escalation». Si tratta dunque di armare sempre più l’«amico» ucraino per vincere sul «nemico» russo. Delle sofferenze dei popoli non è il caso di parlare. In caso può essere utile mostrare le atrocità compiute dagli altri, mai invece quelle della propria parte.
Le stesse residue titubanze degli Stati, come quelle inizialmente mostrate dal cancelliere tedesco nell’invio di carri armati, non devono essere interpretate come un tentativo di rimettere in discussione una strategia militare, ma semmai risolte in una chiave di rilancio dell’impegno comune, che vede l’invio oltre dei carri armati tedeschi anche di quelli di produzione americana. Senza che si intraveda nessun serio sforzo per conquistare la «pace» tra i popoli e le Nazioni, per vie non belliche, ora.
La pace – si dice – sarà pur conseguita, ma solo grazie alla guerra. È quella dei vincitori l’unica pace giusta, l’unica possibile. Così, magnificando le virtù della guerra, si prospettano gli auspicati scenari futuri: la dissoluzione del regime di Putin, la conquista di tutti i territori contesi, nessuno escluso, compresa l’intera Crimea, il tracollo dell’esercito nemico.
Vengono programmati persino «attacchi difensivi» (un linguaggio che ha poco rispetto della stessa grammatica) contro obiettivi nei territori russi, perché è necessario far «sentire la guerra» nelle grandi città. Di questo passo arriveremo a Mosca.
La logica demoniaca della guerra ha ormai afferrato le menti dei commentatori. Sono stati disegnati possibili scenari apocalittici, senza rendersi conto dell’apocalisse. Così, si ammette che possa rientrare tra le opzioni possibili l’uso delle armi atomiche, visto il numero spropositato di testate nucleari di ogni tipo in possesso del despota nemico. Ma, si aggiunge con rassicurante incoscienza, è «improbabile», e semmai sarà limitato all’impiego di armi nucleari solo «tattiche» e non invece «strategiche». È messo nel conto il rischio («improbabile», ma non «intollerabile») dell’annientamento di qualche città ucraina, un azzardo che sembra potersi ritenere in fondo accettabile per salvare il resto del mondo libero. Il quale però ben si riserva – «non esclude» – nel caso di rispondere con altre armi nucleari: chissà se «solo» tattiche o anche strategiche? Il dottor Stranamore appare un pacifista al confronto.
Se questa è la voce sempre più arrogante e incosciente dei Governi alleati, sempre più stordito e insicuro appare il popolo delle Nazioni coinvolte. Diviso sull’invio delle armi ma unito a favore del popolo invaso, impaurito dal rischio di un’estensione del conflitto ma incapace di fermare la guerra.
All’inizio del conflitto, almeno, qualcuno – persino tra le massime autorità politiche, oltre alla più alta autorità religiosa – aveva indicato la via per la pace: una conferenza internazionale che coinvolgesse ed obbligasse tutte le nazioni dell’Onu ad un impegno di pace. Discorsi dimenticati. Ora sembra che nessuno ripudi più la guerra. È la pace ad essere ricusata.
Se è questo il drammatico quadro, vorrei porre una serie di preoccupati interrogativi: il primo è la domanda più classica tra tutte: che fare? Le alternative non sono molte. Si può rimanere in attesa degli eventi, sperando nella vittoria finale e confidando che non arrivi prima l’apocalisse. L’alternativa a questo scenario è quella di ricercare ancora con caparbietà una via per la pace. Se questa non è più una priorità dei Governi forse lo può diventare tra i popoli? Ma dov’è il popolo? Chi lo rappresenta? In Italia più che guardare ai partiti è forse il caso di fare appello alle formazioni sociali che hanno dato vita ad una splendida manifestazione il 5 novembre. Non basta però un giorno per sconfiggere la follia della guerra e riaffermare il testo stravolto della nostra Costituzione e di quello dell’Onu. La guerra è sempre da «ripudiare» se vogliamo salvare le future generazioni dal «flagello». È necessario rimettersi in cammino
Alfredo Cospito trasferito a Milano e ricoverato nel carcere di Opera, resta però al 41 bis. Il consiglio dei ministri affronta il caso ma se ne lava le mani. «Si deciderà nelle sedi appropriate», cioè le Corti. Per il governo di destra-destra torna il «pericolo anarchico per lo Stato»
Alfredo Cospito in una foto del 2013 - foto Ansa
Il copione è noto e sperimentato: l’aggravarsi delle condizioni di salute di Alfredo Cospito sollecita un intervento per salvarne la vita (revoca, quantomeno interlocutoria, del regime di 41 bis); intervengono in parallelo manifestazioni di anarchici caratterizzate da scontri con la polizia e attentati di matrice analoga (così, almeno presentati); il Governo e la maggioranza parlamentare fanno quadrato affermando che lo Stato non può cedere al ricatto e cercando così di chiudere con una pietra tombale (nel senso letterale del termine) la vicenda. La sequenza degli argomenti è suggestiva ma del tutto infondata.
Primo. I protagonisti della vicenda sono
Leggi tutto: Cospito, è urgente un provvedimento del ministro - di Livio Pepino
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Una vita al manifesto. Tommaso Di Francesco non è soltanto un poeta, un giornalista e uno scrittore, è anche l’intera storia del quotidiano comunista. Aveva solo 21 anni quando entrò a far parte del collettivo editoriale, nel 1969. Da allora non c’è stato giorno in cui non abbia dato il suo prezioso contributo alla realizzazione del giornale, di cui è stato prima redattore di politica estera, poi per 15 anni caposervizio, per altri dieci caporedattore, e dal 2014 condirettore insieme a Norma Rangeri.
Le sue poesie e i suoi racconti sono pubblicati su riviste italiane e straniere, a partire dal suo esordio nel 1968 su Nuovi Argomenti, diretta da Pier Paolo Pasolini. Considera la tragica evoluzione del conflitto russo-ucraino, seguito con attenzione fin dal 2014, un viaggio senza ritorno.
Direttore, non si vedono luci in fondo al tunnel della guerra. Mosca bombarda, e l’unico intervento occidentale è quello dell’invio di armi al governo di Kiev. Quanto può durare ancora una situazione del genere?
Può durare, ahinoi. La tragedia è proprio questa. Oggi sulla pelle degli ucraini e, prima o poi, anche allargandosi ad obiettivi russi. Siamo ormai quasi ad un anno dall’invasione, e l’invio di armi sostituisce una politica estera inesistente. Possiamo dirlo, una iniziativa diplomatica vera e propria non c’è mai stata. Una forte responsabilità ce l’ha Putin, che con l’invasione ha provocato il disastro che abbiamo sotto gli occhi. Facendo tra l’altro un grandissimo regalo agli Stati uniti che, da tempo, lavoravano sull’obiettivo di avere un’Europa atlantica ed a trazione Usa. Quindi con l’azzeramento di tutti gli sforzi fatti per costruire una unione continentale. Un’altra parte di responsabilità deriva dal fatto che, viste le origini e le cause della guerra, poco o niente si è fatto per spengere un incendio divampato nel 2014 con l’oscura Maidan.
Poi c’è stata l’annessione della Crimea, che è stata rivendicata con un referendum fra la popolazione. Da lì è partita la prima fase del conflitto, che ha provocato 14mila morti e due milioni di profughi. Con due tentativi di mediazione, i trattati Minsk 1 e Minsk 2, entrambi falliti. Così non si è fatto un solo passo in avanti. Anzi la situazione si è ulteriormente aggravata perché, se la Crimea è storicamente un territorio popolato dai russi, il Donbass non lo è. E non poteva essere ascritto alla Federazione Russa, come invece ha fatto Putin. Tuttavia un tentativo di mediazione c’era stato, a cominciare dalla neutralità dell’Ucraina rispetto alle alleanze militari. Invece, solo pochi giorni fa, il segretario della Nato, Stoltemberg, ha rivendicato l’entrata dell’Ucraina nell’alleanza militare. Possiamo dire allora che ogni razionalità è scomparsa, alla guerra si risponde con più guerra. E per chi ha nella propria Costituzione il ripudio della guerra, questo è un obbrobrio. L’unica speranza che ci resta è la costruzione di un movimento contro la guerra.
L’analisi più adeguata a quanto sta avvenendo sul campo sembra essere quella del Pentagono. Il capo di stato maggiore Mark Milley è stato esplicito: ‘Devono riconoscere entrambi che probabilmente non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine. E quindi è necessario volgersi verso altre opzioni’. Quali potrebbero essere?
Sembra paradossale ma, quando ci sono le guerre, i militari sono meno guerrafondai e più lungimiranti dei politici, che scambiano l’invio delle armi come politica estera. La valutazione fatta già a novembre dal Pentagono è confermata dagli ultimi dati. Più o meno ci troviamo di fronte a 100mila morti da una parte e 100mila morti dall’altra, senza contare le vittime civili. Putin dice che non mira ai civili ma in realtà la tragedia è che per terrorizzare si colpiscono anche loro, stante il fatto che c’è sempre il problema della dislocazione delle armi ucraine che mette a rischio la sicurezza della popolazione, come ha denunciato Amnesty International. Mark Milley ha ragione, la situazione è di stallo, dunque sarebbe il momento giusto per proporre una ipotesi di negoziato. Ma questa mossa non viene fatta, e così siamo sull’orlo di una crisi ancora più grave.
La fotografia del momento è quella del vertice di Ramstein, dove gli storici paesi Nato, Germania in testa, cominciano a chiedersi fino a che punto bisogna armare l’Ucraina. Mentre quelli di nuovo conio, in particolare Polonia e Paesi baltici, scalpitano per inviare nuovi aiuti militari a Zelensky. Una immagine inquietante.
Andiamo da un vertice all’altro. Ci fu quello dell’aprile scorso, incentrato sulle sanzioni alla Russia. Ma visto che le sanzioni non hanno avuto l’effetto desiderato, sono tornati a Ramstein. E sì, la Nato si è divisa, perché la Germania non vuole mandare i suoi carrarmati Leopard e, pressata dagli alleati più belligeranti, sta facendo trapelare di inviarne solo una decina, al pari di Polonia e Olanda, mentre Zelensky ne chiede centinaia. Il nuovo ministro della difesa Pistorius ha detto a chiare lettere che ci sono molte cose su cui riflettere, e che è essenziale la sicurezza della popolazione tedesca.
La Germania non può dimenticarsi di quello che è successo nel 1941, quando il regime nazista invase l’Unione Sovietica. È un precedente che influenza notevolmente la discussione in quel paese, molto meno negli altri. Per questo, di fronte alle insistenze degli Stati Uniti, la Germania ha chiesto di mettere in campo anche i carri Abrams, che gli Usa non hanno realmente intenzione di inviare. A Berlino si parla ormai apertamente di una guerra fatta per procura, e ci si chiede perché dovrebbe farla la Germania. Insomma sono scettici, perché l’invio di queste armi sempre più potenti, sempre più sofisticate, e soprattutto senza differenze fra difensive e offensive, rischia di trasformare tutti i Paesi della Nato, Polonia in primis, in cobelligeranti. È questa la tragedia che stiamo vivendo.
In questo terribile contesto, che ruolo sta giocando l’informazione?
Per avere informazioni oggettive su quello che sta accadendo, e riflessioni come quelle sui dubbi della Germania ad armare sempre più l’Ucraina, bisogna leggere il New York Times. Non l’avrei mai detto ma è proprio così, è su quel quotidiano che sono state fatte presenti le difficoltà della Germania, con il suo passato, di diventare cobelligerante a pieno titolo. Sempre il New York Times si chiede fino a che punto gli Stati Uniti possono spingere questa guerra in Europa. Domandandosi fin quando possa durare, e quale sia la linea rossa da non oltrepassare. Per certo l’amministrazione Biden è soddisfatta del regalo che le ha fatto Putin, perché con la guerra anche l’Europa che abbiamo conosciuto, l’Unione europea, si sta progressivamente disfacendo. Emerge un’Europa alternativa, prima c’è stato il patto di Visegrad e adesso quello di Tallin, a trazione americana. Non parliamo poi della Gran Bretagna, organicamente al fianco degli Usa.
Insomma l’Unione europea sta sparendo, e anche di questo Biden dovrebbe essere grato a Putin, che ha creato un Afghanistan nel cuore del vecchio continente. Un conflitto che costa un’enormità, ribaltando le priorità che dopo il Covid dovrebbero invece essere centrali, e di fronte a una crisi economica fortissima in tutti i Paesi occidentali. La priorità dovrebbe essere la salvaguardia del welfare europeo, invece stiamo salvaguardando il warfare.
Papa Francesco non perde occasione per denunciare la follia di un conflitto che, come accade in ogni guerra, provoca migliaia di vittime, sofferenze sempre più insopportabili nella popolazione civile, e immani devastazioni. Ma la sua parola, e quella del popolo della pace, non viene presa in considerazione. Che fare?
Il Papa è inascoltato, sia da Putin che dalle capitali occidentali. Si è addirittura proposto come mediatore, ma di fatto gli è stato risposto picche. Dietro questo atteggiamento dei belligeranti, in particolare della Russia, c’è anche un profondo elemento religioso e culturale. C’è l’autonomia della chiesa ortodossa da quella cattolica, e con la guerra si è addirittura consumata una rottura nella chiesa ortodossa, parte di essa è stata perfino bandita perché considerata asservita a Putin. Il conflitto ha portato il Papa ad alzare ripetutamente la voce, ma alla prova dei fatti Francesco resta inascoltato.
La sola speranza è la costruzione di un vero movimento contro la guerra. Un movimento che attraversi l’intera società. Ad esempio, è di questi giorni la scoperta al porto di Livorno di un traffico di sistemi d’arma italiani, destinati all’Etiopia. Insomma è assolutamente necessario un coinvolgimento generalizzato alle ragioni della pace. Non dimentico che già nella guerra del Golfo il movimento pacifista rimase inascoltato. Ma è l’unica vera speranza che abbiamo in questo momento.
Le accuse di putinismo si sprecheranno…
Non solo, dobbiamo subire anche lo sfottò di Giorgia Meloni, pronta a dire che la pace non si ottiene sbandierando la bandiera arcobaleno. Ma non si ottiene nemmeno inviando armi, perché se si risponde alla guerra con la guerra si diventa cobelligeranti, e non si dà alcuna prospettiva alle ipotesi di trattativa, di mediazione. Probabilmente Putin dovrà fare passi indietro, per arrivare a una Minsk 3. Questo vorrebbe dire riconoscere che il Donbass è all’interno di una struttura federale, che pure al momento non c’è, dell’Ucraina. E stabilire che quelle popolazioni hanno diritto di voto per decidere come e dove devono stare.
Inoltre è fondamentale la questione della neutralità dell’Ucraina rispetto alla Nato. Anche se Putin e Zelensky non saranno d’accordo, bisogna battersi per questo. Altrimenti diventiamo cobelligeranti, la guerra si allarga, l’escalation continua, e noi ci ritroveremo fra un anno con altre centinaia di migliaia di morti, fra cui molti civili, e il solo risultato della devastazione di parte dell’Europa. Mentre nel frattempo l’Unione europea sarà di fatto scomparsa.
l Roma, 19 gennaio 2023
Commenta (0 Commenti)In un'intervista a La Repubblica il segretario generale della Cgil critica le azioni dell'esecutivo Meloni a cento giorni dal suo insediamento
Questo governo spacca il Paese, pensa di poter cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza e sta di fatto delegittimando i corpi intermedi convocando tavoli di confronto finti". Così Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, in una intervista al quotidiano La Repubblica, a proposito delle parole del ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara sugli stipendi degli insegnanti differenziati tra Nord e Sud. "Sono parole pericolose - dice Landini - non solo perché così si torna alle gabbie salariali. E perché siamo in piena emergenza salariale per tutti i lavoratori italiani. Ma perché il governo non ha stanziato nemmeno un euro per rinnovare i contratti pubblici nel triennio 2022-2024. Né sta agendo per una vera riforma che colpisca l'evasione fiscale e la rendita finanziaria e consenta di ridurre il carico delle tasse su buste paga e pensioni. Anzi discute di autonomia differenziata e presidenzialismo".
E poi c'è il tema dell'autonomia differenziata che Landini considera "una scelta sciagurata perché divide il nostro Paese e non supera né il divario territoriale né le disuguaglianze. E quindi è pericolosa. Pensare che in un contesto come quello attuale, di guerra e ridefinizione degli equilibri globali, si stia meglio nelle piccole patrie regionali è follia e bugia pura". Come pure l'idea di differenziare le retribuzioni degli insegnanti su base regionale, "in un Paese con gli abbandoni scolastici più alti e il numero più basso di laureati d'Europa, sta dentro un progetto più ampio che punta a mettere in discussione la scuola pubblica, i diritti e l'unità del Paese. Quando invece bisognerebbe discutere di applicare la nostra Costituzione, garantendo tutti i diritti a tutti i cittadini, dalla sanità alla scuola e al lavoro stabile. Ma di questo il governo non parla. Si limita ad ascoltare e a convocare tavoli finti".
Il leader della Cgil oltre al merito critica anche il metodo di questo governo che convoca le parti sociali ma in realtà "sono incontri finti, tavoli megagalattici dove tutti parlano e nessuno risponde. Non abbiamo risposte alle proposte unitarie di Cgil, Cisl e Uil sulle pensioni, sul lavoro precario, sulle crisi industriali, sul fisco, sulla lotta all'evasione, sulla salute e sicurezza dei lavoratori. L'unità del Paese si incrina anche delegittimando i corpi intermedi in una logica corporativa di soluzione dei problemi. Non a caso su fisco e salari non esistono tavoli". Per Landini l'ascolto non basta "se poi il governo decide in solitudine. Questo è l'esatto contrario della democrazia, perché riduce gli spazi di mediazione, aumenta la frammentazione sociale. Se la politica di destra cerca di uccidere la rappresentanza sindacale, fa un grave errore. E noi non faremo da spettatori".
Sui primi cento giorni del governo Meloni il giudizio della Cgil è decisamente negativo. "La prima legge di bilancio è sbagliata perché reintroduce i voucher e amplia flat tax e condoni. Ora proveranno a liberalizzare i contratti a tempo. E non c'è alcun confronto sulla riforma del fisco. Si punta a fare dell'Italia l'hub del gas, una fonte fossile che va superata entro il 2050, quando dovremmo essere l'hub delle energie rinnovabili perché siamo al centro del Mediterraneo e abbiamo acqua, sole, vento non privatizzabili. È il momento di una nuova politica industriale. E invece si prefigura un folle aumento delle spese militari. Bisogna fermare la guerra e lavorare per costruire la pace e la giustizia sociale, come ci ha detto la piazza di Roma del 5 novembre".
L'idea della settimana lavorativa di quattro giorni a parità di salario sarà uno dei temi che verranno affrontati al congresso di metà marzo a Rimini. "L'innovazione e le tecnologie digitali - dice Landini - hanno cambiato il lavoro, aumentando la produttività e i profitti. È il momento quindi di recuperare due obiettivi: la redistribuzione e la piena occupazione. Oggi le persone cercano un lavoro di qualità, non solo stabile e ben retribuito, ma con meno ore di cui alcune dedicate alla formazione e più tempo di vita".
La riforma fortemente voluta dall'allora premier Renzi e contrastata duramente dalla Cgil ora è criticata anche dal Pd. Ma la frattura tra la politica e il mondo del lavoro, secondo il segretario generale di Corso Italia, è iniziata prima, "con gli interventi sulla precarietà sia dei governi di destra che di sinistra. Ricordo che quasi la metà dei cittadini italiani non vota e sono quelli che stanno peggio. La politica deve capire che o si riparte dal lavoro o non si riparte. Non ha senso aumentare la precarietà e contrapporre lavoratori dipendenti e autonomi, come fa questo governo. Non ha senso cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza. Sull'articolo 18 avevamo ragione noi, sì. Per questo serve un nuovo Statuto dei lavoratori"
Commenta (0 Commenti)Non una parola sul fatto che, a più di 11 anni dalla uccisione di Gheddafi, la Libia non abbia mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati per l’ingresso legale delle agenzie Onu
Il tavolo italo-libico di ieri
Gas contro profughi: la sintesi è quasi brutale ma è la sostanza del viaggio della premier Meloni a Tripoli di Libia. L’Italia con l’Eni investirà 8 miliardi di euro nel gas offshore libico da immettere nella pipeline Greenstream tra Mellitàh e Gela (attiva, a singhiozzo, dal 2004) e in cambio i libici si impegnano, assai vagamente, a tenere sotto controllo i flussi dei migranti che gli scafisti rinchiudono in luoghi disperati e miserrimi che sappiamo corrispondono a carceri e a campi di concentramento.
SE TUTTO QUESTO «aiuta gli africani a crescere», come ha dichiarato Meloni, andiamo proprio bene. In realtà consideriamo la Libia come una pompa di benzina. Anche perché la premier ha fatto uno scivolone affermando di voler «potenziare» la guardia costiera libica – nel solco coloniale già tracciato dal ministro «democratico»Minniti. Autorevoli organismi dei diritti umani delle Nazioni Unite ed europei (con Human Right Watch e Amnesty International) hanno infatti più volte confermato quello che è visibile a tutti: in Libia vengono commessi crimini contro l’umanità e l’appoggio alla cosiddetta guardia costiera è in realtà un sostegno alle milizie tribali responsabili del traffico di essere umani, di violenze e stupri, oltre che colpevoli di alimentare il conflitto interno, allontanare la riconciliazione e ogni prospettiva per un processo elettorale credibile (le elezioni previste nel 2021 sono state rinviate sine die).
Cinque motovedette a Tripoli per fermare i migranti
LA LIBIA RIMANE l’impietosa cartina di tornasole dei nostri errori. Come del resto già accadeva al tempo degli accordi stretti da Gheddafi con l’Italia nell’agosto del 2010, sei mesi prima di bombardarlo insieme a Usa, Gran Bretagna, Francia e Nato: il raìs fu ricevuto a Roma in pompa magna, con sfilate di cavalli e cammelli a Tor di Quinto e le mani tese di politici e imprenditori sul piatto d’argento del dittatore che prometteva 55 miliardi di euro di affari (non gli 8 miliardi gas di oggi). Come si vede le nostre quotazioni, ma anche quelle della sponda Sud, a distanza di qualche anno sono alquanto scese.
DEL RESTO NEL 2011 non abbiamo avuto neppure il coraggio di dichiarare una doverosa neutralità nel conflitto libico come fece invece la Germania. Insomma quello che lo storico socialista Gaetano Salvemini definiva nel 1911, con una dose di sano ma non apprezzato anti-colonialismo, uno «scatolone di sabbia», poi tragico teatro negli anni Trenta di un massacro di 80mila libici (su una popolazione allora di 800mila persone) attuato dal fascismo e dal generale Graziani, in realtà è la triste matrioska dei nostri errori, che escono in sequenza uno dopo l’altro, passando da un secolo all’altro, da un governo all’altro.
Il viaggio in Libia della premier segue quello appena compiuto in Algeria, alleato storico di Mosca, in un tour del Nordafrica dove l’Italia si gioca gli ultimi spiccioli di una credibilità basata in questi decenni più sulla costante presenza dell’Eni (che fornisce alla Libia l’80% dell’elettricità) che sulla politica balbettante dei nostri governi, per altro regolarmente sabotati, sotto lo sguardo degli Usa, dai nostri alleati di Parigi e Londra. «Bisogna evitare il rischio che alcune influenze lavorino per destabilizzare il quadro piuttosto che favorirlo», ha sottolineato Meloni, il cui scopo principale è «fermare i profughi» e scansare, forse senza riuscirci, nuove trappole, libiche ed europea.
IL PREMIER LIBICO Abdelhamid Dbeibah ieri gonfiava il petto alla sfilata del picchetto militare ma è un personaggio vulnerabile come del resto il suo predecessore Sarraj – unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale – che nel novembre 2019 chiedeva all’Italia un aiuto per respingere il generale libico Haftar: al nostro posto intervenne con i droni Erdogan, il Sultano della Nato, che per sbeffeggiarci imbarcò i suoi militari sulle motovedette da noi regalate ai libici.
DALL’ALTRA PARTE, in Cirenaica, con Haftar sono schierati i mercenari russi della Wagner, i britannici,gli Emirati, i francesi, che fanno una politica ambigua, e l’Egitto del generale-presidente Al Sisi. Anche il generale egiziano con il suo gas rientra nel progetto del “Piano Mattei” della premier Meloni di fare dell’Italia un hub dell’energia: basta che accettiamo le sue miserabili bugie – alle quali finge di credere soltanto il ministro degli esteri Tajani – di volere «collaborare» sulla verità per Giulio Regeni. Le carte della procura di Roma sui poliziotti e gli agenti dei servizi che hanno torturato e ucciso Giulio sono chiare ma le notifiche del procedimento non sono mai state recapitate agli imputati dal Cairo. E forse mai accadrà.
NON UNA PAROLA è stata spesa a Tripoli sul fatto che a più di 11 anni dall’uccisione di Gheddafi la Libia non abbia mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, l’unico strumento legale che consentirebbe l’ingresso delle agenzie dell’Onu per fornire ai migranti un’assistenza più umana. Oggi chiunque entri senza un visto in Libia è considerato un clandestino, privo di qualunque protezione umanitaria e politica. La Libia di fatto è fuori dalla comunità internazionale ma di questo non si fa cenno qui e neppure in sede europea. Non basta, un rapida abbronzatura di qualche ora a Tripoli o ad Algeri per avere una politica mediterranea
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