REGIONALI. Non basta denunciare una cattiva politica, spesso corrotta. Ma dare fiato a una cittadinanza ricca di comunità solidali che il centrodestra si augura diserti le urne
La minaccia climatica, drammatizzata dall’escalation degli scontri bellici, si fa di giorno in giorno più irreversibile. Il futuro si rappresenta nella metafora del “Doomsday Clock” che segna meno di 900 secondi all’Apocalisse. E’ in questo quadro di cui poco si discute che La Lombardia si trova impegnata in una campagna elettorale insolitamente breve.
La regione era, a fine del millennio, la più florida d’Italia: tuttavia la sua corsa cominciava a frenare. Non solo perché la sua capitale – Milano – assumeva un rango internazionale a spese di una periferia declassata, ma anche per il languire negli storici distretti industriali di una manifattura competitiva, ma non più in funzione strategica, ridotta a indotto delle multinazionali. Un declino ben visibile nella sanità che, a seguito delle incursioni private, perdeva integrazione col territorio per distinguersi in una concorrenza fatale per i diritti degli assistiti.
Eppure, nonostante gli attacchi delle giunte Formigoni, è rimasta viva ancor oggi una tensione sociale verso una società della cura, animata da diffuse pratiche di un volontariato che cerca di supplire al regresso del pubblico, memore ancora del robusto legame che scienziati e medici a vocazione popolare tenevano con le organizzazioni dei lavoratori e dei delegati nelle fabbriche (si pensi a Maccacaro, Laura Conti, Berrino, Luigi Marra, i libretti sanitari di rischio, la fondazione Ambiente-Lavoro).
La pesante torsione, da diritto ad assistenza caritativa, è stata guidata dalla politica in una anticipazione di portata nazionale.
Le prossime elezioni hanno però alle spalle la predicazione di Bergoglio e una consolidata coscienza laica del legame stretto tra giustizia climatica e giustizia sociale. Possibile che questo arco drammatico di tempo, che ha visto seccare i fiumi, sparire la neve, balenare lampi di guerra ad ogni accensione di Tg, non agisca sui risultati del 12 Febbraio? Tocca alla sinistra trasformare lo spazio in tempo, cioè prevedere sulla base delle emergenze che ci circondano quale futuro costruire per garantire la sopravvivenza umana e della natura dando un senso al tempo di lavoro e all’occupazione.
I responsabili ed eredi del declino (da 28 anni governano le destre) si prodigano ad affastellare riunioni con ministri schierati in bella vista, o a visitare con pullman itineranti i luoghi di assistenza caritativa o le scuole parificate verso cui le loro Giunte sono state prodighe, raccontando una Lombardia autosufficiente, chiusa nella frottola dell’autonomia differenziata.
Per vincere non basta denunciare un’amministrazione spesso corrotta. Occorrerà dar fiato ad una cittadinanza ricca di fermenti, associazionismo, intelligenze, comunità solidali, luoghi che uniscono sapere a convivialità: una società sconosciuta al centrodestra, che si augura semplicemente che quel patrimonio collettivo non vada al voto.
L’esperienza da me vissuta nell’Associazione laica della “Laudato Sì”, a contatto con gli ultimi della Casa della Carità di Colmegna, mi aiuta a capire come non si possa far politica senza porre a discriminanti il clima, le guerre, il pericolo nucleare, le disparità sociali e sul lavoro, le migrazioni. Ed è per questo che l’educazione e la scuola, il degrado della biosfera e una guerra insensata di cui siamo cobelligeranti, devono essere portati all’attenzione di chi ha il dovere di votare, oggi più che mai.
L’educazione e la scuola, perché in Lombardia non si è fatto nulla per la formazione degli insegnanti su clima, energia, scarti e vivente, se non nel campo del volontariato, che, non a caso, presenta nelle liste che sostengono Majorino una candidata che proviene dall’Associazione “Laudato Sì”.
La guerra, perché la società e la struttura economica della Lombardia, sede dell’arsenale Nato militare e soprattutto nucleare, oltre che del più nutrito settore di produzione militare aerospaziale e delle armi leggere, non ne sono affatto estranee. Qui Leonardo conta su sette unità produttive di elicotteri, velivoli, droni per le guerre. In termini di fatturato è la prima impresa militare nella Ue. Vende caccia all’Arabia Saudita, per far stragi di civili in Yemen, mentre gli elicotteri Agusta sono usati dalla Turchia contro i Curdi. C’è da chiedersi: cosa stiamo inviando da qui in Ucraina, visto che gli elenchi sono secretati?
I cacciabombardieri F35 vengono dispiegati a Ghedi (Brescia) per il trasporto di 40 bombe termonucleari B61-12 in sostituzione delle B61-3 e 4. Le nuove bombe sono la prima arma nucleare adattabile a rese diverse, da 0,3 a 50 chilotoni e possono avere sia un uso tattico, sia arrivare ad esplodere sotto la superficie terrestre con una resa equivalente ad 83 bombe di Hiroshima.
Il successo di Majorino sarebbe più che un granello di sabbia nell’ingranaggio del truce armamentario delle destre al governo. Perciò sarebbe bene che gli elettori lombardi riflettessero anche su tutto quanto potrebbe drammaticamente accorciare il futuro delle nuove generazioni
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LEGGE CALDEROLI. Nella sanità per avere una eguaglianza sostanziale non basta una eguaglianza formale
Il regionalismo differenziato già esiste (4 Regioni), è previsto dalla Costituzione (riforma 2001 del titolo V) che va applicata; inoltre si tratta di una proposta del centro sinistra, e prima di fare il regionalismo differenziato c’è da garantire l’universalismo delle prestazioni.
Cioè i Lep. Il prof Cassese ha così sintetizzato il suo pensiero sulla proposta presentata dal ministro Calderoli al governo (la 7 Omnibus 31 gennaio 2023). Ho citato il prof Cassese perché per me rappresenta un maitre a penser saggio e equilibrato.
Ma non in questa occasione, perché un vero saggio non dovrebbe limitarsi a seguire il proceduralismo formale delle leggi (le leggi, anche se fatte dal centro sinistra, potrebbero essere sbagliate e se sbagliate dovrebbero essere corrette); dovrebbe conoscere in subjecta materia le vere complessità in gioco; dovrebbe essere attento alle antinomie. Se si vuole differenziare allora è perché si è uniformato e non si vuole uniformare più.
La condizione dalla quale Cassese fa dipendere la fattibilità del regionalismo differenziato, cioè i Lep, è una condizione, per la sanità, del tutto insussistente ma soprattutto è una condizione insufficiente a garantire l’universalismo che lui auspica.
In sanità considerando le irriducibili complessità in gioco, non bastano né i Lea né i Lep per garantire l’universalismo. La ragione è semplice: in sanità per avere una eguaglianza sostanziale non basta una eguaglianza formale.
«Riprendiamoci il comune». Due leggi dal basso per un’altra autonomia
Per esempio (trascurando del tutto le questioni della singolarità e del contesto) a parità di malattia, per avere una cura adeguata, bisognerebbe che fosse garantita dalle stesse strutture, dagli stessi operatori in qualità e numero, con le stesse risorse, usando le stesse metodologie quindi supponendo prassi analoghe.
Ma siccome nella realtà queste condizioni non esistono, è incongruo, illusorio definire i Lep senza prima ridefinire le condizioni di funzionamento della sanità pubblica quindi le sue organizzazioni adatte. Ma non solo. Essendo la sanità pubblica sempre più privata, il mix pubblico/privato alla fine si rivela decisivo a cambiare le prestazioni da regione a regione.
Nella letteratura nazionale e internazionale abbiamo evidenze che ci dicono che la mortalità è più alta nella sanità privata e più bassa in quella pubblica. E questo anche se sia il pubblico che il privato si riferiscono agli stessi Lea o agli stessi Lep. Le prestazioni descritte nominalmente nei Lep o nei Lea sembrano uguali e definite con lo stesso nome ma quelle del privato sono diverse da quelle del pubblico. A renderle diverse è il loro scopo e i modi che si usano per conseguirlo.
Se l’obiettivo è il rispetto del diritto, le prestazioni saranno di un tipo se invece lo scopo è il profitto le stesse prestazioni saranno di altra specie. Secondo il principio tomista agere sequitur esse cioè “l’agire segue l’essere” quindi la prestazione finisce con il dipendere da chi la fa e da come si fa.
Infine vorrei ricordare al prof Cassese, che in sanità i Lea sono stati introdotti nel 1992 per ragioni di risparmio (all’inizio si parlava di prestazioni, poi di prestazioni minime e infine di prestazioni essenziali), che dopo la loro introduzione le diseguaglianze nel paese sono cresciute e che i Lea non hanno impedito alle regioni del nord di lucrare con la mobilità sanitaria sulle regioni del sud . Se per magia dovessimo fare i Lep garantendo al sud le prestazioni che non ha, si deve sapere che le regioni del nord senza la mobilità sanitaria rischierebbero di chiudere bottega.
Il fondo di perequazione che propone Calderoli è una vera foglia di fico. Non credo che basti rendere il mondo formalmente uguale per dire che le differenze regionali non sono più un problema. Non è così. Al prof Cassese bisognerebbe porre una semplice domanda: ammesso che i Lep non siano una garanzia di universalità, il regionalismo differenziato lo farebbe o no?
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Soldati a Kharkiv, Ucraina - Ap
La torretta col cannone che ruota velocemente mentre la base è ferma, la carlinga dell’aereo che sembra l’ultima versione di un’auto avveniristica. Queste sono le immagini che la Tv ci propina ogni sera: gioielli della dinamica e della meccanica che fanno acrobazie come animali addestrati sulla piattaforma di un circo equestre. A vederle quelle immagini, isolate dal contesto bellico, appaiono affascinanti, dimostrano la creatività dell’uomo per superare qualsiasi ostacolo materiale e per vincere l’attrito. Una creatività impazzita.
Ma sono destinate a uccidere molti nemici, a distruggere manufatti (non importa se chiese o ospedali o scuole), a seminare terrore. Si nascondono tra la vegetazione o sibilano nell’aria velocissimi. Non si vedono ma se ne attendono i boati che arrivano puntuali sugli obiettivi e che distruggono beni, oltreché persone, edificati con tanti sforzi collettivi. L’immagine seguente è terribile: palazzi sventrati e sfigurati, auto ridotte a carcasse, alberi sradicati, persone disperate (almeno i sopravvissuti) che vagano inebetite per le strade o fissano attonite quel che rimane delle loro case.
È la guerra. Chi mai potrebbe essere d’accordo con simili scene apocalittiche fino a ieri viste soltanto nei film e ora inaspettatamente reali? Da una parte si invoca la causa dell’accerchiamento delle potenze occidentali della Nato, dall’altra la giusta causa della resistenza all’invasione. E di queste “ragioni” che se ne fanno i morti, i corpi straziati, quelli avvolti impietosamente nella plastica come fossero rifiuti, smembrati, sfigurati; non più corpi né persone, scarti, oggetti, residuali bellici?
Lula, no armi all’Ucraina: «La nostra unica guerra è contro la povertà»
Dietro quelle immagini ci sono i veri mandanti invisibili: i cinici costruttori di armi, i fabbricatori di morte che vedono lievitare i loro profitti: ogni morto una percentuale di Pil che cresce e così per ogni carro inviato. La guerra è un grande affare per loro (e la ricostruzione pure) e la tecnica con cui si costruiscono questi “gioielli”, quella tecnica che alcuni ancora ritengono essere neutra (“dipende”, dicono, “dall’uso che se ne fa”) schierata e appiattita per rendere più efficiente la potenza di fuoco, ovvero il numero di vittime che seguono ad ogni colpo.
Un modo per resistere alla guerra, diceva Leiss, (il manifesto del 31 gennaio), è anche discuterne senza rinunciare al garbo e ascoltando della buona musica.
Il linguaggio della guerra (e Šostakovic)
A qualche malpensante potrebbe sembrare un atteggiamento cinico, mentre invece, come è nelle intenzioni dell’autore, è l’ultima speranza di riacquistare la ragione perduta. Contrapporre la forza dell’utopia che in passato qualche volta ha cambiato il mondo (il Sessantotto, Cuba, Allende, la guerra del Vietnam), contro la brutalità dell’insensato, e di quell’irrazionale dei media che vuole un capo di stato in conflitto intervenire a Sanremo, il festival delle canzonette che, magari, inneggiano innocentemente alla pace.
Il mondo è fuori squadra, diceva Amleto come quei quadri appesi che provocano fastidio per essere sghembi sulla parete. Il mondo è fuori di ragione, ha abbracciato l’istinto di morte che è altrettanto, anzi, più forte di quello dell’amore e della vita.
La stampa macina queste immagini, illustra i “vantaggi” degli ultimi carri confrontandoli con i vecchi: tutti ormai conosciamo i famosi “Leopard”; come da bambini eravamo affascinati da quei giocattoli innocenti.
Ne arriveranno dieci, cento e forse mille e, insieme a loro, “giocattoli” ancora più sofisticati per distruggere il mondo: non giocavamo così all’età di sette o otto anni?
Perché anche la guerra è ancora un gioco, una perversione maschile, non più innocente, ma sempre un gioco di morte tra potenze. Per anni abbiamo assistito, nei film, all’arrivo dei “nostri” contro quei barbari indiani che pretendevano di scorazzare per le praterie a caccia di bisonti. Ora il gioco si ripete mille volte più potente con l’umanità schierata da una parte o dall’altra, con tanto di generale Custer eroe ma, in realtà, crudele massacratore.
Fermiamola questa guerra, dimostriamo di essere ancora umani o perderemo per sempre la nostra innocenza schierandoci a favore di un martirio che per alcuni può essere anche affascinate, almeno finché a massacrarsi sono altri e lontani da noi. I sondaggi ci dicono che la maggior parte degli italiani (ma direi di tutti gli europei) sono contrari alla guerra e allora chi ha dato l’”ordine” ai nostri governati di farla e persino di continuarla?
Attenzione, diceva Hannah Arendt, il male può invadere e devastare il mondo perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”
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Giorgia Meloni ci informa, parlando a un evento di Poste Italiane, di volere una sola Italia, con servizi e diritti uguali per tutti. Non si rassegna – dice – all’idea che ci siano cittadini di serie A e di serie B. Benissimo. Sembra di sentire Mattarella, che non da poco parla un identico linguaggio. Ma come la mettiamo con l’arrivo in consiglio dei ministri del testo Calderoli sull’autonomia differenziata? C’è un nuovo testo della «legge di attuazione» dell’art. 116.3 a firma Calderoli. Quelli precedenti hanno sollevato una tempesta di critiche, di cui il ministro afferma di avere tenuto conto.
È sceso in campo persino Bonomi, presidente Confindustria. Ma il nuovo testo del 30 gennaio non presenta sostanziali differenze rispetto a quello già noto del 29 dicembre. Qualche limatura, su un impianto essenzialmente uguale.
In specie, si conferma la sostanziale emarginazione del parlamento, ridotto a pareri non vincolanti e persino non necessari. Conta poco che nell’art. 2.8 si preveda la trasmissione alle Camere «per la deliberazione ai sensi dell’articolo 116, terzo comma». Si abbandona la «mera approvazione» di cui ai primi testi, che alludeva a una mera ratifica, e la più sobria «approvazione» di cui al testo del 29 dicembre. Ma la terminologia ora adottata è abbastanza ambigua da consentire al momento giusto di tornare alla mera ratifica. Il parlamento è altresì escluso dalla fase di trasferimento delle funzioni e delle risorse, e dal monitoraggio nel tempo. Mentre si mantiene nell’art. 5 la compartecipazione al gettito tributario «maturato nel territorio regionale». Evidente assist alle regioni economicamente più forti.
Rimane altresì intatto il modello già acquisito per i livelli essenziali di prestazione (Lep) con i commi 791 e seguenti della legge di bilancio, esplicitamente richiamati. Anche qui, il parlamento è limitato a pareri non vincolanti, mentre i Lep sono adottati con decreto del presidente del consiglio dei ministri. Un modello di assai dubbia costituzionalità. Sul rapporto tra i Lep e l’avvio dell’autonomia differenziata la condizione viene individuata nella «determinazione» dei livelli. Il che suggerisce che basti la definizione formale, non richiedendosi l’applicazione in concreto con le necessarie risorse.
Qui cogliamo le difficoltà per Giorgia Meloni. Arriverà in consiglio dei ministri un ddl Calderoli che è una scatola vuota per quanto riguarda quanta e quale autonomia, per quale regione, a quali costi. I Lep sono un’altra scatola vuota, da riempire con la individuazione delle materie cui vanno applicati, dei livelli da assicurare, con quali risorse e tempi. Ma allora cosa e come decide il consiglio dei ministri? L’eguaglianza è una garanzia, una previsione, una speranza, un moto dell’animo, una presa in giro?
Il problema di fondo è che in un’Italia in cui tutti avessero già uguali servizi e diritti – per dirla con Meloni – sarebbe anche possibile avviare almeno in principio un progetto autonomistico nell’interesse di tutti in chiave di sana competizione tra territori per maggiore efficienza e risparmio di spesa. È quello che dicono di volere Zaia &Co. Ma l’Italia è tutt’altro. Le differenze tra territori esistono, sono devastanti e strutturali. Uguali diritti e servizi richiedono un massiccio impiego di risorse volte a migliorare la condizione di chi è svantaggiato. Il resto viene dopo. Giannola, presidente Svimez, quantifica in circa cento miliardi le risorse necessarie per attaccare gli squilibri territoriali. Si può discutere sulla cifra. Ma non si può esorcizzare il problema con un’alzata di spalle come fa Calderoli. E non si può negare che l’autonomia differenziata vada in un senso esattamente opposto. Potrà mai essere felicemente diverso chi ha una aspettativa di vita che dipende dal codice di avviamento postale? Bisogna prendere atto che i cittadini di serie B esistono. Meloni si rassegni, e veda di evitare che scendano in C.
Da ultimo Calderoli narra (La Stampa, 29 gennaio) che, come ministro, concederà l’autonomia in base alla virtuosità della regione richiedente. «Vedo la lista dei peccati e in base a quello do l’assoluzione o meno». E i peccati suoi? Gli proponiamo uno scambio. Se firma la legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica degli articoli 116,3 e 117, che vuole appunto prevenire i guasti a sua firma, gli concederemo una indulgenza plenaria. Può firmare anche online con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.
Commenta (0 Commenti)TEMPI PRESENTI. «Benedetto contro Francesco. Una storia dei rapporti tra cristianesimo e media» di Fabio Tarzia, per Meltemi. Al di là del confronto tra i papi, i due volti della Chiesa: severo e apocalittico o avvinto dal fascino della Storia. Per l’autore, se si considera il cristianesimo come religione o solo alfabetica o solo immaginifica, ha possibilità di tenuta parziali. Ma inteso in senso «creativo» la sua forza è indistruttibile.
«Martyrs (Earth, Air, Fire, Water)» di Bill Viola, 2014
Perché a noi laici può interessare il bel libro di Fabio Tarzia dal titolo forse un po’ ingannevole: Benedetto contro Francesco. Una storia dei rapporti tra cristianesimo e media (Meltemi, pp. 300, euro 24)? Ho detto titolo forse ingannevole poiché, si legge già nelle prime pagine, che esso non descrive la lotta tra due papi e neanche tra due diverse impostazioni della Chiesa cattolica, quanto piuttosto sulla lunga durata di due archetipi, del loro scontrarsi ma anche del loro dialogare.
SAREBBE FACILE opporre il primo (Benedetto), papa conservatore, a Francesco che propugna un’idea diversa di Chiesa, aperta, quasi opposta. Ma l’atteggiamento tradizionalista di Benedetto ha ragioni e radici lunghe e profonde nella storia della Chiesa che non possono essere facilmente liquidate. Al di là della controversia tutt’interna alla Chiesa, per noi non credenti è importante il messaggio indirizzato alla società civile. «Il mondo pensato da Ratzinger», dice Tarzia, «è uno spazio dove tutti dovrebbero “tenere la posizione” e dove, al limite, il cattolico avrebbe il compito di aprire, se può, le sue porte, e alla bisogna, mandare suoi emissari e missionari negli spazi altri.
Quello immaginato da Bergoglio è invece una dimensione in movimento, senza centro né periferia, senza “dentro” né “fuori” con i popoli che si incontrano». Alcune affermazioni dei due papi chiariscono ancora di più queste due concezioni. Nel Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2012, Benedetto afferma che «nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto ad emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare», certo a condizione che «diventa effettivo solo se si tengono sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione». Quanto basta per infiammare la stampa di destra che da sempre è ideologicamente contraria allo sbarco di migranti sulle nostre coste.
DEL RESTO, nella famosa lettera dei 67 docenti al Rettore de La Sapienza (2007) – primo firmatario Marcello Cini -, si invitava il Magnifico a non far inaugurare l’anno accademico da Benedetto sul tema fede e conoscenza (ritenuto «incongruo») perché c’era il rischio che replicasse quel suo Disegno Intelligente, teso a ricondurre la scienza sotto i dogmi della religione, come già manifestato nel settembre 2006 in occasione della visita all’Università di Ratisbona.
AL RIGUARDO TARZIA ricorda il grande Concilio ecumenico indetto da Giovanni XXIII che rappresentò (forse anticipando i tempi) il più importante momento di autoriflessione della Chiesa, con l’invito dirompente ai vescovi ad uscire dalle «capanne». A questo seguì, per l’autore, un progressivo arretramento ad opera di Giovanni Paolo II e una vera e propria chiusura con Benedetto XVI.
Benedetto XVI, un Papa conservatore dunque? Inaspettatamente a difesa del tradizionalismo, interviene Mario Tronti, che dalle pagine del Foglio afferma: «In un mondo e in un tempo in cui si portano i valori al mercato e si vendono come prodotti a scadenza ravvicinata, evocare valori non negoziabili serve a contrastare questa deriva. Conservare il meglio del passato diventa allora un atto di rinnovamento. “Superare conservando” ci ha insegnato una volta per tutte il vecchio Hegel, dai cui rami tutti discendiamo. Dico sempre ai miei compagni, che inutilmente si chiamano progressisti: studiate la complexio oppositorum, che la forma politica del cattolicesimo romano ha elaborato e sperimentato in secoli di presenza nella storia umana. Imparerete a fare politica un po’ meglio di quanto fate oggi».
Di questo parla il libro di cui è difficile dare conto delle 300 pagine ricche documentazione storica sulla Chiesa e le origini del Cristianesimo, sempre oscillante sui due volti di Cristo: quello aramaico, severo, apocalittico, predestinato, chiuso al mondo, in perenne attesa della Fine e quello greco, lieto, inquieto, avvinto dal fascino della Storia in continua ricerca della strada da percorrere. Ma questa insanabile contraddizione è proprio quella, come dice Tronti, che ha permesso al cristianesimo di sopravvivere a se stesso nel tempo.
VERSO LE CONCLUSIONI, riaffiora il tema trattato che fa da sfondo al libro, quello del rapporto tra cristianesimo e media, Tarzia afferma: «Se si considera il cristianesimo come religione o solo alfabetica o solo immaginifica, le sue possibilità di tenuta appaiono parziali, se non ridotte al lumicino. Ma +se lo si intende in senso multimediale e dunque “creativo” nella sua capacità di trasformare i media, di ricombinarli mantenendo stabile al centro la dottrina che ha edificato nei secoli, la sua forza è forse indistruttibile». Una buona lettura per chi è alla ricerca di una buona politica
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Il piano industriale verde lanciato da Ursula von der Leyen: l'analisi dell'economista Daniela Felsini
A Davos Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha annunciato il Piano industriale per il Green Deal, per rendere l’Europa “la patria della tecnologia pulita e dell’innovazione industriale sulla strada dello zero netto. Ne parliamo con Daniela Felisini, docente presso l’Università Tor vergata di Roma di Storia economica e Business History.
La professoressa saluta positivamente la notizia e individua i tre aspetti fondamentali: quello del piano industriale, quello finanziario e quello della concorrenzialità delle imprese europee nel contesto globale. Per Felsini, inoltre, è sempre più necessario, affinché le trasformazioni siano reali e durature, un'adeguata formazione delle nuove generazioni, che deve avvenire anche attraverso la consapevolezza dei temi legati al green deal e all'europeismo già dalla giovanissima età.
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