IL LIMITE IGNOTO. Europe for Peace: per l’anniversario dell’invasione russa, il 24 febbraio, in piazza in tutta Italia e in Europa
Manifestazione per la pace - LaPresse
Le recenti notizie sulla guerra in Ucraina destano non poche preoccupazioni. Come ha sottolineato lucidamente Francesco Strazzari sul manifesto siamo di fronte a un’escalation prevedibile nella sua inesorabile inerzia, ma i cui esiti sono davvero incerti: una guerra che si autoalimenta. Grazie anche a un continuo innalzamento dell’asticella militare: ciò che poche settimane fa era escluso e ritenuto pericoloso oggi è «una necessità alla quale non ci si può sottrarre». In troppi continuano a vedere solo orizzonti di «soluzione» militare, un mantra debordante sia nei media che nella politica a cui però molti sembrano resistere.
EPPURE, NONOSTANTE il martellamento, un recente sondaggio ha dimostrato ancora una volta la prevalenza nel nostro Paese di un disaccordo con l’invio di armi all’Ucraina. E una rilevazione promossa da Greenpeace evidenzia come la maggioranza (il 55%) degli italiani sia contraria al previsto aumento in spesa militare, con solo il 23% a favore. Dati che indicano come le azioni degli ultimi mesi a sostegno di pace e diplomazia di una larga fetta della società civile si possano considerare come espressione
Leggi tutto: «La pace è la vittoria di cui abbiamo bisogno» - di Francesco Vignarca *
Commenta (0 Commenti)ENERGIA. La strategia nascosta nell’«hub» fossile italiano per l’Europa porta allo stoccaggio di CO2 tanto caro a Eni? Su questo e altri dubbi un’interrogazione al governo sarebbe gradita
La firma degli accordi con l’Algeria tra Giorgia Meloni e il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune - Ansa
Dopo Draghi è la volta della Meloni, in Algeria per il gas. E questa volta non soltanto per ottenere un aumento della fornitura, ma per avviare un “piano Mattei”. Il piano Mattei, a quanto sembra, è un piano che vorrebbe fare dell’Italia “la porta di accesso per la distribuzione dell’energia” in Europa, riporta Avvenire. Il tutto nell’arco dei prossimi cinque anni. Una porta attraverso la quale non solo passa sempre più gas metano, rinforzando l’attuale gasdotto, ma anche idrogeno, in uno nuovo capace di convogliare sia gas che idrogeno, e un elettrodotto. Il bello è che il nuovo gasdotto e l’elettrodotto dovrebbero collegare Algeria e Sardegna, riferisce l’Ansa. Ma allora il futuro della Sardegna è a metano? Oppure a idrogeno? E l’elettrodotto? Ammesso che sia elettricità da fonte rinnovabile, perché? La Sardegna ha uno straordinario potenziale di energia solare ed eolica, tanto da renderla autosufficiente. Insomma c’è molto che non quadra.
VEDIAMO DI ESAMINARE il significato di questo accordo. Evidentemente si prevede che la domanda di gas nei prossimi anni – diciamo almeno una ventina per giustificare gli investimenti non irrilevanti in programma – aumenterà per compensare anche nel resto d’Europa il gas russo. Se così non fosse non si giustificherebbe. Quindi il nostro governo e l’industria italiana tutta, rappresentata dall’Eni e da Confindustria (erano presenti l’Ad dell’Eni Descalzi e il presidente di Confindustria Bonomi) ritengono che l’Europa e l’Italia la decarbonizzazione non la faranno, non arriveranno mai alla condizione “emissioni nette zero” nel 2050, visto che arriveremmo al 2045 continuando a consumare gas a profusione. E questo è confermato dal fatto che nello stesso tempo si chiede di aumentare il numero dei rigassificatori nei prossimi anni, compreso quello tanto contrastato di Porto Empedocle, che l’Enel ora ripropone; anche questi investimenti che richiedono un tempo di ritorno di almeno venti anni. Evidentemente non è possibile che facciano una mossa così platealmente in contraddizione con gli impegni dell’Europa, smentendo l’obiettivo di decarbonizzazione.
MA ALLORA COME SI SPIEGA questo piano? La risposta sembra solo una, e un indizio viene da altro degli accordi siglati, questa volta direttamente da Descalzi e il suo omologo algerino, capo della Sonatrach, un memorandum per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra e in generale la riduzione di CO2 nelle strutture produttive di idrocarburi.
VUOI VEDERE CHE LA COSA va messa in relazione alla tambureggiante e fuorviante pubblicità dell’Eni sulla stampa e sui social sui benefici della cattura e sotterramento della CO2, la CCS (Carbon Capture and Storage, cattura e stoccaggio del carbonio) che la comunità scientifica rigetta per numerose ragioni? Vuoi vedere che all’Eni danno per scontato che si metteranno a pompare CO2 nei giacimenti esausti dell’Adriatico e della pianura padana per spremere altro combustibile che da solo non verrebbe fuori? Combustibile che poi, ovviamente, verrebbe bruciato (sennò perché estrarlo?) producendo proprio quella CO2 che si era fatto finta di sotterrare. Se non tutta, certamente in parte.
VUOI VEDERE CHE il memorandum con gli algerini sottintende la prospettiva di costruire, parallelamente ai gasdotti che portano il gas dall’Algeria alla Sicilia, dei CO2dotti che trasportano CO2 dalla Sicilia all’Algeria per sotterrarla nei giacimenti esausti algerini e spremere dell’altro gas che poi magari viene avviato in Sicilia? È questa l’economia circolare secondo Eni? A pensar male si fa peccato… E per evitare che qualcuno possa pensar male, sarebbe bello che una qualche fonte governativa ci dicesse quale è il piano complessivo di decarbonizzazione italiano al 2050, in ossequio agli impegni europei, e in che modo questi accordi con l’Algeria si integrano nel piano stesso. La apparente contraddizione è troppo stridente perché non se ne chieda conto.
VIENE IN MENTE, per esempio, visto che tutte le iniziative concordate non possono materializzarsi prima di fra qualche anno, che è più saggio e più conveniente per il paese accelerare gli investimenti nelle rinnovabili, e rimuovere le cause burocratiche di rallentamento. Per esempio, se necessario, istituendo commissari regionali e/o un commissario nazionale che abbia il compito di semplificare tutte le procedure amministrative. E ancora, legiferando e soprattutto producendo i decreti attuativi per la promozione delle comunità energetiche. A questo dovrebbe servire una gran parte (oltre un terzo) dei soldi del Pnrr.
CERTO, ABBIAMO da sostituire il gas russo, ma facciamolo con lungimiranza: in parte lo sostituiamo con gas proveniente da altri paesi, il resto cominciando a ristrutturare il sistema energetico italiano in modo da facilitare il passaggio dal gas all’elettricità da rinnovabili.
UN GOVERNO CHE realmente promuove gli interessi dei cittadini costringe l’Eni e la Snam a investire nelle rinnovabili, invece che nei gasdotti e nelle nuove prospezioni ed estrazioni. E non solo. Un governo così deve promuovere in tutti i modi, e subito, l’efficienza energetica negli edifici, che sono quelli che consumano la maggior parte del gas che importiamo, intervenendo sull’involucro e sostituendo le caldaie con pompe di calore. E questo si fa con provvedimenti tipo il 110%. Si fa tesoro dell’esperienza, si individuano i punti critici (e sono tanti), si migliora e si rinforza, non si elimina e basta, perché allora il sospetto che la decarbonizzazione non si intenda farla si rinforza. E invece la nostra destra a Bruxelles che fa? Si oppone alla direttiva europea che mira proprio alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio. Esprime la posizione del governo? Una interrogazione parlamentare affinché si dia conto di tutti questi dubbi sarebbe benvenuta
Commenta (0 Commenti)Ciò che ieri non era nemmeno preso in considerazione diventa oggi «una necessità alla quale non ci si può sottrarre». I carri armati per l’Ucraina sono pronti. Il campo di battaglia muta: per quanto Mosca minacci, lo spettro del nucleare russo pare far meno paura. Prevale l’imperativo di rompere lo stallo sul fronte, mostrando a Mosca come l’inverno non abbia piegato la determinazione di chi difende l’Ucraina. Più cingoli e potenza di fuoco, prima che sia Putin a lanciare l’offensiva. Tutto segue un copione di escalation prevedibile (e previsto) ma dagli esiti quanto mai incerti: il protrarsi della guerra getta le condizioni per l’espansione della guerra stessa, e per un ulteriore nostro coinvolgimento.
Negli Usa, i senatori repubblicani affermano di ragionare «a mente aperta», e di non avere tabù nel considerare nuove spedizioni di armi, aggiungendo che occorre capire «verso cosa ci stiamo dirigendo». Gli Abrams M1 statunitensi non saranno operativi al fronte entro la primavera. Tuttavia, essi servono a superare le cautele di una leadership tedesca che deve ripensare tutto, sentendo il centro d’Europa scivolare a Est. Fino a poco fa gli alti comandi del Pentagono mettevano in discussione le chances di vittoria militare, lasciando pensare alla soluzione politica; oggi paiono invece dar corda all’idea della riconquista integrale.
Così i comandi ucraini annunciano che faranno tremare la Russia in profondità. È verosimile che Washington mantenga aperta l’opzione negoziale, partendo dall’assunto che con Putin si tratta solo da una posizione di forza: ma certo non ne parla, e davanti abbiamo combattimenti più intensi.
Torneremo dunque a vedere la guerra come scontro fra apparati industriali, e battaglie fra carri armati? I 31 Abrams americani sono in primo luogo un segnale politico: l’aspetto più rilevante non è il loro impatto militare, a fronte delle decine di tank che gli ucraini perdono ogni mese. Certo, se si aggiungono i Leopard tedeschi, più di 100 tank occidentali, opportunamente concentrati, possono rappresentare un grosso problema di tenuta per le linee di difesa approntate dai russi. Ma i carri, da soli, si sono rivelati più che vulnerabili alle armi anticarro (di cui peraltro gli ucraini abbondano).
Gli ucraini finora hanno puntato su una strategia di corrosione delle linee di rifornimento del nemico, più che su un assetto lineare o di sfondamento frontale. Scardinare la logistica russa significa indebolire le posizioni conquistate dai russi, costringendoli a ripiegare, come è accaduto a Kherson. I comandi russi però hanno appreso dai propri errori, e hanno iniziato a disperdere le proprie dotazioni sul territorio, soprattutto nella regione di Rostov, a 80-100 km dalla linea del fronte. Oggi è più difficile colpire i depositi di munizioni e gli snodi logistici. Questa è la giustificazione addotta da Kyiv nel chiedere armi a gittata più lunga. E così, avuta la certezza dell’arrivo dei carri armati, gli ucraini hanno iniziato a chiedere jet da combattimento. Lockheed Martin ha subito annunciato che aumenterà la produzione di F-16. Fra i pubblici segreti, possiamo annoverare anche il trasferimento, la scorsa primavera, di diversi MiG-29 dalla Polonia all’Ucraina, operazione mascherata in forma di invio di ricambi e componenti smontate.
La Russia, per converso, punta soprattutto sull’ampiezza delle perdite e delle sofferenze che può infliggere e che può tollerare. L’esercito resta incapace ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi ricevuti. Dopo aver sacrificato migliaia di uomini nel tritacarne di Bakhmut, Wagner fatica a ottenere forze fresche, trovando resistenze anche nel bacino dei carcerati. Ormai cerca reclute in Asia Centrale, mentre considera improbabili fusioni con le forze cecene, e discute di trascinare al fronte i renitenti alla leva e i disertori. Non basterà, perché servono decine di migliaia di uomini: una nuova mobilitazione, o il passaggio formale alla legge marziale in Russia sono ipotesi plausibili.
L’ondata di dimissioni di politici e funzionati colpiti da accuse di corruzione a Kyiv assume le sembianze di una purga che non risparmia nessuna personalità su cui i media abbiano sollevato ombre. Siamo davanti a un cambio di priorità politica: nell’assorbire il rilancio degli aiuti finanziari e delle forniture militari dai propri partner occidentali, l’immagine di integrità diventa ben più importante che non il rispetto dei sodalizi a cui è stata a lungo legata l’unità politica. L’Ucraina dipende interamente da assistenza e investimenti. Zelensky non si è fatto pregare nel tessere le lodi, fino ad apparirne un testimonial, delle grandi companies americane, citate come esempio di come «ciascuno possa diventare big business» prendendo parte a grande opportunità che è l’Ukraininan way, dove si difendono «libertà e proprietà».
Nel frattempo, sui social media imperversa la cosiddetta ambush pornography: video che ritraggono l’uccisione del soldato nemico a bruciapelo, accompagnati da colonne sonore sarcastiche, che irridono chi sanguina a morte, e suscitano caterve di commenti compiaciuti. Un esercizio di disumanità senza fine alla quale ci stiamo abituando sulle nostre frontiere
Commenta (0 Commenti)A lubrificare l’ingestione in chiave universale di tutta l’“energia di sempre”, ecco il termine che sta diventando più logoro di “sostenibilità”, e pure di “resilienza”: “Hub”. L’Italia “hub energetico per l’Europa” — ovviamente di tanti, tanti miliardi di metri cubi di gas — del quale il Mascellone già si autoproclama gran sultano. Però occorre un memento. “Hub” porta sfiga. “Malpensa”, l’aeroporto di Varese, doveva essere parecchi anni fa lo hub aereo italiano. Neanche oggi, nonostante ormai da tempo ci sia il trenino di collegamento, che, a forza di pigolare “hub”, si erano dimenticati di realizzare. E non doveva essere hub dell’acciaieria l’Ilva di Taranto? Per non parlare, negli anni Settanta, del “Quinto centro siderurgico” o della “Liquichimica”, di sicuro entrambi hub — anche se allora il prezioso termine non era in uso — di colossali perdite a carico della spesa pubblica
Claudio Descalzi in diretta dallo studio del Tg1; sotto il titolo, ad Algeri firma contratti commerciali, con la premier Giorgia Meloni sullo sfondo
FACILI PROFETI, PER voluto eccesso, quando preconizzammo che il Governo Meloni sarebbe stato la facciata del governo Descalzi-Bonomi! Per eccesso, per aver aggiunto a Descalzi il capo di Confindustria, tanto per evocare il mondo industriale formalmente rappresentato da quel “cugino povero” di Salvini, ancor meno perspicuo del “cugino”, e afflitto dalle dimensioni della sua “fabbrichetta” che produce, peraltro, minchiatelle biomedicali.
Algeria. Giorgia va come un treno ad alta velocità sulle tratte aperte da Draghi, che puzzano inesorabilmente di gas e lungo le quali, a fare salamelecchi ad autocrati africani gonfi di metano, l’uomo dal largo ma sottile sorriso ci mandava Di Maio, con il suo impeccabile costumino da lift del Grand Hotel. Ma l’Algeria è da sempre un “primo vicino” e grande esportatore di gas verso l’Italia, e quindi — quale Di Maio! — ecco in primo piano il Mascellone. Che ha dato mandato ai suoi adoratori: “Continuate con la prostasis davanti al mio busto”, nascosti là nelle latebre del palazzo dell’Eni, mentre lui alla luce del sole algerino avrebbe indossato, impudico, addirittura i panni di Enrico Mattei. “Proskinesis, ingegnere, proskinesis, niente prostata — gli ha sussurrato il suo visir. E, attenzione — ha continuato —, magari qualcuno in Algeria si ricorda per davvero di Mattei”. “Non capisci mai un tubo — gli ha sibilato con linguaggio da metanodotto Descalzi — innanzi tutto sono nato fisico, e poi non conta quel che ricordano gli algerini, ma quel che pensano gli italiani”.
“E a orientare i loro pensieri ci pensa il coro dei grandi media italiani” ha ghignato il ceo dell’Eni, avendo in mente il grondar idrocarburi delle disinteressate sponsorizzazioni che elargisce a stampa, Tv e centri universitari vari. Come sempre in “Plenitude”, ma con l’avvertenza che il melenso e pigolante coro di giornalisti che celebra la sua “Algeriade” calchi un po’ l’accento su “l’energia di sempre”. Se no li manda a fare il turno per la proskinesis. Oddio, magari non è una minaccia.
A lubrificare l’ingestione in chiave universale di tutta questa “energia di sempre”, ecco il termine che sta diventando più logoro di “sostenibilità”, e pure di “resilienza”: “Hub”. L’Italia “hub energetico per l’Europa” — ovviamente di tanti, tanti miliardi di metri cubi di gas — del quale il Mascellone già si autoproclama gran sultano (Domani, 26.1.2023). Poi, anche qualche cosina di rinnovabili, ma poco beninteso. Giusto per tacitare la “sovranità energetica” di Giorgia, che ogni tanto, memore delle sue letture goethiane, rivolge a El Ceo un amorevole rimprovero: “Kennst du das land wo die zitronen blühn?” (“Conosci la terra dove fioriscono i limoni?”, ndr).
Occorre un memento. “Hub” porta sfiga. “Malpensa”, l’aeroporto di Varese, doveva essere parecchi anni fa lo hub aereo italiano. Neanche oggi, nonostante ormai da tempo ci sia il trenino di collegamento, che, a forza di pigolare “hub”, si erano dimenticati di realizzare. E non doveva essere hub dell’acciaieria l’Ilva di Taranto? Per non parlare, negli anni Settanta, del “Quinto centro siderurgico” o della “Liquichimica”, di sicuro entrambi hub — anche se allora il prezioso termine non era in uso — di colossali perdite a carico della spesa pubblica.
Figuriamoci se il Mascellone, palluto com’è, si può abbandonare a riti apotropaici per contrastare evocazioni cariche di negatività! Allora, proviamo con il ragionamento. In un ciclo di interessanti seminari su temi energetici patrocinato dall’Accademia dei Lincei, a parte il confronto tra gli ingegneri e i progettisti dell’Enel con quelli dell’Edf sui modelli di gestione di un parco elettrico nazionale, tenne banco quello della Exxon, che, a colpi di puntuali slide sull’evoluzione dei grandi sistemi energetici, mostrò che nel “pianeta energia” i tempi delle innovazioni, e della conseguente programmazione, sfidano le decadi. È roba di quarant’anni fa, e si può sperare che quel sapere abbia scavalcato il muretto di via della Lungara per diventare patrimonio di chi si occupa d’energia.
Allora, programmare per davvero l’Italia come hub energetico — in realtà del gas, con un condimento di “idrogeno verde”, che non si nega a nessuno — è una scelta che va pensata sui prossimi trent’anni. Ora, anche se l’Europa non è la California, già entro i prossimi dieci anni avrà il 50% di energia prodotta da rinnovabili, a costi economici e sanitari assai inferiori e con ritorni occupazionali inconfrontabili con quelli della “energia di sempre”. Anche a fottersene del global warming, com’è virile attitudine di Descalzi, che non vuole donnicciole alla Thunberg attorno al suo busto, l’inquinamento da particolato, soprattutto PM2.5, che vede gli idrocarburi protagonisti, è responsabile di una “pandemia” di malattie respiratorie con oltre seicentomila morti all’anno in Europa. Già, ma siccome il giornalismo d’inchiesta è confinato in nicchie di informazione, mentre untuosi speaker si prodigano in lacrimosa empatia verso tutti coloro che soffrono e muoiono per una qualche patologia, tranne che verso i morti da idrocarburi, “tirem innanz” dice il Mascellone, novello amatore Sciesa, verso il patibolo. Non il suo, quello della salute degli Italiani.
Quanto alle prestazioni: «Entro il 2024, azzerata la dipendenza dal gas di Mosca!», annuncia trionfalmente da Algeri il dominus della politica energetica italiana. E anche della politica estera, lasciando a Tajani l’antico mestiere di raccattare con la paletta, come quando studiava da dogsitter di Berlusconi. Certo, altro metanodotto dall’Algeria, così Salvini smette di ripetere con labbro pendulo, anche davanti allo specchio, “Ponte sullo Stretto”. Eppure, se guardassimo alle vicende energetiche come Exxon già allora ammaestrava, potremmo snebbiare lo sguardo dal velo degli idrocarburi e guardare a quei 180 – 200 GW di Fer (Fonti energetiche rinnovabili), di cui Terna ha registrato la richiesta di allaccio alla rete. E magari provare a imitare la California, il cui Pil come Stato è il quarto del mondo (sopra la Germania), e che l’obiettivo “Net zero by 2050” lo anticipa di cinque anni. «La trasformazione economica più significativa dalla rivoluzione industriale» ha rivendicato il Governatore, Gavin Newson, insieme alla previsione di quattro milioni di nuovi posti di lavoro e duecento miliardi di dollari di costi sanitari risparmiati. Ma quale “untuoso” darà mai risalto di stampa o Tv a quest’ultima bazzecola?
Mentre Newson programmava, per migliorare ulteriormente la perfomance, di andare a ripetizione di “sovranità energetica” dalla nostra premier, El Ceo, con la mano sulla fondina come sente parlare di trasformazione economica “green”, ha incaricato il suo cerimoniere di organizzare un banchetto per i presidenti di Regione e i sovrintendenti che più gagliardamente si oppongono agli stupri che le Fer operano sul territorio. “Cernia e patate, e lo spumante della cooperativa” ha raccomandato Descalzi, che sa come trattare con la plebe. I croissant di Maria Antonietta erano altri tempi. E poi, avete visto com’è finita. Bonaccini, informato del menu, voleva passare la mano, ma si è ricordato dell’elegante party di celebrazione del Ccs di Ravenna, e, in un sussulto d’orgoglio ha preteso, con un bigliettino al Mascellone: “Oh, per me spigola e champagne”. Che uomo! © RIPRODUZIONE RISERVATA
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«MAI PIÙ». La memoria della Shoà è per raccogliersi nel lutto, per trasmettere la conoscenza dell’orrore assoluto, per il dovere pedagogico di formare le nuove generazioni perché formino anticorpi contro l’antisemitismo, il razzismo, l’antiziganismo, contro l’odio per le minoranze e le alterità e perché guardino al loro simile come ad un fratello
Ogni anno come nel succedersi delle stagioni, da vent’anni a questa parte, arriva la breve ma densa stagione della memoria. La memoria della Shoà è per raccogliersi nel lutto, per trasmettere la conoscenza dell’orrore assoluto, per il dovere pedagogico di formare le nuove generazioni perché formino anticorpi contro l’antisemitismo, il razzismo, l’antiziganismo, contro l’odio per le minoranze e le alterità e perché guardino al loro simile come ad un fratello. Questo è ciò che ci aspetteremmo dal «Giorno della Memoria». Ma da alcuni anni, per la verità già dopo un lustro dalla sua istituzione, ho cominciato a provare un crescente disagio verso le modalità della sua celebrazione che si svolge con un alluvione ridondante di retorica, di falsa coscienza e di ignobile
Leggi tutto: Il momento del dovere e della coscienza - di Moni Ovadia
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA. L’ex ministro del Lavoro: «Il Jobs Act ha fallito, non si è più competitivi facilitando i licenziamenti. Ci sono già troppi contratti a termine, non vanno aumentati. Schlein ha capito meglio di altri i nostri errori. Bonaccini? Se gli piace il vecchio manifesto perché ne ha votato uno diverso?». «No a scomuniche per chi vota contro le armi. I nostri elettori temono l’escalation militare»
Andrea Orlando, deputato Pd, ex ministro del Lavoro. Il governo si prepara a liberalizzare i contratti a termine, che già sono di gran lunga più utilizzati di quelli a tempo indeterminato.
Si tratta di una scelta da contrastare in ogni modo. Dopo la pandemia la ripresa dell’occupazione ha già sbilanciato il mercato del lavoro a favore dei contratti a tempo. La reintroduzione dei voucher e questo intervento porteranno ad un aumento della precarietà che già oggi è insostenibile a livello sociale e incompatibile anche dal punto di vista previdenziale: contratti brevi e con bassi salari contribuiscono a rendere insostenibile il sistema delle pensioni. Senza dimenticare che oggi la competizione si gioca sulla qualità del lavoro, l’illusione di favorire le imprese nel mercato globale svalutando il lavoro si è ampiamente rivelata infondata.
Il Pd è stato, con Renzi e anche prima, protagonista di una stagione all’insegna della flessibilità del mercato del lavoro. I conti con il Jobs Act li avete fatti o no?
Se l’obiettivo era produrre più lavoro stabile è chiaro che ha fallito. L’idea che rendere più facili i licenziamenti avrebbe reso più conveniente per le imprese assumere a tempo indeterminato si è rivelata sbagliata. Lo dicono i numeri, senza dimenticare gli interventi della Corte costituzionale che ha segnalato sperequazioni. Dunque per il Pd è tempo di ripensare completamente quella impostazione, senza furori ideologici ma senza rimozioni.
Ora il governo della destra si ispira alle scelte di Renzi.
Per la verità con il Jobs Act vennero introdotte alcune tutele. Ora si va solo nella direzione dello smantellamento, lo si fa però senza tenere conto di quello che è successo. L’idea di essere più competitivi comprimendo il costo del lavoro, senza toccare rendite e corporazioni e senza politiche industriali, si è rivelata inadeguata. Non solo ha creato questo alto livello di precarietà, ma quel modello che punta sulla dequalificazione del lavoro mette in discussione anche la tenuta delle stesse imprese.
Nel programma elettorale il Pd sembrava aver fatto passi avanti su questi temi. Ora invece nel congresso non se ne parla quasi più.
La rottura tra Pd e mondo del lavoro non avviene solo per colpa di Renzi, ma viene da più lontano. Da quando il centrosinistra ha deciso di chiedere molti più sacrifici ai lavoratori che al sistema di capitalismo relazionale italiano. La mancata ricostruzione e analisi di questi passaggi incombe sul nostro congresso. Va però detto che Schlein mostra una attitudine a riconoscere questo limiti, e a individuare delle correzioni. Sarebbe esiziale per il rapporto con il mondo del lavoro se, dopo aver detto delle cose chiare in campagna elettorale, le abbandonassimo.
E Bonaccini?
Anche lui riconosce il problema e propone di far costare di più i contratti a termine. Ma questi nodi non si risolvono solo in termini di monetizzazione.
Il messaggio che arriva dai vari candidati è contraddittorio. Il Jobs Act lo avete archiviato?
Ci sono settori del partito che provano nostalgia per il ciclo neoliberale, che non si rassegnano alla fine di quella stagione, che ormai è evidente per tutti, e non la criticano. Al massimo spunta qualche frase sulla lotta alle diseguaglianze, ma non si dice mai che sono figlie di un modello di sviluppo che non si vuole mettere in discussione.
Un Pd con una doppia anima. Crede che la convivenza sia ancora possibile?
I nostalgici degli anni 90 devono tenere conto che, così facendo, il Pd rischia di lasciare una autostrada al M5S. Di fronte alle tensioni sociali che aumenteranno, il partito di Conte rischia di essere visto come il riferimento più credibile per quel malessere. Lo dico io che sono stato spesso accusato di ecsessiva sintonia con il M5S: non merita questo regalo un partito che risponde al disagio sociale solo in termini di assistenzialismo. I fatti costringeranno chiunque vincerà il nostro congresso a fare i conti con i temi della de-globalizzazione, di cui discutono tutte le forze progressiste del mondo.Temi che anche la destra ha colto, come dimostrano le parole di Tremonti e del ministro Urso che ha convocato i sindacati per discutere di politiche industriali. Parole, per la verità, alle quali non sta seguendo nessun fatto. Lo dimostrano la vicenda Ilva e l’assenza di strumenti nella legge di bilancio.
Dopo l’approvazione del nuovo manifesto oggi il Pd ne ha due: quello del 2008 e del 2023. Sono molto diversi tra loro.
Direi che fa più testo quello appena approvato, anche senza abrogare esplicitamente il precedente. Ma ammetto che questa situazione è una spia delle difficoltà e delle incertezze del Pd. Spero che dopo il congresso si faccia finalmente la costituente.
Bonaccini dice che il manifesto del 2008 è ancora attuale.
In assemblea sono state dette cose diverse da tutti. Mi auguro, nell’interesse della credibilità del Pd, che si tenga fede a quanto detto. Perché altrimenti avrebbe votato anche lui un nuovo manifesto che dice cose diverse?
Forse si ritiene che questo passaggio alla fine non conti nulla. Che deciderà tutto il nuovo segretario legittimato dalle primarie.
Non voglio pensare che sia così, non fosse altro per il riguardo alle personalità del comitato degli 87 e a Letta. Questo partito avrà bisogno anche nei prossimi mesi di una interlocuzione con la società e con la cultura. Sarebbe un precedente molto negativo.
I nuovi arrivati di Articolo 1 sono sotto accusa per le posizioni contrarie all’invio di armi.
Risolvere la questione con scomuniche o richiami all’ordine mi pare un’idea balzana. Tra i nostri elettori ci sono molte preoccupazioni sull’escalation militare e perplessità di cui dobbiamo farci carico. Un pacifismo di sinistra e cattolico che fanno parte del nostro dna.
Nel ventennale della morte di Gianni Agnelli abbiamo assistito ad una sorta di beatificazione.
Non si è sviluppata alcuna capacità critica su una figura che è l’emblema di un rapporto non sempre sano tra stato e mercato. In rapporto che è stato la premessa al progressivo disimpegno del gruppo dall’Italia, nonostante il forte sostegno pubblico, anche recente. segno di una subalternità dell’Italia al gruppo. Cosa che non è accaduta in Francia, dove lo stato ha vincolato le risorse alla difesa della dimensione francese di Stellantis.
Il ministro dell’Istruzione Valditara propone stipendi differenziati per gli insegnanti da nord a sud e finanziamenti privati alla scuola.
Come si dice, tre indizi fanno una prova. Prima l’introduzione della parola «merito», poi l’idea che la scuola debba umiliare. Ora i privati e le gabbie salariali. E’ evidente che il governo intende smantellare la scuola pubblica
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