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EDITORIALE. I giochi per il riassetto degli equilibri europei, che saranno sanciti dalle elezioni del 2024, sono ormai aperti nei singoli paesi e a livello continentale. E in Italia si incrociano le spade soprattutto tra gli alleati del governo di destra
 

I giochi per il riassetto degli equilibri europei, che saranno sanciti dalle elezioni del 2004, sono ormai aperti nei singoli paesi e a livello continentale. E in Italia si incrociano le spade soprattutto tra gli alleati del governo di destra. Una competizione che può avere conseguenze non solo sui decibel della propaganda, ma anche sulle scelte concrete. E se Matteo Salvini fa squadra con l’estrema destra di Le Pen e dell’Afd, Giorgia Meloni non ha certo abbandonato al loro destino gli “amici” sovranisti.

La settimana scorsa a Bruxelles la premier, che non aveva esitato a definire «memorabile» l’intesa sui migranti contenuta nella bozza di conclusioni del Consiglio europeo, si è ritrovata subito nei guai. Il capitolo sui migranti è stato espunto dalle conclusioni perché il polacco Morawiecki e l’ungherese Orbán hanno contestato i contenuti e la modalità con cui era stato approvato il Patto sulle migrazioni che prevede il pagamento di 20 mila euro per ogni migrante non ricollocato dai singoli Paesi. E il tentativo di mediazione di Meloni è stato un buco nell’acqua. «Siamo d’accordo nel non essere d’accordo», aveva commentato Morawiecki, augurando buona fortuna alla leader di Fd’I. Il che è suonato come uno sberleffo a suggello della spaccatura del fronte sovranista.

Eppure la stessa Meloni, ieri sul Corriere della Sera, ha ripetuto proprio quella frase per minimizzare l’accaduto nella prospettiva di una alleanza in Europa tra il gruppo dei conservatori europei (Ecr) di cui è presidente e che comprende il Pis di Morawiecki, e il Ppe.

«Nel consiglio ognuno rappresenta gli interessi della propria nazione e ognuno fa bene a difendere i suoi. La posizione di Polonia e Ungheria non cambia nulla nei nostri rapporti» e appunto «siamo d’accordo nel non essere d’accordo su questa questione marginale. Tradotto significa ’è normale che ciascuno faccia il proprio interesse’». In sostanza la presidente del consiglio italiano difende il preminente «interesse nazionale» altrui anche quando questo va contro l’interesse della propria «nazione». Contraddizione apparente, perché il ragionamento corrisponde precisamente all’idea di Europa della leader di Fd’I: l’Europa delle nazioni, cioè dei nazionalismi. Anche a costo di entrare in conflitto con il nazionalismo dei più stretti alleati, ammesso che quello di Bruxelles sia stato il caso o che lo sia stato fino in fondo.

Perché la premier chiarisce anche che secondo lei il Patto migrazione e asilo che pure l’Italia ha votato non è una «soluzione efficace». Per Meloni la «priorità è fermare i flussi illegali prima che partano» e non «gestire gli arrivi». Non a caso parlando di «intesa memorabile» la premier italiana non si riferiva ai ricollocamenti da lei sempre considerati non prioritari, ma alla cosiddetta «dimensione esterna». Quella politica sulle migrazioni che appunto si preoccupa non di accogliere chi arriva in Europa, ma di impedire con ogni mezzo gli arrivi. Una linea ormai prevalente nella Ue e ancor più condivisa in tutto e per tutto dall’attuale governo italiano, la Polonia e l’Ungheria: la «fortezza Europa».

Se davvero spaccatura è stata, venerdì a Bruxelles Meloni troverà il modo di ricucire soprattutto con Morawiecki (con il quale l’alleanza è saldissima anche sul fonte della difesa dell’Ucraina): i due si incontreranno nei prossimi giorni a Varsavia per il seminario dell’Ecr e l’italiana saprà spendersi a sostegno delle rivendicazioni della Polonia (e dell’Ungheria) anche sul fronte dei contributi europei per l’accoglienza dei profughi ucraini e delle procedure d’infrazione aperte dalla Ue. A Varsavia non mancherà l’occasione di duettare su questioni come la “famiglia” (rigorosamente eterosessuale) o i tumulti francesi (tutta colpa dell’immigrazione irregolare…).

Nonostante l’inciampo di Bruxelles l’asse ideologico sovranista resta insomma solido. Malgrado le apparenze non è mai cambiato e mai cambierà. La Giorgia Meloni «mediatrice» prudente dai toni pastello risulta molto poco credibile: tanto più ora che in casa Matteo Salvini ha dato il fischio d’inizio della partita per le Europee 2024 e la sfida apertamente

 
 
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INTERVISTA. Parla Yurii Sheliazenko, leader del Movimento nonviolento a Kiev «Rischio la vita, ma non mi faccio intimidire dai guerrafondai. Putin e Zelensky restano supremi negazionisti della pace e cercano la vittoria sul campo. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, quindi li fanno letteralmente saltare»

Pacifista in Ucraina, il mestiere più duro: «Mi chiamano traditore» Yurii Sheliazenko

Lavora come consulente legale freelance, giornalista e scrittore, è stato ricercatore e docente di Diritto alla Krok Univesity, vive a Kiev. Barba e capelli lunghi, sempre un po’ trafelato, è il punto di riferimento in Ucraina del movimento pacifista internazionale. La sua organizzazione nonviolenta fa parte di EBCO/BEOC, l’Ufficio Europeo per l’obiezione di coscienza e della War Resisters International. Tra i suoi progetti, tradurre e diffondere in Ucraina i testi sulla nonviolenza di Gandhi e Capitini.

Yurii, come va? Che vita stai facendo da quando è iniziata la guerra?

Mi chiamano traditore, mi vengono rivolte minacce, rischio la vita, viene fatto pubblicamente il mio nome come nemico. Non mi lascio intimidire da tutto questo. Io mi esprimo contro i guerrafondai, contro tutti coloro che vogliono fare la guerra. La mia casa a Kiev è stata scossa dalle esplosioni di missili russi nelle vicinanze e le sirene dell’allarme aereo mi ricordano, giorno e notte, che la morte vola sopra la testa. Tuttavia, con il nostro movimento aiutiamo i civili a sopravvivere, continuiamo a sostenere l’abolizione del servizio militare obbligatorio, portiamo avanti studi sulla pace e cooperiamo con il movimento internazionale per la pace.

Che succede dopo lo scontro di potere tra Putin e Prigozhin?

Prigozhin non si è indebolito, ha salvato le sue sanguinose fortune, ha consolidato il suo esercito di mercenari e gli è stato permesso di trasferirsi in un luogo considerato sicuro. L’accordo ha aumentato anche il potere di Putin. Egli ha bisogno di eserciti di mercenari per le guerre ombra russe in tutto il mondo, e anche i suoi alleati cinesi potrebbero averne bisogno. Però questa vicenda ha dimostrato che anche due criminali di guerra rivali sono riusciti a negoziare una tregua tra loro e indica che i negoziati sono sempre possibili.

Qual è stato il vero ruolo di Lukashenko, secondo te?

La Bielorussia è una società ancora più militarista rispetto alla Russia. Prigozhin operava già in Bielorussia e questo nuovo accordo significa solo che la Bielorussia diventerà il suo quartier generale formale. Significa anche che Lukashenko ha intenzione di usare il suo esercito privato. La Bielorussia è una sorta di offshore per gli oligarchi di Putin, una giurisdizione nominalmente indipendente in cui è possibile salvare i propri soldi.

Al Vertice di Vienna per la pace in Ucraina, hai attaccato i «negazionisti della pace».

Nemmeno la distruzione della diga di Nova Kakhovka e l’alluvione di dimensioni bibliche hanno convinto Putin e Zelensky a fermare la guerra e a collaborare per salvare le vittime. Entrambi rimangono supremi negazionisti della pace, cercano la vittoria sul campo di battaglia e si rifiutano di prendere in considerazione qualsiasi possibilità di riconciliazione. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, e quindi fanno letteralmente saltare i ponti!

A chi dice che la sola alternativa è tra vittoria o resa, cosa rispondi?

Alcuni dicono che è immorale smettere di armare l’Ucraina per l’autodifesa, ma io credo che sia immorale alimentare la guerra con la fornitura di armi. L’unica speranza di uscire dal circolo vizioso è imparare a resistere agli aggressori e ai tiranni senza violenza, senza riprodurre i loro metodi e la loro follia militarista. Putin ha aggredito militarmente, ma noi non possiamo agire come se la difesa nonviolenta e la diplomazia non esistessero.

E ora come evolverà il conflitto?

La continua ecalation tra Russia e Ucraina rende ora impossibile pensare ad un cessate il fuoco. Putin insiste nell’intervento militare per liberare l’Ucraina da un regime fascista che uccide il proprio popolo. Zelensky mobilita l’intera popolazione per combattere l’aggressione e afferma che i russi si comportano come nazisti che colpiscono i civili. I media ucraini e russi usano la propaganda militare per chiamare l’altra parte nazisti o fascisti. Tutti i riferimenti di questo tipo servono a giustificare che si sta combattendo una «guerra giusta»: devi essere ossessionato dall’idea che «noi» dobbiamo combattere e «loro» devono morire.

In Italia ti accuserebbero di non saper distinguere tra aggressore e aggredito.

La guerra di Putin è senza dubbio malvagia, ma durante i sette anni prima dell’invasione russa in Ucraina, sia i russi che gli ucraini hanno violato l’accordo di cessare il fuoco in Donbass, in cui migliaia di persone sono state uccise. La verità è che molti ucraini non sono così innocenti, così come i russi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi dell’Occidente hanno potenziato la Nato che si sta espandendo verso Est. Entrambe le parti corrono il rischio di far scoppiare una guerra nucleare che può portare alla distruzione della vita sul nostro pianeta

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Quinta notte di rivolta francese, sale a 1.300 il numero dei fermi. E la giustizia di Parigi sceglie i processi per direttissima: garanzie ridotte e decine di udienze al giorno. Nel giorno dei funerali di Nahel, Macron cancella il viaggio in Germania e pensa a nuove misure

FRANCIA. Riforma del lavoro, gilet gialli, età pensionabile, violenza della polizia: gli ultimi sei anni, da quando Macron è stato eletto presidente come barriera a Le Pen, la Francia non fa che sollevarsi. E lui si fa scudo con le forze dell'ordine

 Poliziotto delle Bri a Parigi - Ap/Aurelien Morissard

L’antica saggezza orientale prescrive di fare attenzione ai propri desideri perché potrebbero realizzarsi. E il risultato non sarebbe quello aspettato. Dovrebbero ricordarsene, in Italia, i sostenitori del presidenzialismo come soluzione di tutti i mali perché l’esempio francese sta lì, diviso dal nostro Patrio Suolo soltanto dal tunnel del Monte Bianco. E non è un bello spettacolo.

Il presidenzialismo voluto dal generale De Gaulle nel 1958 ha creato quella che gli studiosi di scienza politica chiamano «monarchia repubblicana» perché, in fin dei conti, tutto fa capo al presidente. Non solo la politica estera e quella militare ma sostanzialmente ogni scelta importante, dalle sovvenzioni agli agricoltori fino ai concorsi per le grandi opere pubbliche come la nuova sede della Bibliothèque Nationale voluta a suo tempo da François Mitterrand.

Il primo ministro fa da capo di gabinetto, risolutore dei problemi e all’occorrenza parafulmine per

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COMMENTI. l viceministro Cirielli, senza vergogna, ai giovani di Fd’I: «L’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito», perché «abbiamo una cultura civilizzatrice»

L’eterno mito degli italiani brava gente e il falso Piano Mattei L’aviazione, considerata arma privilegiata, durante la guerra in Abissinia, è impiegata per bombardare anche con ordigni all'iprite e gas ustionanti

Disquisendo del ruolo dell’Italia meloniana nel «globo terracqueo» ieri il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, intervenuto alla festa giovanile di Fratelli d’Italia, ha riproposto un grande classico della falsificazione della storia nazionale. «Sia nel periodo pre-fascista sia durante il fascismo – ha detto Cirielli- l’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito e realizzato» perché «abbiamo una cultura civilizzatrice». La goffa uscita del vice-ministro non rappresenta soltanto un tentativo, già grave di per sé, di riqualificare le politiche coloniali ed imperialiste dello Stato liberale e del regime fascista ma punta, attraverso l’uso propagandistico del passato, a legittimare le scelte del governo del presente.

IL PRESENTE SAREBBE il cosiddetto «Piano Mattei» propagandato dal governo post-fascista fin dal suo insediamento e strutturato su tre grandi rimossi sia della storia d’Italia sia della stessa vicenda personale del fondatore dell’ENI. Il primo rimosso riguarda una foto simbolo cara a tutto il Paese democratico.

È il 6 maggio 1945 e nella Milano liberata sfilano le formazioni partigiane che hanno sconfitto i nazifascisti guidate alla testa del corteo dai comandanti del Corpo Volontari della Libertà: Mario Argenton, Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Giovan Battista Stucchi ed Enrico Mattei.

Dalla radice storica dell’antifascismo muove, dunque, il primo passo della vicenda umana, politica ed istituzionale dell’allora esponente della Resistenza cattolica e futuro presidente dell’ENI.

Il fondamento della Repubblica, l’antifascismo, che ancora oggi la Presidente del Consiglio Meloni ed il suo partito non riconoscono, come d’altro canto fece il loro «padre» politico Giorgio Almirante che nei giorni della Liberazione, al contrario di Mattei, scappava, travestito da partigiano, dall’uscita secondaria della Prefettura di Milano insieme ai gerarchi di Salò.

IL SECONDO RIMOSSO riguarda l’eredità del fascismo rispetto ai crimini di guerra compiuti in Africa nel corso della nostra «missione civilizzatrice» che alla fine della seconda guerra mondiale, pur meritevole di un processo di Norimberga sulla falsariga di quello celebrato contro i nazisti, venne rappresentata attraverso il falso mito auto-assolutorio degli «italiani brava gente».

Un mito evidentemente ancora caro a Cirielli che «senza vaneggiamenti» ne ha voluto rinverdire i fasti: «l’italiano è da sempre una persona che rispetta il prossimo. Noi non siamo, per natura, gente che va a depredare e a rubare al prossimo». Sarà stato per questa nostra innata bontà d’animo che l’aviazione fascista, nella ricerca del «posto al sole» voluto da Mussolini, scaricò nella sola «battaglia dello Scirè» del febbraio-marzo del 1936 oltre 200 tonnellate di esplosivo, bombe all’iprite e gas asfissianti (vietati dalle leggi internazionali) contro la popolazione civile. Una verità che solo nel 1996 e solo grazie agli studi storici di Angelo Del Boca (che subì per questo il linciaggio mediatico da parte dei noti «liberali» e «maestri di giornalismo» nostrani) venne ufficialmente ammessa dallo Stato italiano. Crimini di guerra sistematici confermati ormai da una mole ingente di documenti che illustrano la campagna di occupazione di Addis Abeba e le stragi di centinaia di migliaia di civili e partigiani etiopi insieme ai massacri ordinati da Rodolfo Graziani gerarca fascista, vicerè d’Etiopia, criminale di guerra e ministro delle Forze Armate dell’esercito collaborazionista di Salò a cui la Regione Lazio, guidata da Renata Polverini, nel 2012 ha costruito un mausoleo nella cittadina di Affile.

PROBABILMENTE per celebrare «la nostra cultura antica» che secondo il viceministro Cirielli di Fd’I «non ci fa essere un popolo di pirati che vanno in giro a depredare il mondo». La stessa cultura che spinse Graziani ad ordinare il 19 febbraio 1937, a seguito di un attacco contro di lui realizzato dalla Resistenza etiope, uno sterminio di massa (14.294 ribelli uccisi e passati per le armi e 50.000 case incendiate) culminato con la strage dei monaci coopti di Debrà Libanòs.

IL TERZO RIMOSSO del Piano Mattei della Meloni è l’autentico Piano Mattei pensato e praticato dal presidente dell’ENI fino al suo assassinio. Un’azione politica, economica e diplomatica interamente proiettata verso l’obiettivo dell’autonomia strategica dell’Italia sul piano energetico. Una scelta che pose Mattei in una condizione di scontro e rottura frontale non solo con gli interessi delle compagnie petrolifere delle «Sette sorelle» anglo-americane ma anche con il sistema delle relazioni internazionali di cui l’Italia faceva ed ancora oggi fa parte: l’Alleanza atlantica.Questo fattore rappresenta il rimosso più evidente e scomodo, e per questo più taciuto, della vera eredità di Mattei. Un lascito che mal si acconcia con la postura ultra-atlantista del governo post-fascista che ne usurpa il nome

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FRANCIA. Intervista ad Alain Bertho: «Il confronto con la rivolta scoppiata del 2005? Credo che stavolta Macron, l’allievo, abbia superato Sarkozy, il maestro. Sono molto preoccupato. Temo nuovi drammi»

La pedagogia della repressione conduce la Francia alla catastrofe La polizia durante la terza notte di proteste a Nanterre, fuori Parigi - foto Ap

Dal suo osservatorio di Saint-Denis, nella periferia parigina – dove è nato, cresciuto e vive ancora oggi – Alain Bertho è uno degli intellettuali francesi che meglio hanno affrontato il tema delle banlieue e del significato politico e culturale delle rivolte che vi hanno luogo. Professore emerito di antropologia all’Università Paris 8-Saint-Denis, Bertho ha dedicato a questi argomenti decine di opere, tra cui: The Age of Violence (2018), Les enfants du chaos (2016), Le temps des émeutes (2009).

Tragedia, dolore, rabbia. Cosa ci dice della Francia di oggi l’uccisione a bruciapelo di Nahel, 17 anni, da parte di un poliziotto, avvenuta a Nanterre martedì e che sta incendiando l’intero Paese?

Credo ci parli prima di tutto degli esiti delle due logiche politiche messe in campo dal governo e da Macron. Da un lato, un ulteriore aggravamento della violenza poliziesca e della repressione non solo nei confronti degli abitanti delle banlieue, ma anche dei movimenti sociali, come chi ha manifestato per le strade del Paese contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente. Dall’altro, il varo di una legislazione che rende possibile tutto ciò e che spinge nella direzione dello «Stato d’eccezione» ricorrendo all’uso nella vita quotidiana delle norme varate contro il terrorismo, con esiti sempre più gravi. Solo per fare un esempio, la prima conseguenza delle nuove regole sulla possibilità da parte degli agenti di fare ricorso alle armi da fuoco, adottate alla fine dello scorso decennio, è stato il raddoppio delle morti di questo tipo rispetto agli anni precedenti: nel solo 2020 sono state 40, ben 52 nel 2021, 39 nel 2022 e quest’anno già 13. Parliamo di persone uccise «a sangue freddo» in seguito a un intervento degli agenti.

In queste ore in molti evocano la grande rivolta scoppiata nelle periferie nel 2005 dopo la morte di due adolescenti, Zyed e Bouna, fulminati in una cabina elettrica per sfuggire alla polizia…

Credo che questa volta la pedagogia messa in campo dall’esecutivo rischi di condurci alla catastrofe. Nel 2005 fu assaltato un solo commissariato, oggi se ne contano già 25 in pochi giorni. Perché anche di fronte a milioni di francesi che sono scesi in piazza, penso ancora alle grandi mobilitazioni a difesa delle pensioni, il governo ha deciso di continuare ugualmente per la sua strada, praticando la repressione o un po’ di bricolage parlamentare per far passare ciò che voleva: il senso è, qualunque cosa accada e dicano i francesi, «decido io, comunque!». Di fronte a un tale scenario, come spiegare ai giovani delle periferie, che sono sottoposti quotidianamente alle pressioni delle forze dell’ordine, di stare tranquilli, rispondere con le petizioni e gli appelli, o rivolgersi alle forze parlamentari per far sentire la propria voce? Devo essere sincero, sono molto preoccupato. Temo nuovi drammi e che la risposta del governo sia quella di aumentare ancora di più l’armamentario della repressione. E, nel frattempo, si cominciano ad accusare gli esponenti dei partiti di sinistra di essere degli «incendiari» perché condividono le ragioni delle proteste che sono in corso.

Alain Bertho foto di Francine Bajande

Nel frattempo è però diventato evidente che la repressione un tempo applicata nelle banlieue si estende oggi all’intera società…

Assolutamente. Anche in questo caso si possono fare degli esempi concreti: l’uso dei Lbd (lanceur de balles de défens), i cosiddetti Flash-Ball che sparano delle palle di caucciù semi-rigido con grande forza e velocità è iniziato nel 1995 nelle periferie, poi si è cominciato a utilizzarli anche contro le manifestazioni, a cominciare da quelle dei Gilets jaunes, provocando ogni anno decine di feriti gravissimi, persone che hanno spesso perso la vista in seguito ai colpi ricevuti. E anche le Bac, le Brigade anti-criminalité della polizia, che oggi intervengono regolarmente contro i manifestanti hanno mosso i loro primi passi nelle banlieue. Perciò, in particolare in seguito alle manifestazioni dei Gilets jaunes, è andata emergendo una nuova sensibilità intorno alla brutalità della polizia. Si è capito che quella violenza non veniva esercitata soltanto sulla «racaille», ma nei confronti di chiunque si opponga. Che il tema della situazione delle banlieue e di cosa vi accade non riguardi più solo chi abita in queste zone, è del resto stato chiarito anche in questi giorni dalla vasta partecipazione alla marche blanche che ha avuto luogo giovedì a Nanterre e a cui hanno partecipato diverse migliaia di persone arrivate da tutta Parigi, compresi gli esponenti di alcuni partiti della sinistra.

Eppure nel 2017 Macron aveva cercato di conquistare i voti delle periferie, ora c’è chi lo paragona a Sarkozy che ebbe parole, e gesti terribili contro quei giovani…

Potremmo dire che l’allievo ha superato il maestro. Effettivamente, al momento della sua prima candidatura all’Eliseo, si è pensato che il liberalismo di Macron potesse rappresentare un argine al montare del razzismo nel Paese. Dopodiché si è incaricato lui stesso di smentire queste attese, dando vita ad una politica neoliberale che ha fatto dei diritti, a partire da quelli sociali, il proprio avversario principale. Inoltre Macron ha puntato esplicitamente sull’idea di mandare in mille pezzi il quadro politico del Paese, trasformando Marine Le Pen e il Rassemblement National nel proprio sparring partner e contribuendo così a rendere questa forza centrale nello spazio pubblico. Il suo governo ha poi lavorato alla «costruzione del nemico» in particolare criminalizzando, con la scusa del terrorismo, l’islam francese presente, guarda caso, soprattutto nelle banlieue. Il problema per Macron è che però «i poveri bianchi» su cui ha cercato di fare presa indirizzando le loro paure verso i musulmani, se li è poi trovati in piazza a manifestare in massa contro la sua riforma delle pensioni. E così si può dire che alla fine, il suo gioco non è davvero riuscito.

C’è poi anche «un’altra banlieue», quella che vota Le Pen: può la leader dell’estrema destra trarre vantaggio da questa situazione?

Marine Le Pen gode attualmente di una posizione di forza perché i partiti di sinistra non sono stati in grado di capitalizzare quanto è emerso nella società in opposizione alla riforma della pensioni, cosa che hanno fatto invece i sindacati. Questi partiti sono infatti troppo impegnati a decidere quale sarà il loro candidato alle prossime presidenziali. Le Pen si è opposta alla riforma e appare oggi, anche per quanto si è già detto, la più valida avversaria di Macron. Allo stesso modo, in questi giorni si erge a paladina dell’ordine e parla a quanti magari, in quelle stesse banlieue, temono di veder bruciare la propria auto. Questo intreccio di elementi fa sì che ancora una volta sia lei ad essere percepita come l’oppositrice più risoluta e forte del presidente. E visto che in molti guardano ormai alla politica e al voto solo in questi termini, c’è il rischio che su di lei si concentrino i consensi di quanti vogliono soltanto cacciare Macron dall’Eliseo e che si chiedono: «Chi, tra i possibili candidati, può essere davvero in grado di batterlo?»

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Per la sinistra è il momento più difficile. La destra ha conseguito una vittoria storica. È la prima volta dal ritorno della democrazia, dopo la fine della dittatura dei Colonnelli […]

Da Tsipras una scelta di responsabilità Sostenitori di Syriza durante l'ultima campagna elettorale - Ap

Per la sinistra è il momento più difficile. La destra ha conseguito una vittoria storica. È la prima volta dal ritorno della democrazia, dopo la fine della dittatura dei Colonnelli nel 1974, che il raggruppamento delle forze di destra e di estrema destra è molto più forte di quelle di sinistra e centro-sinistra.

Per la prima volta l’opposizione parlamentare è così debole, dal momento in cui la differenza è di circa 22 punti. In sostanza, almeno per un anno, cioè fino alle elezioni europee, il primo ministro e leader di Nea Dimokratìa Kyriakos Mitsotakis si muoverà senza avere alcun oppositore.

Syriza sta vivendo una crisi esistenziale, dal 2019 ha perso 14 punti, e viene minacciata dal Pasok nella sua posizione di leadership dell’opposizione. Tsipras oggi ha fatto ciò che doveva a se stesso e al partito, ha compiuto un gesto di responsabilità e di dignità. Le sue dimissioni erano necessarie perché più rimaneva al suo posto, più il partito si sarebbe indebolito e la sua stessa figura logorata.

Ovviamente adesso Syriza è chiamata a eleggere una nuova leadership, a mantenere l’unità e a ricostituirsi come partito. È evidente che la prima decisione da prendere è fare andare avanti la nuova generazione dei dirigenti. Non ci sono ancora candidati ma i volti che sembrano più adatti ad affrontare questa prova sono Efi Achtsioglou e Aleksis Haritsis

 

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