La grande maggioranza degli italiani è contraria a contribuire economicamente a uno sforzo bellico. Ma questo, comunque la si pensi sulla guerra in Ucraina, non deve stupire. Da ormai più di trent’anni, giornalisti, politici ed economisti ripetono a reti unificate che gli italiani non si possono permettere un livello così elevato di spesa pubblica. Le pensioni pesano troppo sul bilancio dello Stato.
Per la scuola non ci sono soldi: i nostri insegnanti sono sottopagati e mossi più dalla passione per il loro lavoro che non da incentivi economici. Non parliamo poi di medici e infermieri, mestieri che richiedono ormai una vocazione pari a quella ecclesiastica. Sostegno ai disoccupati? Neanche per idea. Non ci sono soldi. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, così ci dicono, e ora bisogna stringere la cinghia. Intere generazioni, dagli adolescenti fino ad arrivare ai quarantenni di oggi, sono state cresciute con questo mantra.
Autorevoli economisti sono stati incaricati da altrettanto autorevoli governi di preparare piani di spending review, ovvero di revisione della spesa. Ora però pare che per finanziare la guerra i soldi si trovino eccome.
Secondo i conti di Sbilanciamoci e Rete Pace e Disarmo, nel 2024 l’Italia si appresta a destinare oltre 28 miliardi di euro alla spesa militare. 28 miliardi di euro è poco meno di un’intera finanziaria, quattro anni di reddito di cittadinanza, sette volte la spesa annuale in sanità della regione Calabria. Ma questo non basta: l’alleanza atlantica pretende di più. Vuole più coinvolgimento da parte degli Stati, più armi, più carri armati, più personale militare. L’obiettivo richiesto nero su bianco a ogni Stato è di dedicare lo 0,25% del proprio Prodotto interno lordo all’aiuto militare all’Ucraina. Per l’Italia, si tratterebbe di 5 miliardi e mezzo. Solo per l’Ucraina.
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Super-base sul Mar Nero, la Nato avvicina la RussiaEcco quindi che in Europa si discute di come finanziare ulteriormente lo sforzo bellico. Due sono le posizioni sul tavolo. Da una parte i soliti «falchi», con la Germania in testa, che vorrebbero che ogni Stato contribuisse per sé, tagliando ancora la spesa oppure aumentando le tasse. Dall’altra i «latini», Francia, Italia, Spagna, che spingono per l’emissione di eurobond, cioè di debito pubblico europeo.
In passato si parlò più volte di una mutualizzazione del debito, ovvero di una sua condivisione tra gli Stati membri dell’Unione, tramite l’emissione di obbligazioni – bond appunto – europei. Se ne discusse per fare fronte alla crisi del debito nel 2011, ma lì la politica interna ebbe la meglio sulla solidarietà. Sono state solo la crisi del Covid, e il finanziamento delle transizioni energetica e digitale a far saltare questo tabù. E ora che la via è aperta, gli eurobond potrebbero servire per costruire un’Europa militare, laddove non siamo riusciti a costruire un’Europa politica e tanto meno una solidale.
Ma quale ipotesi di finanziamento prevarrà alla fine? La storia insegna che in passato si è finanziata la guerra con la politica fiscale – ovvero aumentando le tasse o diminuendo la spesa – se il consenso a favore della guerra era alto e la paura per l’inflazione era bassa. Si è invece finanziata la guerra con il debito, innanzitutto interno, nonché stampando moneta – cioè aumentando l’inflazione – se l’opinione pubblica era contro la guerra e lo Stato aveva più difficoltà di ordine burocratico o economico a raccogliere tasse.
I paesi «frugali» sono oggi contraddistinti da avversione per l’inflazione e alto supporto per la guerra, e spingono quindi per la via fiscale. Gli elettori italiani e i loro vicini meridionali sono invece contro la guerra, ma soprattutto contro l’idea di aumentare le tasse.
Tra le due vie, entrambe folli, la soluzione si dovrebbe trovare in una terza strada. Riducendo, invece che aumentando, le spese militari, lavorando il più possibile per diminuire il livello della tensione e per arrivare a un negoziato, invece di sostenere questo scontro che non può portare nulla di buono per i popoli europei.
Perché la storia insegna anche che a guadagnare dalle guerre, alla fine, sono sempre e solo i produttori di armi.