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DEFINIZIONI. L'Odg nazionale e quello del Lazio adottano la definizione di antisemitismo dell'Ihra, che colpisce anche chi critica le politiche dello stato israeliano

 Una manifestante israeliana durante una protesta contro il governo Netanyahu - Michele Giorgio

Una guerra di parole contro lo stato di Israele? Fiamma Nierenstein (Il Giornale, 27 giugno) lancia un’accusa assai veemente contro chiunque oggi metta in dubbio la definizione di antisemitismo proposta dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). Definizione recentemente sottoscritta dall’Ordine nazionale dei Giornalisti, e da quello del Lazio in particolare.

Un fatto grave, che ci riguarda tutti come cittadini: una sorta di autocensura preventiva che viola il nostro diritto all’informazione. L’Ihra, fondato nel 1998, è un’organizzazione intergovernativa cui aderiscono 35 stati (quasi tutti quelli europei più Israele, Stati uniti, Canada, Australia e Argentina).

La «definizione operativa» di antisemitismo fu adottata in seduta plenaria a Bucarest nel 2016; secondo il sito dell’Ihra, 38 paesi l’hanno adottata, tra questi anche l’Italia. Sotto la lente dei suoi critici, sempre più numerosi, non sono tanto le pur vaghe due frasi che ne costituiscono il corpo («L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può esprimersi come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni di antisemitismo sono dirette contro individui ebrei o non e/o contro la loro proprietà, contro le istituzioni e i beni religiosi della comunità ebraica»), ma alcuni degli 11 esempi che sostanziano la definizione, sette dei quali si riferiscono a Israele, e in particolare quelli che equiparano all’antisemitismo la critica del sionismo politico, inteso come ideologia che giustifica il carattere etnico dello stato «ebraico» di Israele e ispira la politica dei suoi governi.

Già dire «Palestina libera», a questa stregua, è antisemita, perché mette in questione l’esistenza di Israele. A parte il fatto che con le nuove centinaia di migliaia di coloni che l’attuale governo promette di insediare nel poco che resta di Cisgiordania, se c’è qualcuno che sta vanificando la soluzione a due Stati non sono certo i palestinesi, a cui non è rimasta letteralmente la terra per averne uno.

Ne ha preso atto anche una delle riviste internazionali più prestigiose, Foreign Affairs, che nel numero di maggio/giugno pubblica un saggio a firma di Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami, Israel’s One-State Reality: «Una soluzione a uno stato…esiste già, comunque la si pensi. Tra il Mediterraneo e il Giordano, un solo stato controlla l’entrata e l’uscita delle persone e dei beni, presiede alla sicurezza, e ha il potere di imporre le sue decisioni…a milioni di persone senza il loro consenso».

Ma poi, perché mai auspicare la liberazione di un popolo sarebbe auspicare la distruzione di un altro? Per dirla, ancora una volta, con gli autori di Foreign Affairs, «una realtà a uno stato potrebbe, in linea di principio, basarsi sul principio democratico e uguali diritti di cittadinanza», anche se non è questo lo stato presente.

«Tra l’identità ebraica di Israele e la democrazia liberale, Israele ha scelto la prima. Ha blindato un sistema di supremazia ebraica, dove i non-ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi in uno schema a strati: alcuni non ebrei hanno la maggior parte, ma non tutti, i diritti che hanno gli ebrei, mente la maggioranza dei non ebrei vive in condizioni di grave segregazione, separazione, e soggezione».

Appunto. Se l’Onu e le altre agenzie internazionali hanno prodotto la montagna di risoluzioni che i governi di Israele hanno violato, primo tra tutti il diritto al ritorno dei palestinesi cacciati dalle loro terre, una ragione ci sarà. Una norma universale che valga un po’ sì e un po’ no è ancora una norma? Ma la norma dell’eguaglianza in dignità e diritti, purtroppo, è irrimediabilmente lesa.

Non dal sionismo in generale, dato che tante versioni ce ne sono state, ma certo da quello cui si ispira la Legge dello Stato-nazione, approvata nel 2018 («emblema stesso del sionismo» la definì il portavoce della Knesset), con la sua distinzione tra due categorie di cittadini – quelli che godono, e quelli che non godono, dei diritti «nazionali». Riferendosi alla quale Netanyahu poté affermare che «lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente».

Ecco: ma deve forse esserlo, è nella sua natura discriminare all’interno categorie di cittadini e all’esterno espandere sempre di più l’occupazione illegale di terre non sue? Uno si aspetterebbe che la risposta non antisemita sia: no, certo! Tanto più adesso, quando i coloni compiono pogrom nei villaggi palestinesi e leader al governo si esprimono con linguaggio genocidario e molti israeliani esprimono il loro dissenso dall’attuale governo.

Ma la perversa logica della definizione accusa di antisemitismo proprio la posizione critica, secondo cui la postura identitaria etnica non è l’essenza di Israele, ma riguarda solo le pessime politiche dei suoi governi, e di questo in particolare. E come può un’agenzia di verità come dovrebbe essere la stampa far proprio un simile decreto, fatto per zittire tutte le posizioni critiche, e ledere il nostro diritto all’informazione?