SAGGI. In «Daes. Viaggio nella banalità del male» (Meltemi), Sara Montinaro indaga la partecipazione femminile alla costruzione del progetto-califfato e ricostruisce la struttura interna dell’Isis, braccia militari, di intelligence, amministrative, di gestione dei foreign fighters
Che le donne e la loro libertà di scelta siano state tra le principali prede dell’ideologia del cosiddetto «califfato», tra Siria e Iraq, è tema ampiamente scandagliato dalla stampa mondiale. Vendute al mercato come merce inanimata e rese schiave dei miliziani (il destino di migliaia di yazide), obbligate nell’abbigliamento e dentro le mura domestiche (quello di centinaia di migliaia di siriane e irachene nelle zone occupate e amministrate dallo Stato Islamico), le donne non hanno avuto solo ruoli passivi.
A INDAGARE LA NATURA della partecipazione femminile alla costruzione del progetto-califfato, tra il 2014 e il 2019 in Medio Oriente, è Sara Montinaro in Daes. Viaggio nella banalità del male (Meltemi, pp. 164, euro 14). Attraverso interviste realizzate nella regione, a partire dal Rojava (il nord-est siriano teatro di un progetto sociale, politico e ideologico opposto a quello di Daes, il confederalismo democratico curdo che fa di uguaglianza di genere e lotta al patriarcato la prima pietra della liberazione dal colonialismo), l’autrice ricostruisce la struttura interna dell’Isis, braccia militari, di intelligence, amministrative, di gestione dei foreign fighters.
E descrive il ruolo delle donne, sia locali che straniere, le più feroci, le cosiddette «spose di Daes», infelice espressione coniata dalla stampa per definire le europee trasferitesi in Siria e Iraq per entrare a far parte di un «mondo nuovo». Infelice perché tradisce passività: le donne sono state anche soggetti attivi, prima con l’assunzione di una scelta di vita e poi con la concreta partecipazione alla costruzione di quel mondo. Sposano miliziani e mettono al mondo figli, i cuccioli del califfato, e lavorano alacremente al rispetto delle regole interne, terribili e soffocanti: una vera e propria polizia femminile che partecipa a torture e interrogatori, battaglioni militari che addestrano e avviano all’uso delle armi e altrettante unità virtuali dedite al reclutamento online.
Un attivismo che segue una sua gerarchia interna che Montinaro ritrova specchiata nei campi curdi dove donne (con i figli) appartenenti all’Isis sono detenute in attesa di processo o deportazione nei paesi di origine. È da lì, dai campi di Roj e al-Hol, che le prigioniere islamiste continuano a lavorare al mantenimento in vita dell’Isis, sia controllando (e nel caso punendo) la vita delle altre detenute che raccogliendo denaro da fuori, tramite cellulari clandestini, per pagare i trafficanti che le riporteranno a quella che ritengono la loro unica patria.
UN ASPETTO da non sottovalutare e che l’autrice ha il merito di raccontare: tra le capacità indiscutibili dell’Isis c’è l’aver reso attraente agli occhi di persone di ogni parte del mondo la certosina edificazione di una società che le opprimerà, imprigionando i suoi stessi membri in una lettura distorta dell’Islam. Dove le donne, come gli uomini, vestono panni doppi, vittime e carnefici, affascinati da un’idea auto-legittimata di mondo lugubre, ammantata di divieti, gerarchie di genere e schiavitù