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ISRAELE/PALESTINA. Molti si chiedono sui social e nelle rassegne stampa: “Perché Gaza? Perché proprio ora? Com’è possibile?”. Joe Biden ha appena espresso il concetto che Israele ha il diritto di difendersi costi quel che costi, sottolineando: punto e basta

8 ottobre 2023, Gaza: l'area degli edifici distrutti dall'attacco aereo israeliano - Mohammed Talatene - AP 8 ottobre 2023, Gaza: l'area degli edifici distrutti dall'attacco aereo israeliano - Mohammed Talatene - AP

Dal minimo al massimo. Lancinante la richiesta del perché. Tombale quel “punto e basta”. Punto e basta quanto alla legalità, alla giustizia? Perché l’orrore si è scatenato, nel modo più disperato, tragico e autodistruttivo oltre che distruttivo? L’ONU ha emesso innumerevoli pronunciamenti sull’illegalità di un’occupazione militare crudele e, negli ultimi due anni, sanguinosa come un conflitto vero e proprio, dove la potenza occupante sarebbe invece responsabile della protezione dei cittadini dei territori occupati. Dal giorno dopo gli accordi di Oslo del ’93-’95 gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania si sono moltiplicati fino a divorare la quasi totalità del territorio che era stato assegnato dall’ONU ai palestinesi per il loro futuribile stato. Dai 260.000 circa che erano allora, i coloni sono passati a ottocentomila, con centinaia di migliaia ancora previsti.

In compenso Amnesty International prevede altre 150.000 espropriazioni forzate di abitazioni e terre palestinesi, mentre gli insediamenti dei coloni hanno ormai non soltanto mangiato una gran parte della Cisgiordania, ma distrutto ogni continuità territoriale, isolando i centri abitati dai terreni coltivabili, erigendo quel famoso sistema di muri che lungi dal garantire sicurezza agli israeliani serve a proteggere le colonie illegali, dunque non alla sicurezza di Israele (che semmai ne viene assai diminuita) ma alla “sicurezza” dell’occupazione.

E vogliamo parlare dell’escalation che ha visto quest’anno già oltre 250 vittime fra i civili palestinesi, a fronte della trentina di vittime di azioni terroristiche palestinesi, prima di questa orrenda esplosione della disperazione omicida e suicida? Gli attacchi quotidiani dei coloni armati senza nessuna sanzione o intervento da parte delle forze militari israeliane, le continue violenze spessissimo mortali da parte dell’esercito contro i civili in Cisgiordania, le carcerazioni amministrative senza capi di accusa né protezione giuridica, i bombardamenti a tappeto, ricorrenti, interminabili, lungo gli anni e i decenni, della “prigione più grande del mondo”, come l’ha descritta Noam Chomsky, Gaza: questo no, naturalmente non si può chiamare

terrorismo, e pazienza se le vittime sono quelle di una guerra, da decenni. E, pur senza alcuna proporzione, sono vittime, da entrambe le parti. E pazienza, ancora, se abbiamo sentito esponenti del governo israeliano, quest’anno, gridare che volevano vedere bruciati i villaggi palestinesi, a cominciare da quello di Huwara che fu messo a fuoco dai coloni senza alcuna reazione della polizia israeliana.

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Ecco: due rapporti dell’UN Special Rapporteur Francesca Albanese danno le risposte all’interrogativo sollevato dalla gente comune e – meno in buona fede – dalla stampa mainstream: perché? E tolgono il “punto e basta”, e sottolineano anche le nostre responsabilità come comunità internazionale e come Unione europea, che da sempre facciamo finta di non sentire le ragioni di quella “minoranza” fra le più oppresse del mondo; e riaprono gli occhi sulla deriva sempre più feroce dell’illegalità degli insediamenti israeliani, una delle questioni meno controverse nel diritto internazionale e nella diplomazia moderni, confermata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dall’assemblea generale, dal Consiglio dei diritti umani, dalla Corte internazionale di giustizia, dal comitato internazionale della Croce Rossa, dalle Alte parti contraenti la Quarta convenzione di Ginevra e da molte altre organizzazioni regionali e internazionali che si occupano di diritti umani.

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Il secondo rapporto di Albanese ha come filo conduttore la detenzione arbitraria che dal 1967 ha visto oltre 800.000 palestinesi, compresi bambini, arrestati e detenuti per tempi variabili, spesso ritenuti colpevoli senza prove, arrestati senza mandato, imprigionati senza accusa né processo e brutalizzati durante la custodia (è successo in questi giorni anche a un ricercatore italo-palestinese tornato in visita alla famiglia). Il tutto in un contesto di “carceralità diffusa”, espressione che descrive l’ingabbiamento della popolazione, i muri, i 400 km di strade inaccessibili, i checkpoint, la difficoltà di ottenere permessi di ogni genere.
Quello che abbiamo visto fare ai miliziani di Hamas in questi giorni è ingiustificabile, e sentirlo fare in nome di dio è rivoltante, perché “in nome di dio” si uccide e si attira lo sterminio sulla popolazione inerme che si voleva liberare. Ma su un muro vicino a Betlemme io ho visto scritte queste parole che da allora non ho più dimenticato: “Una mezza verità è la più vile di tutte le menzogne”