Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

DECRETO CAIVANO. Tutta l’evoluzione del diritto minorile in Italia, dagli anni Sessanta in poi, è caratterizzato dal tentativo di dare ai minori che commettono reati la possibilità di uscire dal circuito repressivo. Quella che ora si manifesta appare invece una decisa inversione di rotta

La repressione che comincia a quattordici anni 

La repressione comincia a 14 anni? Oggi arriva in consiglio dei ministri un provvedimento sul “disagio giovanile”, che intende introdurre nuove disposizioni per contrastare il fenomeno delle baby gang e nuovi provvedimenti in materia di accesso ai siti pornografici. L’esecutivo vorrebbe unire in un unico testo, che si vorrebbe dedicato alle problematiche dei ragazzi, le misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, e un provvedimento ad hoc per mettere un freno all’abuso del porno online da parte dei minori.

Da quanto si apprende, le modifiche che si vogliono introdurre sarebbero tutte nel senso di aggravamenti – anche molto pesanti – di pena per alcuni reati e di misure restrittive, quali il Daspo urbano anche per i minorenni di 14 anni di età. Le proposte, gravide di minaccia, erano state sia pure confusamente anticipate in interviste ed interventi di vari esponenti del Governo e della maggioranza nei quali si è anche proposto di portare il limite della imputabilità penale sotto i 14 anni. Un limite questo previsto sin dal Codice penale Rocco del 1930 e che si rifà ad un principio minimo di

Commenta (0 Commenti)

STRAGE DI USTICA. Più volte Francia e Stati uniti tentarono di uccidere il colonnello e più volte Roma lo salvò. Fino al 2011

 Un'immagine di archivio dell'allora primo ministro Berlusconi con il colonnello Gheddafi

Meglio tardi che mai, ma già sapevamo come stavano le cose dalle indagini della magistratura. Dalla ricostruzione di Giuliano Amato sulla strage di Ustica, sulla quale attendiamo ulteriori prove che per ora mancano, emergono tre cose.

1) l’Italia, come noto, non è un Paese sovrano e pezzi delle istituzioni come i vertici militari sono stati più fedeli alla Nato che non alla repubblica e alla costituzione; 2) i nostri alleati, dagli Usa alla Francia, fanno sulle nostre teste quello che gli pare e non rendono conto a nessuno; 3) statunitensi, francesi e inglesi per oltre 30 anni hanno tentato più volte di uccidere Gheddafi, il maggiore alleato italiano in Nord Africa e ci sono riusciti nel 2011 senza per altro porre rimedio al caos che è seguito, lavandosi le mani delle conseguenze, comprese decine di migliaia di morti in mare.

LA STRAGE di Ustica del 27 giugno 1980, quando il volo Itavia sarebbe stato colpito da un missile dell’aviazione francese che mirava a un Mig libico (dove avrebbe dovuto esserci Gheddafi) facendo 81 morti civili, è stato un gesto orrendo che ha anticipato altre tragedie nel Mediterraneo e in Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq alla stessa Libia, guerre combattute dall’Occidente che si sono risolte in disastri epocali.

Per arrivare agli odierni colpi di stato in Africa, alla disgregazione di Françafrique e alla profonda sfiducia nei confronti di americani ed europei che con la guerra in Ucraina spingono verso l’escalation e aumenti della spesa militare senza trovare una soluzione diplomatica abbordabile al conflitto provocato dalla Russia di Putin.

Purtroppo, ma non aveva bisogno di dircelo Amato, tutto questo è avvenuto e avviene con la complicità della nostra classe politica e contro gli stessi interessi dello stato italiano. Esempio evidente la recente trattativa «segreta» condotta a Roma con la mediazione dell’Italia tra Libia e Israele che, appena diffusa dai media israeliani vicini ai militari, si è ritorta contro il governo di Tripoli e la stessa posizione italiana in quel Paese.

Un disastro diplomatico le cui conseguenze non sono passate in sordina, nonostante la propaganda di un governo che continua a concionare di un fantomatico Piano Mattei per l’Africa. La verità è che apparecchiamo la tavola altrui come camerieri servizievoli.

Tornando alle dichiarazioni di Amato a Repubblica, la realtà è che la presenza italiana in Libia e i rapporti tra Roma e Tripoli sono sempre stati mal tollerati dai nostri alleati. E l’Italia salvò più volte la vita al colonnello Gheddafi. A confermare missioni segrete e coperture dei governi italiani per proteggere la vita del dittatore libico sono già venute le testimonianze di chi quelle operazioni le condusse sul campo: agenti segreti ed esponenti politici.

BASTA GUARDARE le interviste del documentario del 2021 di Rai 3 «C’era una volta Gheddafi», diretto da Luca Lancise ed Emiliano Sacchetti. In una di queste Roberto Jucci, comandante generale dei carabinieri oggi in congedo, racconta la sua missione speciale in Libia e di quando, nel 1971, in veste di ufficiale dell’ex Sid (il servizio segreto della difesa), fu incaricato dall’allora ministro degli esteri Aldo Moro di incontrare il colonnello Gheddafi – padrone dopo il colpo di stato del 1969 dei pozzi petroliferi dell’Eni – per sancire una nuova amicizia con l’Italia. Un patto che per il Colonnello suonava come assicurazione sulla vita.

In un’altra intervista l’ambasciatore Antonio Badini, consigliere diplomatico del governo Craxi, espone i retroscena del salvataggio di Gheddafi dai bombardamenti americani del 1986, episodio confermato anche dall’ex ambasciatore ed ex ministro degli esteri libico Abdelraman Shalgam. Secondo Amato, Craxi avrebbe avvertito Gheddafi anche nel 1980 del tentativo di ucciderlo quando avvenne la strage di Ustica ma questo è punto ancora controverso.

Il tutto faceva parte della politica mediterranea dell’Italia negli anni di Andreotti e Craxi – con Amato sottosegretario alla presidenza del consiglio – già artefice del famoso braccio di ferro a Sigonella nell’ottobre 1985 quando il premier socialista impedì, coi militari italiani, alle forze speciali Usa di prelevare Abu Abbas in seguito al dirottamento della nave Achille Lauro.

SI TRATTA di una realpolitik perseguita in continuità dai governi di Roma, da Dini a Prodi, da D’Alema a Berlusconi, fino al Trattato di Amicizia firmato nel 2008, alla presenza di Gheddafi al G8 dell’Aquila e alla trionfale visita a Roma del colonnello nell’agosto 2010. Ma neppure sei mesi dopo con la rivolta di Bengasi del 2011 tutto cambia e prima l’intervento di Francia, Usa e Gran Bretagna e poi della Nato porta alla caduta e all’uccisione del dittatore.

L’Italia allora non si oppose, non tentò neppure di dichiarare, come fece la Germania, la sua neutralità. Vedremo cosa faremo oggi di fronte a queste nuove accuse di Amato alla Francia per la strage di Ustica: è evidente che i vertici dello stato e del governo non possono fare finta di nulla

 

Commenta (0 Commenti)

Ad abbattere il Dc9 Itavia «fu un missile sparato da un aereo francese». L’ex presidente del consiglio Giuliano Amato rilancia le responsabilità di Parigi nella strage di Ustica. L’Eliseo: «No comment». Meloni: «Se ha elementi nuovi vada dai magistrati»

43 ANNI DOPO USTICA. Amato ci porta all’interno di quello scenario internazionale che ci ha sempre delineato Andrea Purgatori, che anche oggi dobbiamo ricordare con riconoscenza, quando ci ha parlato di una partita tra Italia, Libia, Francia e Usa

Una sfida che ora la politica deve raccogliere

 

Penso che l’intervista di Giuliano Amato a Repubblica sia un grande contributo alla verità sulla strage di Ustica e gli sono davvero grata; ci viene da un qualificato protagonista politico che ha sempre avuto un ruolo significativo e positivo nella vicenda.

Voglio ricordare il suo intervento da sottosegretario per mettere a disposizione i fondi per il recupero del relitto del DC9 dal fondo del Tirreno, nel 1986: si è trattato di una spinta per superare un atteggiamento colpevolmente rinunciatario sul quale la Magistratura si era purtroppo adagiata. E ricordo poi la costituzione di parte civile del suo governo contro i militari rinviati a giudizio dal Giudice Priore, nei primi anni novanta. Anche quello un gesto altamente significativo perché spezzava, almeno formalmente, una catena di «continuità».

Una catena che portava le forze Armate, l’Aeronautica in particolare, ad essere non al servizio collaborativo con la Giustizia e la Magistratura bensì a partecipare e portare conoscenze soltanto alla difesa degli imputati.

C’è molta di questa esperienza maturata negli anni nell’intervista: voglio sottolineare il racconto del

Commenta (0 Commenti)

 La figura del logo, che richiama “questa bella d’erbe famiglia e d’animali” cantata dal Foscolo in odio alla morte e ai suoi sepolcri, si libra illesa su un mare di fuoco in un poliedro che è la Terra circondata dal cielo di Giotto. L’immagine è tratta da un manoscritto miniato armeno recante le concordanze tra i quattro Vangeli, eseguito per lo scriptorium patriarcale del katholikos Costantino I nel XIII secolo, ora custodito nel Paul Getty Museum di Los Angeles. L’allusione agli Armeni evoca il primo genocidio del Novecento, monito a ricordare che i genocidi passati e presenti sono i padri dell’attuale resistibile ecocidio.

 

L’appello “ai Pacifici” di Michele Santoro e Raniero La Valle per la formazione di un corpo politico che dia rappresentanza al Popolo della Pace, difenda e custodisca la Terra e rivendichi la Dignità di ogni creatura

Pubblichiamo l’intervento che Raniero La Valle, a nome suo e di Michele Santoro, ha pronunciato all’assemblea “E se spuntasse un Arcobaleno?” tenutasi il 26 agosto 2023  alla Versiliana di Marina di Pietrasanta.

Prima di tutto vorrei ringraziare Michele Santoro che con la sua straordinaria capacità di convocazione e lettura degli eventi, ci ha riunito in questa grande assemblea. Siamo qui  per dare voce a un sogno, un sogno comune, suo e mio, e credo anche vostro, il sogno che finalmente appaia un Arcobaleno.  L’Arcobaleno è un simbolo potente, perché unisce la terra col cielo. Sul cielo noi non abbiano giurisdizione, ma sulla Terra sì; e sulla terra che cosa vorremmo che questo Arcobaleno segnasse e portasse? Vorremmo tre cose, prima di tutto la Pace; la Pace non ha nulla al di sopra di sé, la pace è sovrana, la pace non ha scambi da fare con alcuna altra cosa al mondo, è la condizione di tutto, quella per la quale viviamo, speriamo ed amiamo. E la seconda cosa è proprio la Terra, questa Terra che ci stanno togliendo da sotto i piedi, questa terra infuocata, questa Terra dove si rompono le acque, questa Terra dove si accendono i fuochi, dove bruciano le foreste, dove finisce l’ossigeno, questa Terra che è la nostra madre, la dobbiamo recuperare, difendere, salvare. E la terza cosa è la Dignità, la Dignità delle persone che l’hanno perduta, a cui non viene riconosciuta. Pensate solamente ai migranti, non solo sono abbandonati al mare, ma prima ancora di essere lasciati al naufragio e alla morte sono negati nella loro dignità, vengono scambiati per denaro, si va a Tunisi a dire: “quanti soldi volete per non fare arrivare i migranti da noi?”. Allora queste tre cose, la Pace, la Terra e la Dignità sono le cose che noi vorremmo a questo Arcobaleno chiedere, perché si riversino qui sulla Terra. L’Arcobaleno è anche un segno polivalente, perché l’Arcobaleno può sorgere in qualunque punto del cielo. Noi vorremmo che sorgesse qui in Italia, in Occidente, dove giacciono i nostri valori, ma può sorgere anche altrove; io ricordo, nel 1987, avevamo una rivista che si chiamava “Bozze”, e facemmo un titolo così: se la Pace viene dall’Est. Allora erano altri tempi, c’era Gorbaciov, la Russia si chiamava in un altro modo, però in quel momento c’era la guerra atomica, c’era il pericolo dell’ecatombe nucleare, ma da lì venne la proposta di “un mondo senza armi nucleari e non violento”. E quindi l’Arcobaleno può sorgere oltreoceano, può sorgere qui da noi, può sorgere nel Sud del mondo, o può sorgere all’Est.

E allora per realizzare questo sogno, Santoro ed io, insieme, facciamo un appello. Non lo facciamo solo ai pacifisti, non è roba di pacifismo; noi abbiamo molta gratitudine per i pacifisti che hanno tenuto alta la fiamma della Pace in questi anni di guerre e di guerre. Però questo appello va al di là dei pacifisti. Noi facciamo un

APPELLO

Ai Pacifici, che sono una moltitudine. Ai figli di Dio che prendono la Terra per madre, Ai resistenti perché nessun volto sia oltraggiato e la Dignità sia riconosciuta a tutte le creature,  Agli eredi di milioni di uomini e donne che hanno lottato per il lavoro, per l’emancipazione e per la libertà dal dominio pubblico e privato, A quanti si ribellano al sacrificio – c’è questa ideologia del sacrificio – ci rivolgiamo a quanti si ribellano al sacrificio degli uni per il tornaconto degli altri. Ai giovani che abbiamo perduto, a cui non abbiamo saputo garantire il futuro.

È questo un appello che affidiamo agli organizzati e ai disorganizzati,  ai militanti di tutti i partiti, agli elettori di tutte le liste e agli assenti dalle urne, agli uomini e donne di buona volontà e a quelli di deluse speranze, a quanti godono di buona fama e a chi soffre di  una cattiva reputazione, agli inclusi e agli scartati .

Noi ci rivolgiamo a Voi non perché siamo da più di voi, ma perché siamo Voi.

Noi vogliamo dare una rappresentanza a  tre soggetti ideali che ancora non l’hanno o l’hanno perduta, a tre  beni comuni  che tutti dovrebbero curare e difendere  in questi tempi di ferro, tre beni comuni che sono il “minimo sindacale” o il “minimo politico” da rivendicare per tutti:  Anzitutto la Pace, da cui tutto dipende, nella quale viviamo, speriamo e amiamo, una pace da istituire come ordinamento originario e sovrano come lo è stata finora la guerra; in secondo luogo la Terra, da salvare come madre comune di tutti;  e infine la Dignità da rispettare di ogni creatura.

Quanto alla PACE, tutti dicono di volere la pace nel mondo, ma questa non si può nemmeno pensare se prima non finisce questa guerra in Europa, dunque è una seconda pace, ed è una bugia quella di chi dice di volere la seconda pace se non vuole e impedisce la prima.

Noi sappiamo invece che LA PACE DEL MONDO è politica, imperfetta e sempre a rischio. Essa è assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire non  rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati, implica prossimità e soccorso  nelle situazioni di distretta e di massimo rischio a tutti i popoli.

E sappiamo che l’antagonista alla pace non è semplicemente la guerra, ma è il sistema di guerra che ormai è diventato il vero sovrano e “padre di tutti”, tanto che comanda ogni cosa, pervade l’economia e domina la politica anche quando la guerra non c’è o non è dichiarata. Noi infatti siamo in guerra, ma avete forse sentito che le Camere abbiano deliberato lo stato di guerra, secondo l’art. 78 della Costituzione? E forse Mattarella ha dichiarato lo stato di guerra, secondo l’art. 87 della Costituzione? E intanto la guerra d’Ucraina non riesce a finire, benché in essa entrambi i nemici già ne siano allo stesso tempo vincitori e sconfitti. Una vittoria l’ha avuta infatti l’Ucraina che è diventata la star del mondo, è stata adottata dalla NATO e, pur tributaria dell’Occidente, non ha perduto la sua sovranità. Ma ha vinto pure la Russia perché ha fronteggiato la NATO, non è stata ridotta alla condizione di paria, come Biden voleva, né è stata espulsa dal consorzio mondiale.

Tuttavia  la guerra ha anche inflitto alla Russia, all’Ucraina e all’America una severa sconfitta. Alla Russia perché con l’aggressione ha compromesso  il suo onore. All’Ucraina perché chi, governandola, la doveva difendere l’ha gettata in una fornace di fuoco ardente, le famiglie sono divise perché gli uomini sono trattenuti per combattere mentre in tutti i 72 distretti di reclutamento, come è stato rivelato,  la corruzione ha permesso a molti di sottrarsi alle armi e la controffensiva ucraina è fallita.  Ma sconfitta è stata anche l’America perché non ha raggiunto i suoi scopi, ha profuso miliardi che peseranno sul suo debito, mentre viene messo in gioco il monopolio del dollaro negli scambi  mondiali, la sua vera ricchezza, né essa potrà conseguire quel dominio globale che si riprometteva debellando la Russia per poi far guerra alla Cina. E a pagare le spese della guerra siamo anche noi, i veri corrotti e sconfitti nel giudicarla e darne conto.

Ma se già sono arrivare vittorie e sconfitte,  perché questa guerra non finisce? Non finisce perché la guerra d’Ucraina, così ben piantata nel cuore dell’Europa per rialzare la vecchia cortina sul falso confine tra Occidente ed Oriente, è funzionale o addirittura necessaria al sistema di guerra, e perciò gli stessi negoziati sono stati proibiti.

Dunque, prima di tutto la Pace. Il secondo bene da salvare è la TERRA. La terra è in pericolo, essa non è un patrimonio da sfruttare, un ecosistema da aggredire, ma la casa comune da custodire, da tornare a rendere abitabile per tutte le creature, da arricchire con i frutti del nostro lavoro e le opere del nostro ingegno. Essa è  oggi in attesa di una nuova nascita e soffre le doglie del parto.

Infine, il terzo assillo è LA DIGNITÀ, degli uomini, delle donne e di tutte le creature. La dignità da difendere è quella della libertà e della ragione, del lavoro e del tenore di vita, la dignità del migrante per diritto d’asilo e del profugo per ragioni economiche, del cittadino e dello straniero, dell’imputato e del carcerato, dell’affamato e del povero, del malato e del morente, della donna e dell’uomo e, nel loro ordine, di ogni altra creatura.

Dunque abbiamo tre beni da salvare, come i “tria bona” di cui parlano i monaci di Camaldoli, lì dove qualche giorno fa è andato il presidente della Repubblica per ricordare il “codice di Camaldoli”. Ma prima di tutto noi vogliamo la pace  e ciò che è oltre la pace, e lo chiediamo a chi gestisce il potere, anche ai partiti. Noi non neghiamo rispetto e stima ai partiti e alle loro personalità più eminenti, ma sappiamo che essi non possono affrontare la totalità delle sfide e che in quanto partiti non sono tali da farsi carico di tutte le parti della realtà.

Perciò senza ignorare i partiti, prendiamo partito. Il nostro è un PARTITO PRESO per la pace, la Terra e la dignità, e a queste vogliamo dare una rappresentanza, una presenza, in tutte le sedi.

Non aspiriamo alla stanza dei bottoni, ma la vorremmo più aperta e trasparente, non ci affascinano i Palazzi ma i Parlamenti. Vorremmo una scuola che non trasformi i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è[1], ma in padroni della parola, coscienti e cittadini. Amiamo i valori dell’Europa e dell’Occidente ma congiunti a quelli di ogni altra tradizione e visione,  non pretendiamo un mondo a nostra misura, tanto meno uniformato al modello di “democrazia, libertà e libera impresa”, che si è voluto esportare con le guerre umanitarie e per procura, consacrando così l’”economia che uccide” e la guerra che è incompatibile con la democrazia e che anche prima del nucleare devasta la Terra.  Non vogliamo il “decennio di competizione strategica” progettato in America fino alla “sfida culminante” con la Cina. Pensiamo a una comunità internazionale placata e garantita da un costituzionalismo mondiale. Resistiamo al dominio e rifiutiamo la lotta per l’egemonia. Nei confronti di quanti oggi lasciamo in balia del mare e che noi, da soli o con l’Unione Europea,  respingiamo o ”ricollochiamo” nei lager e nei deserti, non è alla “sostituzione etnica” che dovremmo imprecare, ma è piuttosto alla sostituzione etica della nostra idea di confini, di identità e di supremazia che dovremmo provvedere.

 

Il nostro è dunque un appello per dare vita a una grande

Assemblea permanente

il cui obiettivo sia una politica che prenda in mano il mondo non per farne un impero delle armi e del denaro ma per preservarlo e fare sì che la natura sia salva e che la storia continui.

un’Assemblea permanente per rovesciare il corso delle cose presentI e preparare un altro avvenire per l’Italia e per l’ Europa.

un’Assemblea in cui tutti parlino e tutti ascoltino, un’Assemblea che mandi suoi rappresentanti in tutti i luoghi delle decisioni, che partecipi a tutte le elezioni, che abbia eco nelle università, nelle scuole, nei palazzi del potere, e susciti nuovi pensieri e progetti alternativi così nelle riunioni dei partiti come perfino nell’Assemblea dell’ONU.

Si avvicinano le elezioni europee e risuona per l’Europa la domanda gridata da papa Francesco: “Dove vai Europa?”. Essa ha tradito le ragioni della sua unione abbandonando gli ideali per cui è nata, che è il patrimonio di quanti hanno resistito all’idea di Europa voluta da Hitler, fino al sacrificio dei maquis in Francia, dei partigiani in Italia, dei ghigliottinati e impiccati in Austria e in Germania.

È materia di discussione se e come questo soggetto politico nascente dovrà avere un suo ruolo nel confronto elettorale, in ogni caso lo dovrebbe fare non  vivendo le elezioni come una competizione all’ultimo voto, nella consueta logica dello scontro tra amico e nemico. Perché non dovrebbe essere possibile nella competizione elettorale muoversi come  Alexander Langer chiedeva per il confronto politico,  in modo “più lento, più profondo, più dolce”?  la si dovrebbe affrontare in effetti in modo inclusivo, cercando tutte le convergenze appropriate e avendo per obiettivo il cambiamento  dell’Europa, perché si faccia protagonista dello stabilimento della pace sulla Terra.

Questo cambiamento implica anche l’aggiornamento delle culture e dei linguaggi, l’abbandono degli stereotipi e delle parole  usurate, Bisognerà rovesciare le priorità, per essere credibili, bisognerà dire non “prima Noi” ma “prima gli ultimi”, perché se si salvano gli ultimi si salvano anche i primi, bisognerà dire che ogni straniero è cittadino,  che ogni patria straniera è nostra patria, e ogni patria è straniera. E dovremmo operare perché tutto ciò si faccia ordinamento con le sue Costituzioni, le sue leggi, le sue garanzie e le sue giurisdizioni per tutta la terra.

Infine vorrei citare un altro sogno, di David Maria Turoldo, un grande poeta e amico nostro, traendolo da una sua poesia dedicata a Rigoberta Menchù, un’india del Guatemala  che ha lottato per i diritti del suo popolo maya e delle altre minoranze oppresse, e per questo ha ricevuto nel 1992 il Premio Nobel per la pace. Rigoberta aveva raccontato questa storia in un libro intitolato “Mi Chiamo Rigoberta Menchù” e padre Turoldo le aveva dedicato una ballata dallo stesso titolo, prendendola a simbolo del riscatto  dei poveri e della lotta per la pace.  Io vorrei citare questa ballata cambiando semplicemente il nome di Rigoberta Menchù nel nome di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni con la maglietta rossa, di etnia curda, che fu  trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, dopo un naufragio che almeno quella volta commosse il mondo, un gommone che fu travolto e annegarono in molti, anche un suo fratello e la  mamma..  Questa famiglia, fuggita dalla guerra in Siria, non aveva ottenuto di poter emigrare in Canada, e per rifugiarsi in Europa aveva osato un tragico passaggio in mare; dunque il piccolo Alan con la maglietta rossa è un simbolo di tutti e tre i beni che abbiamo perduto o stiamo perdendo: la pace, la Terra, e la dignità delle persone, la dignità sia di quanti sono rifiutati e diventano residui umani nel mare, come pane spezzato che noi abbandoniamo ai pesci dicendo: “prendete e mangiate”, sia di chi li respinge e li scambia per denaro.

Commenta (0 Commenti)

GOVERNO. Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure […]

 Migranti sbarcano dall'Ocean Viking al porto di Napoli - Ansa

Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure di stampo esclusivamente repressivo che già in passato hanno dimostrato un totale fallimento. Gli annunci sembrano mirati ad esigenze elettorali ed al riaggiustamento dei rapporti di forza all’interno del governo, piuttosto che alla soluzione di problemi che vengono definiti «epocali».

La proliferazione dei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) in ogni regione, di fatto con un raddoppio dei posti disponibili (oggi meno di 1.200), e ulteriori strutture di detenzione amministrativa per le procedure accelerate in frontiera, da riservare ai richiedenti asilo che provengono da paesi terzi ritenuti sicuri, come la sezione detentiva del nuovo hotspot di Pozzallo-Modica, che dovrebbe aprire il primo settembre, come la stretta sulle procedure di rimpatrio e sui criteri per l’accertamento dell’età dei minori non accompagnati, con una modifica di quanto previsto dalla legge Zampa del 2017, sono tutte misure che, al di là dei gravi problemi di legittimità costituzionale e di conformità con la normativa europea ed internazionale, sono destinate, non solo a «deludere sul piano dell’efficacia», come sostiene una parte dell’opposizione, ma a produrre in pochi mesi una emergenza umanitaria senza precedenti.

SULLA PELLE delle persone più deboli che comunque arriveranno sulle nostre coste, e comunque resteranno nel nostro paese, in condizioni di assoluta incertezza, anche se si può dare come scontato un leggero calo delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia per il peggioramento delle condizioni atmosferiche in autunno. Calo che però potrebbe essere compensato da un aumento dei migranti, forzati a lasciare quei due paesi, per una nuova deflagrazione militare della crisi libica, e per l’inasprimento della persecuzione nei confronti dei migranti subsahariani, da parte della Tunisia di Saied, principale partner della politica estera e migratoria italiana in nordafrica. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni a Lampedusa, a Porto Empedocle ed in tanti centri di prima accoglienza in Italia. E con gli effetti a catena in Libia, ancora spezzata in due tra il governo «provvisorio» di Dbeibah a Tripoli, ed il Parlamento di Tobruk sostenuto dal generale Haftar a Bengasi.

INTANTO la legittimazione internazionale strappata da Dbeibah con la firma del Memorandum d’intesa Ue-Tunisia, fortemente voluto da Meloni, è servita per rigettare nel deserto al confine con la Libia centinaia di persone rastrellate nelle aree urbane della Tunisia sud-orientale (soprattutto a Sfax). E proprio da quei territori si sono moltiplicate le partenze verso l’Italia, a cui ha fatto seguito il congestionamento totale dell’hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Altra crisi umanitaria innescata dal governo Meloni, e dal ministro dell’interno Piantedosi, perché allontanando con l’assegnazione di «porti vessatori» e con «fermi amministrativi» le navi del soccorso civile che potevano sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali in diversi porti di destinazione in Sicilia e Calabria, se non con trasbordi su unità della Guardia costiera italiana, è saltata qualsiasi possibilità di programmare gli sbarchi, dopo i salvataggi in mare, ed i trasferimenti via terra, come si verificava nel 2017, prima del Memorandum Gentiloni con la Libia, e prima del Codice di condotta per le Ong imposto da Minniti. Ormai, su oltre 76.000 persone sbarcate quest’anno, soltanto poco più di 4.700 persone sono state recuperate da navi del soccorso civile. Nel 2016, a fronte di oltre 178.000 persone soccorse in mare, le navi delle Ong ne avevano salvate direttamente 46.796, secondo i dati uficiali della Guardia costiera, adesso oscurati. Il cosidetto pull factor, fattore di attrazione operato dal soccorso civile, su cui hanno costruito campagne elettorali e processi penali non è mai esistito. Lo hanno accertato anche i giudici, lo confermano i fatti.

La maggior parte degli «sbarchi» sono ormai «autonomi», magari con l’assistenza a distanza di unità della Guardia costiera o della Guardia di finanza in acque internazionali, e poi con veri e propri interventi di salvataggio nelle acque Sar di competenza italiana. Mentre continua la sostanziale delega alla sedicente guardia costiera libica quando le chiamate di soccorso arrivano dalla zona Sar assegnata al governo di Tripoli. Rimane il grande buco nero della zona Sar maltese, nella quale La Valletta non invia mezzi di soccorso, e possono arrivare anche i libici a sparare sulle navi delle Ong. Ma tutto questo viene ignorato da chi sventola come unica soluzione un nuovo Decreto sicurezza.

Vediamo così che mentre una parte dell’opposizione attacca il governo lamentando la scarsa efficacia degli interventi e degli accordi che dovrebbero garantire una riduzione degli arrivi, le scelte del governo non divergono troppo da quelle inaugurate con il secreto Minniti-Orlando del 2016, sul terreno delle procedure di asilo e della detenzione amministrativa, e poi rafforzate con i due decreti sicurezza Salvini che nel 2018 destrutturavano i sistemi di accoglienza, e nel 2019 criminalizzavano i soccorsi umanitari.

NON È FACILE fare proposte, che pure ci sarebbero, con una opposizione tanto divisa e incapace di autocritica, ed un governo che, attraverso la maggioranza assoluta in parlamento riesce a fare passare norme in aperto contrasto con la Costituzione e con gli obblighi internazionali. Il ruolo del parlamento è sempre più marginale a vantaggio delle iniziative dei ministri. Ci si lamenta del mancato supporto europeo, ma poi, anche sul piano energetico, si opera secondo una linea politica marcatamente nazionalista, come emerge nei rapporti con la Tunisia e con il governo di Tripoli, fino al disastro diplomatico del recente incontro a Roma, organizzato da Tajani, tra il ministro degli esteri israeliano e la ministra degli esteri del governo Dbeibah, costretta alla fuga in Turchia per gli scontri che ne sono scaturiti in tutta la Libia. Ed anche su questo si comprime il diritto all’informazione.

In ogni caso dovrà ripartire una forte mobilitazione per una regolarizzazione permanente di tutti quanti sono tagliati fuori dalle procedure di ingresso legale per lavoro, per il superamento dei centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, per garantire i diritti fondamentali, a partire dai diritti di difesa e dal diritto di chiedere protezione (nelle varie forme di asilo costituzionale) a tutte le persone «comunque presenti» in Italia, dopo il loro ingresso nel territorio nazionale, dunque anche nelle procedure di identificazione e di protezione «in frontiera» come impone anche l’articolo 2 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98. E quindi sarà necessaria la sospensione immediata della lista dei paesi terzi ritenuti, spesso a torto, «sicuri» con la revisione di tutti gli accordi di riammissione o di cooperazione di polizia con quei governi che non rispettano effettivamente i diritti umani.

La lotta ai trafficanti si può fare ripristinando davvero la cooperazione giudiziaria, non certo patteggiando con le milizie colluse con i criminali. Non si potranno creare per decreto legge zone franche escluse dal rispetto delle garanzie dello stato di diritto, in Nordafrica, ma anche in Italia. Oggi questo vale per le persone di origine straniera, domani potrebbe valere anche per i cittadini italiani

 

Commenta (0 Commenti)

Incontro segreto in Italia tra i due nemici storici, Israele e Libia. Ma Tel Aviv rivela tutto e fa scoppiare il caos. Tripoli brucia di protesta, Biden è furioso. Il ministro degli esteri Tajani ne esce a pezzi: si è fatto beffare da uno dei suoi migliori alleati e non ha ancora capito la Libia

ISRAELE/LIBIA. La Farnesina responsabile di una fallimentare manovra diplomatica, con lo zampino statunitense. A uscirne danneggiate sono Roma e la Tripoli di Dabaiba, già debolissima

Tajani si fida degli israeliani, media l’incontro segreto e cade nella trappola Il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani - Ansa

Come se non bastassero l’indomabile instabilità libica (55 morti in scontri tra fazioni tripoline a cavallo di ferragosto) e la tragica questione dei migranti, il ministro degli esteri italiano Tajani ha favorito la scorsa settimana un incontro segreto a Roma tra il capo della diplomazia israeliana e la ministra libica Mangoush (data per «sospesa» e in «viaggio» verso la Turchia).

Gli israeliani sui media hanno fatto trapelare la notizia ed è scoppiato un putiferio in Libia: sono esplose le proteste popolari – anche manovrate ad arte – e soprattutto l’esecutivo di Daibaba, quello con cui tratta Roma, appare sempre più in difficoltà.

INSOMMA, l’Italia e il suo alleato libico sono caduti in una trappola assolutamente da evitare. Se gli Stati Uniti – che finalmente dopo oltre due anni di assenza hanno inviato un ambasciatore a Roma – intendono allargare il Patto di Abramo tra Israele e i Paesi arabi forse è il caso di lasciarlo fare a loro: a noi non ne viene in tasca nulla (anzi), se non una medaglietta per un governo che discetta di un fantomatico Piano Mattei per l’Africa senza neppure avere i

Commenta (0 Commenti)