COMMENTI. Sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella non emerge il diktat al mondo di quell’11 settembre, né la lezione di civiltà del personale dell’ambasciata d’Italia a Santiago
Santiago, Mattarella depone una rosa per le vittime della dittatura in Argentina - foto Ap
Gli articoli di giornale e i lanci delle agenzie del 6 luglio scorso, con cui si riferisce sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella in Cile, aprono con l’affermazione secondo cui «anche un politico ligio e attento come Aldo Moro violò la prassi. E da ministro degli Esteri autorizzò per iscritto l’ambasciata italiana a Santiago ad accogliere gli esuli cileni che cercavano rifugio dalla dittatura di Augusto Pinochet».
Difficile, per chi ha respirato la speranza di cambiamento di quegli anni, non ricordare la frenesia e la tragicità della mattina dell’11 settembre 1973 a Santiago: i carri armati nelle strade, l’aviazione che bombarda il Palazzo della Moneda, lo sbaragliamento di qualunque disorganizzato tentativo di resistenza popolare, la caccia all’uomo, i detenuti trascinati a forza nello stadio dove saranno in gran parte torturati e uccisi, la ricerca affannosa di una via di fuga da parte di coloro che durante il governo di Unidad Popular avevano partecipato alla vita politica, sindacale, culturale. Tutto sotto l’occhio impietoso della televisione, utilizzato ad arte come moltiplicatore della decisione a schiacciare la volontà del popolo cileno con l’uso della forza e del terrore.
Facile immaginare – in quell’Italia che tanto somigliava politicamente al Cile, con un Pci in crescita che appariva destinato a entrare in area di governo – l’accavallarsi delle telefonate tra i soggetti politici, quelli della sinistra in primo luogo ma anche con la Dc e poi, soprattutto, le chiamate, le visite, i contatti informalmente esplicativi tra l’ambasciata Usa e la Farnesina.
Tutto questo, mentre anche l’ambasciata d’Italia era presa d’assalto, come tutte le altre a Santiago, da un’alluvione di disperati in fuga per la vita. E cosa avrebbero mai dovuto fare i nostri funzionari in quei momenti, davanti alla propria coscienza, al proprio senso dello Stato, all’opinione pubblica italiana di quegli anni, se non spalancare i cancelli, agevolare l’entrata, aiutare a salvarsi quanta più gente possibile, anche, è importante ricordarlo, mettendo in certe occasioni a rischio la propria vita?
La frase riportata all’inizio degli articoli e dei lanci di agenzia, alquanto infelice, in verità, sembra in fin dei conti evidenziare come, oscillando tra la montante pressione dell’opinione pubblica italiana, l’incalzare degli eventi e la cosiddetta solidarietà occidentale, non senza tentennamenti, la Farnesina abbia dovuto legittimare il fatto compiuto, pur consapevole delle turbative che ne sarebbero derivate nei rapporti bilaterali con i golpisti cileni e i dissapori con la superpotenza a monte.
Da quel momento, tuttavia, il non detto della politica italiana verso il Cile deve essere stato uno solo: agire per così dire di sponda, fare in modo da poter cambiare rotta, ricucire lo strappo salvando le apparenze, esibire mediaticamente sdegno e allo stesso tempo far capire che lo si faceva non senza rammarico…in una parola, tendere verso una normalizzazione strisciante con il macellaio di Santiago, il generale Pinochet, che era pur sempre, scusate la franchezza, «il nostro figlio di puttana».
Così è stato, anche se ci sono voluti mesi e mesi, sostituzioni, partenze, una sapiente opera di dosaggio e diluizione del nucleo di personale originariamente in servizio quell’11 settembre a Santiago, nella disgiuntiva in cui veniva uccisa la speranza di un nuovo umanesimo nel mondo occidentale. Con una brutalità spinta al massimo, in quanto strumento indispensabile per piegare un popolo libero ad accettare il neoliberismo, come sarebbe poi stato fatto anche in Argentina. Perché, diciamocelo, il neoliberismo era, ed è, brutalità, economica in primis, ma non solo, radicalmente incompatibile con la normativa a tutela dei diritti umani, che pure all’epoca era la bandiera ideologica del mondo occidentale.
Ci vorrà oltre un anno, prima che il giro di boa possa venir completato. L’accordo verrà raggiunto nel dicembre 1974: i rifugiati verranno accolti in Italia; l’ambasciata alzerà il muro e vi installerà la concertina; i militari cileni aumenteranno la sorveglianza esterna; l’ultima porta verrà garbatamente chiusa a Santiago. E i rapporti diplomatici bilaterali verranno gestiti senza pena e senza gloria a livello d’Incaricatura d’Affari, in attesa di tempi migliori.
Gli articoli di giornale e i lanci d’agenzia sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella non sembrano dare compiutamente atto alla complessità del passaggio nodale imposto alla storia dell’umanità quell’11 settembre, così come sorvola sulla lezione di civiltà silenziosamente e spontaneamente impartita dal sommerso personale dell’ambasciata d’Italia a Santiago in quei momenti, che nulla ha chiesto e nulla ha avuto, tranne l’enorme privilegio di salvare vite umane.
Va tuttavia detto che la fine del testi giornalistici contiene un riferimento storicamente, a mio avviso, importante, nel riconoscere che quello di Allende fu un nobile, nobilissimo suicidio, che lo pone all’altezza degli eroi shakespeariani della Roma antica: con l‘unico fine di non permettere che la persona del Presidente democraticamente eletto dal popolo cileno finisse nelle mani macchiate di sangue del tiranno made in Usa.
* Ex diplomatico italiano, è stato console a Buenos Aires negli anni ’70 del secolo scorso. Nel settembre del 1974, poco dopo il primo anniversario del golpe di Pinochet, veniva inviato in missione per tre mesi presso l’ambasciata d’Italia a Santiago, che all’epoca ospitava 250 rifugiati cileni.
Rientrato presso il Consolato a Buenos Aires, assisteva al montare della violenza che sarebbe sfociato, il 24 marzo del ’76, nel sanguinoso golpe di Videla. Lasciava l’Argentina nel maggio del 1977