NUOVO PD E RECALCATI. Lo psicanalista dalle pagine dalla Stampa definisce “massimalisti” coloro che ancora si rifanno all’ eredità costituzionale, mentre definisce “riformisti” coloro che da tempo hanno imboccato la strada “controriformistica” incostituzionale sancita dal job act
In un recente articolo su “La Stampa” Massimo Recalcati scrive, a proposito del PD, dell’inconciliabilità fra “riformismo” e “massimalismo”, accusando di strabismo e psicosi Elly Schlein per voler tenere assieme queste due anime.
Ma il discorso dello psicoanalista muove da un depistaggio linguistico e cognitivo che peraltro lo allinea con il senso comune mediatico da tempo diffuso. Infatti è chiaro che quando parla di “riformisti” si riferisce a coloro che da anni sostengono che per affrontare i problemi sociali del nostro tempo non metta conto di criticare né il capitalismo né la sua forma neo-liberista, bensì piuttosto di governare la globalizzazione procedendo nelle riforme utili a meglio cavalcarla: e cioè tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, passaggio dal welfare al workfare, incentivi alle imprese, flessibilità, innovazione e promozione del merito e dell’eccellenza.
Nel nuovo millennio si è iniziato tossicamente ad utilizzare la parola riformismo per indicare questi orientamenti che, dal punto di vista della tradizione storica riformista – che evidentemente Recalcati evoca quando la contrappone al massimalismo – erano da derubricarsi come controriforme.
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Il riformismo, infatti, contrapposto al massimalismo, da Filippo Turati fino alle riforme di struttura di Riccardo Lombardi, si riferiva all’idea di una trasformazione del capitalismo attraverso un metodo graduale e democratico, nella direzione di un equilibrio di forze fra capitale e lavoro, tale da limitare le diseguaglianze e garantire a tutti i soggetti dignità e benessere. Il massimalismo si distingueva dal riformismo non per una differenza di valori, bensì per l’idea che fosse necessaria una rottura radicale per conseguire quel risultato, da spingere fino a un effettivo superamento del sistema capitalistico. Riformisti e massimalisti si ritrovarono assieme nell’antifascismo, nella resistenza e poi nella costituente.
La Costituzione repubblicana è il frutto del compromesso fra riformisti di stampo radical-democratico, cristiano-sociale e socialista e massimalisti social-comunisti (anche se Togliatti non avrebbe accettato la qualifica) che, con la resistenza dei settori liberali puri, ormai minoritari, scrissero una costituzione che, oltre al rispetto e alla promozione di tutte le libertà civili e del pluralismo politico, sostiene la necessità dell’intervento dello stato nell’economia e nella società, la progressività fiscale, la possibilità di esproprio salvo indennizzo per motivi di utilità pubblica, la centralità del lavoro (e non del capitale e dell’impresa), il ripudio della guerra che non sia per la difesa della patria. Questo perché il fascismo era stato appunto protagonista della repressione violenta dell’autonomia popolare che, a cavallo della Grande Guerra, spingeva in avanti i processi di democratizzazione del paese.
Recalcati, invece, definisce “massimalisti” coloro che ancora si rifanno, in modo più o meno adeguato, all’ eredità costituzionale, mentre definisce “riformisti” coloro che da tempo hanno imboccato la strada “controriformistica” incostituzionale sancita infine dal job act e dalla costituzionalizzazione del pareggio del bilancio, per fare solo due esempi eclatanti.
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Se quelli che Recalcati chiama ”massimalisti” sono dunque coloro che dentro il PD hanno sia pur flebilmente mantenuto, o stanno recuperando, il richiamo al vero riformismo, alla costituzione e all’antifascismo, i massimalisti sono ormai in Italia fuori dal gioco politico, o interni alle piccole formazioni a sinistra del PD. Per trovare del massimalismo all’opera con una qualche incidenza politica bisogna guardare fuori dai confini nazionali, ad esempio in quelle repubbliche curde minacciate dall’alleato turco della Nato.
Il vero dramma del PD e dell’opposizione (compresa quella dei cinque stelle) non è la divisione fra “riformisti” e “massimalisti”, come dice Recalcati, bensì fra chi ha mantenuto l’ancoraggio alla costituzione repubblicana e chi invece da tempo ha abbracciato il riformismo neoliberista (ovvero il controriformismo) oggi peraltro al governo (nella versione neoconservatrice) senza più alcun contrappeso e pudore.
Questa è la vera inconciliabilità che passa dentro i due principali partiti del centrosinistra (anzi, per rubare il mestiere a Recalcati, spesso dentro i singoli dirigenti e militanti) ma anche nel campo largo, dato che il terzo Polo, va ovviamente classificato come un attore della grande rivoluzione passiva neoliberale (nella versione, seppur blandamente, liberal-progressista)